Cesare Borgia

duca di Romagna

著者
Edoardo Alvisi
初版
1878年
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IL DUCA VALENTINO.


CESARE BORGIA
DUCA DI ROMAGNA

NOTIZIE E DOCUMENTI
RACCOLTI E PUBBLICATI

EDOARDO ALVISI.

IMOLA.
TIP. D'IGNAZIO GALEATI E FIGLIO
Via del Corso ; 35.

1878.

Proprietà letteraria.

 Il libro che pubblico fa parte di alcuni altri sopra la storia di Romagna, ai quali potendo darò mano appresso, e tratta del domìnio ' borgiano durato tre anni dal 1499 al 1503. Ne raccolsi i materiali ne' diplomi ne' carteggi e ne' diarì romagnoli, e se confacenti al soggetto, ne raccolsi ancora in quelli di altre parti d' Ita lia, molti inediti e molti editi dal Canestrini, dal Guasti, dal Trincherà, dal Cappelli ; — affinchè, esaminate le diverse versioni, come i diversi giudizi che vi si leggono, la critica potesse procedere più sicuramente certa nella storia dei fatti.
 Del dominio di Cesare Borgia poche carte si conservano negli archivi di Romagna, disperse o dall'incuria o dall'odio. In alcune città, come in Rimini Faenza ed Imola, si desiderano perfino i libri consigliari, e se in Pesaro restano, vi mancano i fogli di quelli anni, fatti stracciare dal ritornato -signore Giovanni Sforza. Ma degli atti ducali, se non si rinvengono gli originali nelle filze degli archivi o nelle particolari collezioni fatte per le biblioteche di Faenza e di Rimini, spesso si leggono le copie altrove, — come nelle cronaca di Andrea Bernardi di Forlì manoscritta nella biblioteca nazionale di Parigi; o di Giuliano Fantaguzzi di Cesena, di cui è pubblicata una versione latina tolta dal Caos. A suo luogo, quando occorreva, notai dove esiste ciascuno dei documenti. L' archivio che più ne conserva è quello d'Imola, forse ivi raccolti dall' imolese Giambattista Pascoli statosegretario dei governatori di Romagna, durante il principato. In quello di Cesena, né a me né agli amici fu possibile alcuna ricerca, così grande ne è la confusione; pure delle moltissime carte che vi debbono essere, ebbi copie di alcune nella biblioteca malatestiana o nell' archivio di Bertinoro.
 Altri documenti estrassi dagli archivi di Bologna, Modena, Firenze, Siena, Genova ecc. e dalla biblioteca nazionale di Parigi. In quello di Bologna mancano affatto gli atti della signoria bentivogliesca, eccettuati i contenuti nei libri pubblici della città ; ma de' due principali trattati, quello di Villafontana del 1501 lessi trascritto nella cronaca di Fileno delle Tuate inedita nella biblioteca dell' università, e quello d' Imola del 1502 rinvenni in una relazione di un procuratore di Giovanni Bentivogli, posseduta dall' archivio di Bazzane. Delle carte estensi avrei voluto vedere il carteggio dei governatori della Romagnola ferrarese, ma non potei — perché, mi si disse, non era ancora bene ordinato ; — ottenni invece un mandato di procura per i castelli di Russi Granarolo e Solarolo, mancato agli spogli per la Lucrezia del Gregorovius. I pochi documenti, che mi si mandarono dalla biblioteca nazionale di Parigi, mi furono di inutile spesa, perché alcuni già pubblicati particolarmente dal Molini; ne ebbi uno solo nuovo, un'istruzione del 1501 dopo la guerra di Napoli: mi mancarono l'intimazione regia del 1500 per il riacquisto di Pesaro Rimini e Faenza, la convenzione del 1502 per l'impresa contro il Bentivogli e gli Orsini, e la transazione del 1503; ma di questa esiste una copia nell'archivio di Firenze, già riportata dal Villari dopo i dispacci di Antonio Giustinian.
 Così tutte le carte del periodo borgiano sono oramai comparse, e se ancor ne restano, vanno ognora comparendo : ultimamente il Fumi pubblicò quelle di Orvieto, il Borgnini quelle che furono dei Farnese dell' archivio di Parma, e il Cantù annunzia esisterne altre nel grande archivio di Milano fra le quali il carteggio di Alessandro VI e di Lodovico Sforza.
 In fine, per appendice al racconto, riprodussi i più importanti di quei documenti, di amici o di nemici, di testimoni o di attori, — come se costoro che pure in essi si sentono muovere e parlare, dovessero anche una volta narrare i propri casi, difendersi ed accusare l' uà l' altro, e commentare il grande dramma compiuto.

SOMMARIO. (1474-1499).
 I figli del card. Rodrigo Lenzol-Borgia. — Studi di Cesare; suoi maestri. — I pomponiani. — Un miracolo di suor Colomba da Rieti. — Una visita a Pier de' Medici. — Alessandro VI. — Gli amori di Giulia Farnese. — Cesare cardinale. — Gli Orvietani lo vogliono protettore della loro città. — Sua fuga dal campo di Carlo Vilì. — Alessandro VI ed i santi del suo tempo.— Letterati ed artisti favoriti da Cesare: compra il Cupido di Michelangelo. — Colonna ed Orsini. — Separazione di Giovanni Sforza eUTEùcrezia. — Fra Girolamo Savonarola consola il papa per l'assassinio di Giovanni di Gandia. — Un opuscolo sul mal francese. — La spada di Cesare. — Prime accuse contro di lui. — Fatto duca di Valenza; sposa Carlotta d'Albret. — Guerra di Lombardia.

I. — (1499 — ottobre 1500).
 La Chiesa e la Romagna. — È desiderata dai Veneziani e dai Fiorentini. — Un'opinione di N. Machiavelli.— Cesare luogotenente di Luigi XII. — Entra in Imola, salutato liberatore. — Caterina Sforza ed i suoi figli; cerca di far avvelenare il papa. — Parlamento fra lei e Cesare sulle fosse della cittadella di Forlì. — Morte del card. Giovanni ad Urbino. — La prigionia di Caterina. — Alessandro VI investe Cesare delle contee d'Imola e Forlf. —Ti giubileo del 1500. — La corte ducale, letterati latini ed italiani. — II sonetto su l'idra di Serafino Aquilano. — Ferimento e morte di Alfonso di Bisceglie. — I giudizi di P. Cappello sui Borgia. — Cesare é acclamato signore in Cesena. — I Veneziani lo fanno loro gentiluomo. — Lo scultore Pier Torrigiano é soldato del duca. — Riprende al suo servizio Bernardino Pinturicchio.

II. — (ottobre 1500 — maggio 1501).
 La seconda guerra di Romagna. — Pandolfo Malatesta e Giovanni Sforza. — I Riminosi ed i Pesaresi mandano ambasciatori a Cesare per offrirgli la signoria. — La Comunità di S. Marino. — Paure dei Signori vicini. — Pandolfo Collenuccio visita Cesare. — I preti di Faenza contro l'interdetto. — La difesa di Astor Manfredi. — La cronaca di Andrea Bernardi. — Feste fatte in Cesena; liberalità del duca, sue abitudini. — Intimazioni a Giovan Bentivogli di non soccorrere il nipote. — Un romanzo di Pietro Bembo. — Passaggio d'Isabella d'Aragona e d'Ungheria. — È ripreso l'assedio di Faenza; Cesare punisce un traditore del Manfredi. — Assalto di Bologna. — Eccidio dei Marescotti. — Gli Orsini spingono il duca contro Firenze. — Impresa di Piombino. — Una lettera di Simone del Pollajolo.

III. — (giugno 1501 - luglio 1502).
 Giovanni Olivieri governatore di Romagna. — Cesare signore di Pesare e di Fano. — Di Castel Bolognese é fatta Terra Cesarina. — Lavori di Leonardo da Vinci ingegnere ed architetto ducale. — Prigionia di Astor Manfredi. — La torre di Capua. — Accuse contro il duca. — Suo ritorno dalla guerra di Napoli. — Un infante, figlio di Alessandro o di Cesare? — Pratiche del matrimonio di Lucrezia con Alfonso d'Este. — I libelli contro i Borgia, la lettera a Silvio Savelli. — Vendette di Cesare contro i detrattori. — Per la dote della sorella dà in pegno tre castelli di Romagna. — Rigori di don Remiro di Lorqua nuovo governatore, grazie del duca. — Passaggio del corteo nuziale per le città romagnole. — Antonio da S. Gallo fortifica Civita Castellana. — Leonardo segue il papa ed il duca a Piombino. — Michele Corella. — Ordinamenti del ducato. — La Rota della giustizia. — Girolamo Soncino stampatore in Fano. . 197-263

IV. — (luglio 1502 — settembre 1502).
 La terza guerra di Romagna. — Paure di Guidobaldo di Urbino e di Giovan Bentivogli. — I capitani ducali, Oliverotto Eufreducci in Fermo. — Francesi e Spagnuoli nel Regno. — La profezia di S. Cataldo sul bue borgiano. — Morte di Astor Manfredi. — Gli Orsini e Vitelli vogliono far Cesare re di Toscana: per lui gli Aretini si ribellano dal dominio fiorentino, i Pisani lo acclamano signore. — Improvviso assalto di Urbino. — Fuga di Guidobaldo e del nipote. — Cesare dice al vescovo Soderini di voler spegnere i tiranni. — Resa di Camerino; incerta sorte dei Varano. — II Marchese di Mantova si prepara a cavalcare contro di lui. — Luigi XII protegge i Fiorentini. — Cesare va a trovarlo in Milano, e fa cadere in disgrazia i suoi capitani. — Visita di Leonardo da Vinci alle fortezze di Romagna. — II duchino di Camerino. — La dieta della Magione.

V. — (settembre 1502 — gennaio 1503).
 Gli Orsini ed il Bentivoglio fanno pratiche di accordo. — I villani fel treschi entrano in S. Leo, il Montefeltro é ribellato. — Andata ad Imola del Machiavelli; suoi giudizì. — I ducali rotti a Calmazzo. — Guidobaldo ritorna in Urbino, e Gian Maria Varano in Camerino. — La Romagna é quieta. — Paolo Orsini apportatore di pace. — II Bentivogli fa accordo separato. — Salvacondotto per i mercanti di Firenze e di Romagna. — Impresa di Sinigallia. — II duca in Cesena ; partono da lui le lance francesi. — Arresto e supplizio di don Remiro. — Gli Orsini ed i Vitelli lo aspettano in Sinigallia. — Come avvenisse la presa. — Fuggono da Città di Castello i Vitelli, da Perugia i Baglioni, é fatto partire Pandolfo Petrucci da Siena. — Cesare salutato liberatore. — I dispacci di Antonio Giustinian. — Minacce dei Veneziani. — Supplizio dei Varano alla Cattolica. — Ordinamenti della Romagna. — La milizia del ducato — Arti e industrie. — Donato Bramante. — Francesco da Bologna nella stamperia sonciniana. — Un ritratto di Cesare.

VI. — (gennaio 1503 — aprile 1507).
 Cesare si propone la monarchia in Italia? — Alessandro VI vuoì restituire alla Chiesa tutte le terre romane. — Pandolfo Petrucci é rimesso in Siena. — Guidobaldo tenta uu nuovo ritorno. — Nuove imprese di Cesare, sua anuunziata partenza da Roma. — La cena negli orti del cardinale Adriano di Corneto. — Malattia del papa e del duca. — Perché Alessandro VI si dicesse avvelenato. — I cacciati signori ritornano — Cesare mezzo vivo é sicuro in Roma. — I ducali difendono la Romagna dai Feltresi e dai Veneziani, scacciano Pandolfo da Rimiai. — Convenzione con gli ambasciatori francesi. — Pio III conferma Cesare nel gonfalonierato della Chiesa. — Bartolomeo d'Alviano giunge in Roma per ucciderlo. — I Fiorentini rimettono i Manfredi e gli Ordelaffi, i Veneziani assediano Faenza. — Giulio II promette a Cesare di favorirlo. — Il duca si prepara ad andare in Romagna — Le promesse di Giulio — È ritenuto ad Ostia. — I Cesenati persistono nella signoria di lui. — Suoi detti nella prigionia. — È ritenuto a Napoli. — Il cartello di sfida di Baldassare di Scipione. — Fine.

DOCUMENTI



 Fra i tanti atti della famiglia Borgia che in questi anni furono pubblicati, mancano quelli che riguardano Cesare, il più famoso di tutti i figliuoli di Alessandro VI ; onde se altre memorie non ricorressero, sarebbero affatto ignorati i primi anni della vita di lui. Nacque, come si crede, nell'aprile del 1474 quando Vannozza de'Cattani aveva trentun'anni di età ed il cardinale Rodrigo Borgia quarantatré.

   Saggio d'albero genealogico della famiglia Sorgia, di L. N. Cittadella, Ferrara.

Piccoli erano allora i suoi destini. Il padre suo, malgrado le tradizioni di Calisto III, aveva così poca riputazione di diventare pontefice, che nessuna grandezza era promessa a quel fanciullo che un di, disfatta l'opera di Sisto IV, che allora divideva le terre di Romagna fra figliuoli e nipoti suoi, doveva riunire in una sola signoria quegli stati spezzati. Altri figliuoli prima di lui aveva avuto il cardinale, ai quali se mai il padre era eletto al papato, spettava rinnovare il principato di Pier Lodovico duca di Spoleto, la cui subita rovina faceva ognora più desiderabile. Dei quattro figli di Vannozza, nel 1490 Giovanni era in Ispagna ad ereditare il ducato di Gandia del morto Pier Luigi altro figliuolo del cardinale avuto da altra donna, Lucrezia era in casa di Adriana Mila nipote di Calisto, e Cesare e Jofré erano affidati a precettori particolari che li assistevano nei primi studi.
 Nel 1488, a quattordici anni, Cesare per concessione di Innocenzo VIII era già protonotario della Sede apostolica. Suo precettore era uno Spannolio majoricense, un retore spagnuolo che aveva dato il nome a quell'Accademia di Pomponio Leto alla quale convenivano gli studiosi da ogni paese. In quel 1488 un Paolo Pompilio stampa in Roma una Syllabica che dedica al giovinetto, per il quale ad istanza del suo precettore dice di averla composta: nel presentargli quel libretto, che doveva insegnargli l'arte de' carmi, il retore si compiace del grande studio che Cesare pone nelle buone lettere, perché da quei lieti principi gli appare la dignità che sarà per conseguire, egli che é la speranza ed il decoro di casa Borgia.

   V. la dedica nei Documenti al n. 1.

 Contro i pomponiani qualche semplice frate usciva ancora a predicar sulle piazze che il classicismo poteva volgersi in danno della religione, perché le menti potevano essere corrotte da una morale che non era la cristiana ; ma in questi ultimi anni il fervore religioso si era cosi dimesso che fra Bernardino da Feltre, uno degli uomini più pii del secolo, si contentava di domandare che nelle scuole invece di Ovidio Marziale e Petronio fossero dati Sedulio Juvenco e Prudenzio. poeti cristiani. E la Corte di Roma che tanto li aveva perseguitati era cosi compresa di quel classicismo, che al papa non si dava più il titolo cristiano di sanclus, ma il pagano di divus ; così comunemente vengono nelle dediche e nelle iscrizioni appellati Innocenzo VIII e Alessandro VI. Ma é da notarsi che nei pomponiani era più desiderio di opporsi alla barbarie della letteratura e delle istituzioni, che di sostituire i principi pagani ai cristiani: primo fra tutti, Pomponio non dimenticava di appartenere alla religione di coloro che Tacito aveva chiamato una turba di scellerati. Scrivendo la storia dell' impero romano, giunto ai tempi di Costantino, dichiara non credere di dover trasandare le tradizioni cristiane, anzi coglie l'occasione di professar la sua riverenza al papato, quando dice: Episcopus Romanux et divino iussu et humanae rationis vinculo parens et princeps est. Ma di quelle tradizioni egli dotto, due particolarmente rifiuta. Nel commento alle opere di Virgilio, da una spiegazione tutta romana alla quarta egloga che perfino da Marsilio Ficino é creduta contenere una profezia della nascita di Cristo ;

   Di questo commento di Pomponio non si fa cenno nel Virgilio nel medio evo di D. Comparetti, Firenze 1876.

e se nella storia dell' impero accenna al miracolo della croce apparsa a Costantino su ponte Milvio, tace affatto la famosa donazione a papa Silvestro inscritta nel Decreto di Graziano, la quale già Lorenzo Valla suo maestro aveva dichiarata apocrifa.
 In tanta latinità, Cesare che riteneva ancora il nome della sua stirpe spagnuola,

   Anche in una lettera scritta quattro anni dopo Cesare si sottoscrive alla spagnuola: "Caesar de Borija" V. Docum. n. 3.

non si trovava a disagio, né poteva da quei pomponiani che in Roma riducevano ogni purità di sangue, essere considerato barbaro, egli che apparteneva ad una famiglia che si diceva non essere divenuta romana solo per i parentadi che aveva coi Savelli, Gaetani ed Orsini, ma esser tale per avere da Roma stessa tratto la propria origine. Fra gli altri, Giovanni Nannio da Viterbo nei commenti al libro di Manetone, stampato nel 1492 aveva da rivendicare romana provenienza alla Domus Borgiana, e Jeronimo Porzio si gloriava di vederla uscita dalla sua antica famiglia. Che più? Dei Borgia erano clienti Pomponio ed altri retori. Quando il 21 maggio 1497 Pomponio moriva in Roma, Alessandro VI mandava ai funerali con insolita pompa celebrati la sua "purpurata familia" per rendere ossequio alla memoria dell' insigne uomo, cui il suo pontificato aveva fatto dimenticare le persecuzioni patite sotto Paolo II e Sisto IV : dei quali benefici negli ultimi anni di sua vita, egli aveva mostrato gratitudine alla casa Borgia dedicando a Francesco vescovo di Chieti e tesorier pontificio il compendio della storia della sua Roma, di quella Roma che egli tanto aveva illustrato con lo studio de' suoi monumenti e delle sue istituzioni e con la stampa ed il commento de' migliori scrittori suoi. '  Un anno dopo, nel 1489. Cesare era alla Sa pienza di Perugia a studiarvi le sacre leggi ; ave va con sé un nuovo precettore Giovanni Vera valenzano e alcuni giovani più che famigliar' com pagni suoi, fra i quali Francesco Remolino ilerdense, tutti spagnuoli che poi furono a parte della sua fortuna. Cosi gradita ricordanza gli lasciò quella dimora di Perugia, che in una oc casione memorabile egli ebbe a scrivere ai Perugini loro sempre dalla puerizia aver portato una sin golare benevolenza. 2 Vi stette due anni. Una sera dell'autunno 1489 Cesare co' suoi era andato a passeggiare nell' orto dei Domeni cani, posto sopra le mura in uno dei luoghi più

 

1 Di questo Compendium romanae historiae non conosco che un'edizione veneta del 1500, nella quale é pure riferita la dedica a Francesco Borgia.

 

2 ".... Tutto quello popolo al quale sempre da la puerizia avemo portato e portiamo benevolentia singolare." Lei. 2 gen naio 1503 ai Priori di Perugia. g ameni della città ; era con lui il priore del con vento fra Sebastiano d'Angelo. Nel ripassare in sieme dalla chiesa, videro all'altare di santa Ca terina da Siena una gran folla di popolo che urlando si accalcava attorno a suor Colomba da Rieti, una povera estatica di venti anni che da alcuni mesi era andata in Perugia. In quel se colo, in cui il miracolo faceva le ultime prove sullo spirito religioso, per conservarsi la divozio ne del popolo ogni Ordine aveva i suoi santi con grandi cure allevati ne' conventi prima di predi carne i prodigi nelle chiese : i Domenicani fecero acquistar fama alle estasi di suor Colomba, ma contro loro i Francescani sollevarono suor Lucia da Narni, nel cui corpo dissero apparse stimmate. Da pochi mesi la beata era giunta in Perugia, e dai devoti dell'Ordine si parlava di qualche mira colo da lei operato ; ma il priore prudente mostra va di dubitarne, desiderando che essa ognora più preparasse la sua santità con i digiuni e le mace razioni onde si tormentava, nella cella che fuor del convento le era stata data. All'udire quelle grida, Cesare ed i compagni si accostano alla folla e vedono ai piedi di suor Colomba, sui gra dini dell' altare, un pallido fanciullo sorridente. Griffone Baglioni che con altri nobili perugini era accorso allo spettacolo, veduto Cesare, lo chiama e gli narra che quel fanciullo era stato resuscitato dalla beata, e domanda al priore se si dovevano far suonare le campane. Ma fra Seba stiano non volle, e ne lo dissuase, benché tutti at7 testassero che il fanciullo restituito alla vita era stato portato alla chiesa quasi esanime. È lo stesso frate che ha lasciato memoria del fatto nella vita che scrisse della beata. l Da Perugia Cesare nel 1491 passò allo Studio di Pisa ad udirvi Filippo Decio, uno dei più ce lebri lettori di diritto canonico del tempo ; vi era il 12 settembre, quando papa Innocenzo gli con ferì il vescovato di Pamplona, costituendolo sol tanto amministratore fino al suo ventesimo anno di età. Mentre era allo Studio pisano, F. Guicciardini racconta di avere udito da persone degne di fede che una volta Cesare andò in Firenze per parlare a Pietro de' Medici sopra un caso criminale di un suo famigliare, e che dopo avere per più ore aspettato di ottenere udienza da Pietro, se ne dovette ritornare a Pisa senz'avergli potuto par lare. "riputandosi disprezzato e non mediocremente ingiuriato. * Altri attribuisce la cosa non a Pietro, ma a Lorenzo de' Medici. 2 Ma secondo ogni probabilità la buona fede del grande storico fu ingannata. Il fatto non accadde, non promosso i "Quantocius de illustrissimo D. Caesare advertit, alta voce claniavit: Illustrissime Domine, B. Columba infantem hunc modo suis precibus resuscitavit. Eja, Magister Sebastiane, volumus pul sare campanas?" Il p. Ansidei ristampando questa vita negli Acta Sanctorum (die 20 maij) premise un Et Cessar all'Ila tiofamus; ma questo non intese l'autore come in seguito appare ecòme indica la traduzione di fra Leandro Alberti, ed. Bologna 1512. * Il Guicciardini narra il fatto nel lib. 5° AeVf Istoria d'I talia e il Fabroni nella Lawentii Medicis vita, Pisis 1784. ancora Alessandro al papato, come scrive il Guicciardini, e basta a dimostrarlo erroneo una let tera dello stesso Cesare a Pier de' Medici, nella quale appunto si fa cenno di quella non avuta udienza. L' 11 agosto 1492 era stato creato Alessandro VI; ma Cesare non lasciò Pisa che il 21 o per commissione che ne avesse avuto dal padre o perché egli prima volesse dar termine agli studi suoi con la solita disputa nell' uno e nel l'altro diritto che sostenne con quell'ardente in gegno che P. Giovio fra i più animosi detrattori di lui non seppe, morto, negargli. 1

  1 "Adeoque profecit ut flagranti ingenio, prjepositis in utroque iure qusestionibus, erudite disputaret." Vita magni Consalvi Hb. 3.

Ora in quella lettera egli dice, che nel passare da Firenze, per la fretta non poté fermarsi a parlare a Pietro "di certa faccenda" che assai gli stava a cuore, e forse era il caso criminale citato dal Guicciardini ; ma che vi lasciò il suo precettore Giovanni Vera che di quanto a Pietro domandava gli riportò grata risposta. 2

  2 È nei Docum. al n° 3. V. Nota di Alfredo Reumont nell'Ar chivio storico italiano, 3a dispensa 1873.

 Non mai pontefice fu eletto con tante benedizioni come Alessandro VI : gli oratori ne celebrarono le "divine virtù" e il popolo romano fece per lui tali feste, quali mai a testimonianza del diariista S. Infessura non si erano viste per alcun altro. Nei primi giorni non volle che Cesare si recasse a Roma, ma gli ordinò di andare nella rocca di Spoleto ad aspettare. '

  1 "El figliol suo vescovo di Pampalona che era al studio a Pisa heri matina se partì di là de commessione del papa, et é ito alla rocca di Spoleto." Disp. M. Manfredi, 22 agosto 1492 da Firenze.

E per mostrar quale fosse l'aaimo suo verso la sua famiglia, il 26 agosto, di della incoronazione, conferì a Cesare il suo vescovato di Valenza, e l'11 settembre nelle prime nomine dei cardinali comprese quella del nipote Giovanni vescovo di Monreale. In ottobre Cesare era ancora a Spoleto, e fu di là che il 5 scrisse a Pier de' Medici per ringraziarlo della grata risposta riportatagli dal Vera, e ancora per raccomandargli il famigliare suo Francesco Remolino, il quale non avendo animo alle cose ecclesiastiche, egli che doveva condannare fra Girolamo Savonarola, desiderava una cattedra di diritto canonico nello Studio pisano. E Pietro ne esaudì tosto il desiderio, poiché il nome del Remolino si legge tra quelli de' professori straordinari degli anni 1492 e 1493. 2

  2 Historia Academia.' Pisana;, auctore A.Fabronio, Pisis 1791.

Di questa lettera un punto é notevole, quando Cesare si offre all'amico "per quanto possa et vaglia qui et in corte di Roma sempre a tutti i beneplaciti (di lui) paratìssimo." Sebbene fosse per credersi poca la sua autorità di assente, Cesare era si compreso degli alti onori ai quali dalla fortuna del padre era destinato, che non dubitava di poterne fin da quel momento disporre.
 Non appena eletto al papato, due grandi preoccupazioni appaiono nell'animo di Alessandro VI, che furono quelle di tutta la sua vita, rialzare la potenza della Chiesa che sino al suo tempo era stata la più disprezzata d'Italia, e far grandi i figliuoli a detrimento dei baroni che la Chiesa ed i papi da secoli opprimevano. Gravi pericoli correva in quei giorni la pace d' Italia per le contese fra Ferdinando di Napoli e Lodovico di Milano, nelle quali il papa fu trascinato per le gelosie dei cardinali Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere, e per la vendita dei castelli di Cerveteri e dell'Anguillara fatta in settembre a Virginio Orsini da Franceschetto Cibo figliuolo di Innocenzo VIII e di Pier de' Medici cognato. ' Per amicarsi il papa Ferdinando nel marzo 1493 non trovava miglior modo che proporgli un matrimonio di comune vantaggio fra Giofré e una sua figlia naturale. Ma la profferta giungeva tar di. In aprile, data Lucrezia a Giovanni Sforza signor di Pesaro, si sottoscriveva in Roma una lega fra Chiesa Duca e Veneziani, la quale poteva riuscire assai pericolosa a Ferdinando per le pretese del nuovo Re di Francia su la corona di Napoli. Dolendosi che la sua proposta non fosse stata accettata, il re scrive al suo oratore in Ispagna che Alessandro "fa tale vita che é da tutti abbominata senza rispetto della sedia dove sta, né cura altro che a dritto e reverso fare gran

 

1 Molte nuove notizie su quelle contese si leggono nel Co dice Aragonese pubb. da Francesco Trincherà, Napoli 1866-1870. di i figlioli;" ma poi in luglio concluso il matri monio, lodando nel papa "la carnalità sua verso lo suo sangue" non può contenere la sua gioia "eccessiva et intima" persuaso di avere assicu rate le cose sue con quel parentado. Fin dal marzo Cesare aveva lasciato la rocca di Spoleto ; ma la sua presenza in Roma non trovasi notata hé nell'atto del matrimonio di Lucrezia, nel quale é solo indicata come sorella di Giovanni duca di Gandia, né fra i convitati alle nozze. Egli ed il fratello Jofré passano inosser vati in mezzo a quelle feste ed alle paure, nelle quali era Roma in quei dì, piena più di soldati che di preti, per le minaccie di Ferdinando. Du rante le prime pratiche parve che anche Cesare avesse da accasarsi in Napoli ; ma il proposito fu tosto dismesso, avendo il papa intenzione di prov vederlo di un assai più grande stato nella Chiesa. Egli aveva allora diecinove anni. Bello, forte, a malincuore forse accondiscese a passare la sua gioventù in una vita alla quale non si sentiva propenso, e invidiava forse il fratello, che lasciati i suoi canonicati, era per andare principe in una Corte le cui splendidezze non erano state del tutto offuscate dalle crudeltà della guerra dei baroni. Ma tanti benefìzi gli prometteva il pa dre, che egli alla fine dovette farne il desiderio ; e il 21 settembre fu nominato cardinale. Per to gliergli il vizio suo di figliuol naturale, si narra dal diariista Infessura che il papa fece giurare da falsi testimoni esser figlio legittimo di un tal — 12 — Domenico d' Arignano col quale aveva maritata Vannozza. Ma questa supposta legittimazione mal si comprende, perché Cesare portava pubblicamente il nome dei Borgia, e male si accorda con quella di Jofrò fatta pochi giorni prima, il 6 agosto, in cui é detto questi esser nato ex muliere vidua, forse per rispetto al presente non a quando fu parto rito. Il titolo fu di santa Maria nuova, un dia conato che non l'obbligava agli ordini maggiori ; mesi dopo soltanto gli furono conferiti i quattro minori. Verso la fine di ottobre il papa dopo essersi unito co' Colonnesi andò a Viterbo accompagnato da Cesare e da altri due cardinali Francesco Piccolomini e Giovanni Colonna. I Farnese lo festeg giarono a Capodimonte e gli Orsini a Fiano, ca stello del conte Nicolo di Pitigliano capitano della Chiesa. Una lapide fatta murare dal conte e dai priori del castello rammenta che il papa essendo in quel luogo il 19 dicembre 1493 concedette in dulgenza a chi ne visitasse la chiesa; alla quale concessione quei tre cardinali si dicono presenti. ' Non fu eletto al cardinalato, che a lui su bito i cortigiani ricorsero a ricercarne i favori, come al parente più prossimo del papa che fosse in Roma. Suo "benefattore primario" lo disse Jeronimo Porcari un alunno uditor di Rota, dei Borgia famigliare, che ebbe a dedicargli alcuni

 

1 L'iscrizione é riportata nell' Istoria genealogica del p. E. Gamurrini, Firenze 1671. versi ; ma di più grande beneficio gli fu grato Felino Sandeo al quale fece aver stanza nel Pa lazzo apostolico appresso il pontefice. Il Sandeo dopo avere per molti anni insegnato diritto ca nonico in Pisa, da Innocenzo VIII era stato chia mato in Roma uditor di Rota, ma non vi viveva in grande considerazione, sebbene fosse uno dei più dotti prelati; il suo Antonio Tebaldeo ebbe a chiamarlo divini maxime juris honos. Suddito com'era degli Estensi, traendo esso i natali da Felina in quel di Reggio, informò della grazia avuta il duca Ercole, il quale il 5 febbraio 1494 gli rispondeva congratulandosi del favore ottenuto, che mentre prestava al duca mezzo opportuno di valersi di lui nelle Decorrenze dello Stato, era anche una ricompensa meritata del suo ingegno. E gli mandava una lettera per Cesare cardinal di Valenza, dal quale il Sandeo diceva di riconoscere il favore, per ringraziarlo di quanto aveva fatto per il suddito suo. ' In quest'anno Cesare ebbe ancora occasione di conoscere i molti artisti che allora lavoravano nel castel S. Angelo munito di fosse e di mura da Antonio Sangallo, e nel palazzo apostolico, al quale Alessandro nei primi mesi del suo papato aveva fatto aggiungere la Torre Borgia, ad imi tazione di Innocenzo che vi aveva eretto il Bel vedere. Furon chiamati a dipingervi Pier Vannuc- La minuti) ducale é nei Documenti al n. 4. ci il Perugino, Bernardino Benedetti il Pinturicchio, Pier Volterrano, Baldassare Peruzzi, i mi gliori d'Italia. Cesare ebbe poi a dire del Pinturicchio, che più di tutti vi lavorò, di averlo sempre amato per le virtù sue. ' Nel castello il Pinturicchio dipinse molte stanze a rabeschi, e in un torrione da basso fece storie del papa e vi ritrasse molti parenti ed amici suoi, in particolare Cesare ed i fratelli ; e nel palazzo con nuova ma niera fece alle sue pitture ornamenti di stucchi a oro con gli stemmi borgiani, molti dei quali la vorati da Pier Torrigiano. Nel descrivere le quattro grandi sale della torre, G. Vasari dice che il Pinturicchio "ritras se sopra la porta d'una camera la signora Giu lia Farnese nel volto d'una nostra Donna, e nel medesimo quadro la testa d' esso papa Ales sandro che l' adora." Aveva allora la bella Giulia nome di "favorita del pontefice," per la sua frequenza nella Corte e per le grazie che per lei si dicevano ottenute ; fra le quali il car dinalato del fratello Alessandro Farnese, eletto con Cesare. Questa ciarla nel 1493 era così diffusa per Roma, che alcuno ignorando la stirpe borgiana di Orsino suo marito si meravigliò di trovare nel fanciullo da lei partorito una certa somiglianzà col papa; dal 1489 essa era maritata con Ursi

 

1 "Qual sempre havemo amato per le virtù sue; e l'havemo novamente riducto ai servizi Dostri." Let. di Cesare ad A. Alfani, 14 ottobre 1500. no Orsini signor di Bassanello, figliuolo di Adriana Mila. Giulia era così bella, che probabilmente il Pinturicchio, come era uso degli artisti di raffi gurare le loro sante in qualche donna viva, lei ritrasse nel volto della Vergine; ma non cosi come il Vasari descrive. Chi ha visto le pitture della Torre Borgfa sa come anche quella noti zia sia da porsi fra le tante altre inesattezze onde son piene le sue Vite. La Madonna in cui il Pinturicchio ritrasse la bella Giulia é in un tondo sopra la porta della terza sala, con an*- geli attorno, ma il papa non é ivi ritratto ma in un quadro della Resurrezione nella sala se conda, dove veramente é raffigurato Alessandro genuflesso in atto di orazione. Forse una nota mal presa dal Vasari nella sua visita alla Torre fu causa dell'errore ripetuto sino ai nostri di an che dai migliori scrittori per provare una volta di più la impudicizia di un pontefice, che non ave va ritegno di dare quello scandoloso spettacolo de' suoi amori in quelle sale appunto, dove ordi nariamente riceveva principi e ambasciatori. ' In tanto Ferdinando impaziente di concludere il parentado, si doleva che il papa tardasse ad osservar le promesse, di mandare Jofré a Napoli e un legato a Carlo VIII, contro il quale aveva promesso di difendere il Regno e la Toscana. So spettando che ciò facesse per consiglio di Lodo-

 

1 V. Vite degli artefici di G. Vasari, e Memorie di Ber nardino Benedetti di G. B. Vermiglioli, Perugia 1837. — 16 - vico, in causa dei baroni romani, il re il 17 gen naio scriveva al suo oratore in Roma essere quel consiglio dannoso, perché, anche abbattuto Virginio Orsino, non poteva il papa assicurare lo sta to a lui tolto a' suoi figliuoli, i quali morto esso resterebbero soli e forestieri a discrezione di tutti. E concludeva : "Soa Santità ha veduto al mondo de multe varietate et deve cercare dare letto pro prio alii figliuoli, el che pò fare con reposo et bo na via et non volerli collocare in lo letto de altri con manifesto pericolo presente e futuro." Po chi giorni dopo, il 25 gennaio, Ferdinando mo riva, conturbato di non aver potuto impedire la rovina che minacciava la sua casa. Il papa con fortò il nuovo re ad un accordo con Lodo vi co, e a Carlo spedì brevi nei quali mentre lo esor tava ad andare contro il Turco lo dissuadeva dal discendere in Italia. ' Ma Carlo decisa l'impresa, in marzo assunse il titolo di re di Sicilia, man dando a dire ad Alessandro che ciò aveva fatto come per inibirgli di conferire la investitura ad Alfonso. Tuttavia il papa inviò il nipote card. Giovanni Borgia ad incoronarlo, e Jofré sposata Sancia, cavalcò per le vie di Napoli principe di Squillace, protonotario del Regno, che era uno dei sette maggiori uffici ; in questa occasione Giovan ni duca di Gandia fu investito di Sessa e di Teano. Cesare ebbe qualche parte nelle vicende che i Nella bolla 1 feb. 1494 trovasi la firma: "Ego C. Cardinalis Valentinus m. p. sub." — 17 - precedettero la calata dei Francesi. Egli fu voluto ostaggio da Virginio Orsini, che in aprile andò a Roma a concludere l' accordo per Alfonso, e si trovò il 1 4 di luglio a Vioovaro, nel qual convegno dal pon tefice e dall' aragonese fu stabilito di portare la guer ra in Lombardia. In questi mesi gli Orvietani manda rono al papa il conte di Corbara oratore a chiedergli Cesare per protettore della città onde in un breve del 13 ottobre ne furono assai commendati. : Ma la guerra fu così male condotta, che — ritiratisi i napoletani prima di essere vinti — Alessandro si vide ad un tratto Carlo VIII sotto le mura di Roma — senza che egli nemmeno avesse potuto ac cordarsi col card. Sforza, il quale per muoversi da Marino il 2 novembre volle che vi andasse Cesare. Disposto a sottomettersi alla fortuna, pre ferì di aspettare il re in Roma, anziché ritirarsi ad Ancona come gli proponevano i Veneziani, o nel Regno — come aveva pattuito il 25 dicem bre con Ferrandino, conducendo seco Gem il fra tello del sultano che Cesare doveva custodire nel la fortezza di Gaeta. Con gli oratori romani mandò incontro al re il suo cerimoniere G. Burcardo, l'au tore del Diario, il quale racconta che Carlo, te nutolo presso di se, facendo via assieme, gli di mandò de stalu papae ac de condictione cardinalis Valéntini. Forse il re faceva la domanda non tanto per la curiosità di conoscere la fami

 

1 Alessandro Vie il Valentino in Orvieto, per L. Fumi, Siena 1877.

 

2 — 18 — glia di Alessandro VI, quanto per avere una regola de' patti da convenire con lui. Fu così facile l'impresa dei Francesi, che il pa pa soleva dire, essere venuti in Italia con solo gli speroni di legno ed il gesso in mano ai fu rieri per segnare gli alloggi. Egli dovette ac cettare i patti che gli furono imposti, tra questi che Cesare accompagnasse il re, e che Gem gli fosse dato per sicurezza sua e per impedire che il Turco entrasse in Italia. Sottoscritti i capitoli il 15 gennaio 1495, Carlo prestò l'ubbidienza. Nel partire con lui, Cesare gli fece un presente di sei cavalli sellati. Nove giorni dopo a Velletri nella nette dal 30 al 31 improvvisamente Cesare fuggì dal campo. Il Burcardo dice che il cardinale in abito di mozzo di stal la arrivò a Roma la notte del 30, e che fermatosi in casa di Antonio Flores uditor di Rota mandò ad av visarne il papa. Il Matarazzo narra che egli fuggì con Francesco dello Scacco cavaliere del podestà di Vel letri. ' Alcuni sospettano che ne avesse avuto or dine dal padre, di cui lamentano la simulazione, come se nei capitoli impostigli non fosse la clausola del tempo che Cesare doveva restare nel campo francese, da determinarsi da lui e dal re. 2 In

 

1 II racconto non discorda da quello che si legge nel Vergier ffhonneur di Andre de la Vigne. Collezione Danjou, Parigi 1834.

 

2 Ecco il testo dell'articolo: "item est content ledit sainct pere que monseigneur le cardinal De Valence voyee avecques le roy pour l'acompanher avecques son estat honnorable et acostume. Et le roy le recevrtt et le traictera honorablement et humainement einsi comme aluy apartient et selon sa dignite avec — 19 - mancanza di questa convenzione, di cui non si trova altro cenno, Cesare poteva credersi sciolto dall' obbligo suo. Ma né la incertezza del suo sta to, né la rinuncia di Alfonso, né la rovina immi nente del Regno, nel quale tanti benefici' aveva ricevuto la sua famiglia, lo avrebbero forse in dotto ad abbandonare Carlo, se a queste non si aggiungeva un'altra causa di maggiore momento. In quei giorni che egli fuggì, erano giunti nel campo gli ambasciatori spagnuoli a rinnovare a Carlo VIII le proteste della casa di Aragona che sul regno di Napoli voleva conservati i proprì di ritti, e appunto in Velletri don Antonio di Fonseca aveva minacciato a Carlo la guerra. Queste pro teste, che furono il principio della lega famosa della conservazione, spiegano meglio di ogni an teriore accordo la fuga di Cesare dal campo francese. Il di che in Roma fu pubblicata la lega, 1 aprile, nella piazza di S. Pietro duecento spagnuoli al servizio del papa assalirono e svaligiarono centocinquanta svizzeri di Carlo VIII ferendone al ques ce que ledit seigneur cardinal doyse demorer avecques le roy par lespasse de quatre moys ou plus ou meins einsi comme par le dit sainct pere et le roy sera conclus et advise." La versione latina puh. nel Codex Italiae diplomaticus del Luni g omni ette la clausola del tempo che Cesare doveva restare col re. In vari brevi all'imperatore di Germania, ai Reali di Spa gna ecc. il papa mentre si duole partitamente dei duri patti ai quali fu da Carlo obbligato, di quanto riguarda il Valentino non fa parola, forse perché la fuga di lui aveva vinto la prepoten za del re. Allora però mandò più volte a scusarsi. V. i dispacci di M. Manfredi. — 20 — cimi malamente. Di questa rappresaglia non dice il Burcardo chi fosse l'ordinatore, ma lascia sup porre il card. di Valenza per vendetta del sac cheggio di alcune case di spagnuoli e di quella della madre di lui, fatto da quegli svizzeri all' entrata del Re. Ma é certo che Cesare in quei di non era in Roma. Così dispiacente si era mo strato Alessandro della sua fuga, che non aveva voluto riceverlo in palazzo, affinché non paresse che fosse stata di sua volontà, e gli aveva com messo di andare nella rocca di Spoleto. ' Intesa la lega. Carlo é per ritornare, riman data l'impresa d'Oriente resa più difficile dalla morte di Gem avvenuta il 4 marzo ; * e ad Ales sandro che già gli aveva negata la investitura, fa chiedere un convegno. Il papa gli promette che assieme ai cardinali lo avrebbe aspettato ad Or vieto, dove il 27 maggio si reca. Ma il convegno non fu tenuto. Il re entrava in Roma l' 1 giu

 

1 Da principio si ignorò dove Cesare andasse, come vedesi nei riporti di lettere romane in varie cronache ; ma la ferrarese dice: "A di 8 feb. il duca Hercole bave lettere, come dal re di Pranza s'era fuggito il fiolo del papa, cioé il cardinale di Valenza, et come era andato in la rocca di Spoleto."

 

2 Sulla storia di Gem si leggono nuove notizie nei dispacci del Manfredi e in altri veneti puh. dal Romauin nella Storia documentata, Venezia 1856, i quali ultimi tolgono i sospetti sulla morte di lui. I documenti riportati nel diario del Burcardo sembrano apocrifi: in un di.sji.5M novembre da Firenze il Man fredi narra di aver udito dal card. della Rovere parlare di una sola istruzione presa in Senigallia al commissario pupale che ac compagnava il messo del Turco, il quale portava a Roma il so lito tributo per Gem. gno dove si tratteneva una sola notte, il 5 era in Viterbo, donde correva per la via di Siena alla volta di Lombardia; il papa entrava in Pe rugia il giorno 6. A Perugia Cesare aveva raggiunto il padre assieme alla sorella Lucrezia ed a Giovanni Sfor za, che fino dal giugno dell' anno prima si erano ritirati a Pesaro: la sua presenza é rammentata nella visita fatta da Alessandro alla chiesa dei Domenicani, dove il priora fra Sebastiano d' An gelo gli presentò la beata Colomba. Cesare altra volta aveva veduto la suora, e in quella chiesa istessa aveva assistito ad un miracolo che si di ceva ottenuto da lei ; ma da queir anno che egli era stato in Perugia, la santità della suora era divenuta sì grande, che per tutta va1 di Tevere, di convento in convento, i Domenicani ne pre dicavano i prodigi. Nel dicembre 1495 in Siena Carlo VIII avendo udito discorrere di lei, era stato mosso da quella divota curiosità per cui un suo cortigiano aveva chiesto un "piccolo mi racolo" a frate Girolamo Savonarola. Anche Ales sandro volle veder la suora e esaminarla. Quan do entrò nella chiesa la calca era tanta che i mazzieri poterono a stento aprirgli il passo : lo seguivano i cardinali, i prelati, gli ambasciatori. La suora si gittò ai piedi di lui, ne pigliò i lem bi della veste e per qualche momento rimase così prostesa sui gradini del soglio, senza profferir pa rola. Di divozione compreso, l' oratore spagnuolo chiese a fra Sebastiano di avere per grazia il ro — 22 - sario che la beata teneva fra le dita. Alzatasi, il papa le fece alcune domande sui misteri divini, alle quali ella rispose con semplicità e modestia; ma a nuove domande si confuse e ammutolì, bian ca ed immobile "come una statua di marmo." Alessandro meravigliato si volse a fra Sebastiano e chiedendogli notizie della beata gli disse : Caveto pater quia ego sum papa. Il priore timo roso che il papa per quella confusione non fa cesse un mal giudizio della sua santa, gli narrò che anche egli dapprima aveva dubitato di lei ma che poi si era dovuto convincere delle virtù sue, della suprema astinenza e della assidua ora zione. Ma la suora ancor taceva, e il papa non si mostrava persuaso. Onde fra Sebastiano fu ben grato al card. di Valenza che, a conferma delle sue parole, si alzò a dire che il priore doveva essere allora assai più creduto, perché altra volta egli stesso l' aveva udito sparlare di lei, quando già la devozione del popolo l'aveva benedetta. ' Anche il card. Piccolomini perorò per la beata, la quale finalmente riavutasi rispose alle doman de del papa che la commendò. È curioso di osservare Alessandro VI in mez zo ai santi del suo secolo. In questi anni la buo ' "Qui assistebat. Rev. D. Caesar Borgia vulgariter nuncnpatus cardinalis Valentiae publice dixit : Beatissime pater, prò cer to credendum est, si Magister Sebastianus sic dicit de ipsa. Annie namque superioribus, utpote rei hujus dubius, hic corani me plurimum eam carpserat diuque cavillattla est. >, Vita lì. Columba* Reatinac. — 23 — na riputazione con cui era salito al papato non si era ancora del tutto guastata. Il cardinale della Rovere aveva istigato Carlo VIII a chiamarlo da vanti al Concilio per processarlo e deporlo ; ma la cosa era mancata, perché il Re ben sapeva che fra coloro che accusavano Alessandro di aver com prato il papato vi erano quelli istessi che glielo avevano venduto: del resto i canonisti troppo osservavano le decisioni di Mantova per ritenere superiore il Concilio al papa. Papa dotto, uno dei primi suoi atti, era stato di revocare la bolla di Innocenzo VIII contro il Fico della Mirandola, che assolveva da ogni nota di censura. Papa mondano, sapeva far compatire la sua "scandalosa" vita con l'elogio che faceva di fra Bernardino da Feltre, del quale in un breve diceva di ammirare la "esemplarità della vita." Della sua religiosità non ancora si dubitava, benché sotto quella tol leranza si potesse nascondere poca fede, da pa rere quasi che non gli piacessero le estasi e le macerazioni dei santi che apparivano a' suoi dì. Nell' esame di suor Colomba da Rieti sembra che egli si diverta a confonderla con poche domande sui misteri della religione ; e quando nel corpo della beata Lucia da Narni si dicono apparse le stimmate, manda i suoi medici a visitarla. Né con minore apparenza di poca fede si conduce verso gli incantatori e le streghe, contro i quali lascia a Giulio II rinnovare le persecuzioni di Innocenzo VIII, né scrive di far giustizia a fra Angelo da Verona inquisitore in Lombardia se non quando per i fatti incantesimi accadono morii ed altri delitti. Ma a lui così incredulo fra poco toccherà udire fra Girolamo Savonarola esclamare : "Te stifico io in verbo Domini questo Alessandro VI non esser papa e non poter essere ricevuto per papa... e in fra le altre cose io affermo lui non cristiano, e non crede esser alcun Dio ; il che trapassa il colmo di ogni infedeltà." Trattenutosi pochi di in Perugia, il papa ri tornò coi figli a Roma, dove giunse prima che gli alleati scontrato il re francese a Fornovo, gli togliessero in una giornata memorabile i benefi ci della sua facile conquista. Ma la Lega presto si sciolse, dopo aver cercato invano di rimettere Pier de' Medici in Firenze. Il duca Lodovico fece particolare accordo col re promettendogli di aiu tarlo anche di sua persona ogni volta che fosse per ritornare in Italia, e obbligandosi ancora a fargli togliere le censure papali ; e Alessandro ed i Veneziani si apprestarono a cacciare i francesi dal- Regno, contro i quali Consalvo Ferrando ave va già sbarcato in Calabria un esercito di spagnuoli. Per questa lega furono condotti dai Ve neziani Giovanni Sforza con 600 cavalli e con 700 don Jofré che partecipando alla fortuna degli aragonesi aveva seguito Ferrandino nell' esig1lo. Alla prima vera del 1496 si riprese la guerra. Quando il 26 marzo passò per Roma il marchese di Mantova, capitano de' collegati, il papa lo ricevette con le più grandi feste che si convenivano al vincitore di Fornovo. e nella domenica delle pa1 — 25 — ine gli donò la rosa d'oro: lo intrattennero i cardinali Ascanio e Cesare. Questa guerra non poteva meglio servire ai disegni del papa di liberarsi dalla soggezione dei baroni romani. Alla calata di Carlo VIII gli Or sini erano per Aragona ed i Colonna per Fran cia ; ma a malincuore i Colonnesi avevano segui to il re al conquisto di Napoli, dopo che videro che gli Orsini al suo giungere in terra di Roma ave vano fatto particolari accordi con lui: onde dopo Fornovo ne avevano del tutto abbandonato le parti. Così gli Orsini diventati francesi si tro vavano nel Regno a contrastare a Ferrandino quella corona che un anno prima al padre ed a lui non avevano saputo conservare! Alessandro non poteva avere miglior pretesto per disfarsi di loro : per ciò l'1 giugno in Concistoro pubblicò una bolla nella quale Virginio. Gian Giordano, Paolo, Carlo e Bartolomeo d'Alviano per aver seguito le parti francesi e portato le armi contro la Chiesa si dichiaravano proscritti e decaduti dei beni che ne possedevano in feudo. Affrettò la loro ruina la capitolazione di Atella (23 luglio) dove il vec chio Orsini restò prigione. A compiere l'impresa, il papa chiamò in Roma il suo figlio Giovanni duca di Gandia; quando il 10 agosto vi giunse, il card. di Valenza gli andò incontro fuori di porta Portese seguito da tutta la Corte a cavallo, con grandissima pompa lo accompagnò al palazzo: per osservanza delle cerimonie il duca era a sinistra ed il cardinale a destra. Giovanni non era stato — 26 — a Roma dalla sua giovinezza, e vi ritrovava tutti i suoi fratelli Cesare, Jofré e Lucrezia grandi e imparentati con le prime case d' Italia; ma a lui il padre aveva riservato la miglior parte della fortuna dei Borgia. avendo agli altri già prov veduto. Cesare aveva avuto tanti benefizi, che era per diventare uno dei più ricchi cardinali. Ancora arcivescovo di Valenza,1 possedeva le chiese di Castres e di Perpignano : e in questi mesi pare va che avesse da avere il posto di camerlengo del card. Riario, che infermo faceva disperare del la sua vita. Fra i molti benefici suoi, che gli da vano trentamila ducati di entrata, aveva la chiesa di san Michele d'Arezzo, per la quale, essendo gli stata occupata dal protonotario de' Petrucci, ebbe a scrivere al Capitano di Siena. z Era uso nelle Corti che i letterati di maggior grido ser vissero i principi nelle segreterie, non occupati nella redazione degli usuali carteggi, ma richie sti di consigli nelle più gravi faccende pubbliche: di questi dotti erano allora piene le corti d'Ita lia, e più di tutte quella di Roma dove ogni car dinale ne aveva alcuno fra i suoi famigliari. Un libretto di traduzioni stampato in Brescia in prin cipio del 1497 ci dà a conoscere il nome del se gretario di Cesare. Era questi il bresciano Carlo Valgulio, a que' di creduto per la eleganza e la

 

1 V. il breve 9 luglio 1496 negli Annalex Minorimi di fr. L. Waddingo, Roma 1736.

 

2 La lettera in data 2 settembre 1496 é nei Doc. n. 5. facilità del dettato, e le moltissime nella lingua latina e greca, uno dei migliori let terati : il Poliziano lo aveva venerato suo maestro. Non senza un alto intendimento il Valgulio volle dedicare a Cesare la prima di quelle traduzioni, la Disputa intorno al mondo del greco Cleomede. Come altri dotti, egli certo non ignorava le dot trine professate dagli astronomi intorno alla co stituzione del mondo; e la lettera che fece pre cedere alla Disputa indica chiaramente che egli non intendeva di avere fatto un'opera sempli cemente letteraria, ma che desiderava che lo splen dore di Cesare (come egli dice) avesse portato qualche luce a lui ed a Cleomede, perché meglio fossero conosciute le belle notizie contenute in quel discorso su la terra ed il sole, de quibus et dodi pariter et indocli magnoque locuuntur. ' Così mentre Nicolo Copernico nel 1496 era già in Bo logna ad udire quelle dottrine dalle quali aveva poi da ritrarre il sistema della nuova costituzione del mondo, al nome di Cesare si trova raccomandata la traduzione della Disputa di Cleomede che do veva preparare e condurre l'opinione a quel gran de rivolgimento. In quella dedica Carlo Valgulio diceva di Ce sare, che la natura in lui aveva ingenerato non le sementa delle virtù ma le virtù istesse, e che

 

1 La dedica é riportata nei Docum. n. 6. — Questa traduzione del Valgulio non é rammentata nel discorso su Copernico e le vicende del sistema copernicano di D. Berti, Firenze 1875. occupata a formare lui solo, cosi ne aveva adornato il corpo di prestantissima forma dignità e ogni bellezza, e fornito l'animo di moderazione decoro gravità benevolenza e sopra tutto di re gale liberalità, che la natura sembrava avere su perato se stessa. E questa sua liberalità ebbe a mostrare con letterati ed artisti. Nel giugno di quest'anno 1496 giungeva in Roma un giovane statuario fiorentino, Michelan gelo Buonarroti, a cercarvi lavoro come tanti al tri artisti ; dopoché alla cacciata dei Medici la nuova Signoria per disperdere le memorie del tiranno aveva venduto all'incanto le molte opere d'arte da Lorenzo raccolte, contenta solo ad eri gere su la ringhiera del palazzo la Giuditta di bronzo del Donatelle. Il giovane statuario era raccomandato al card. Riario. che nel suo pa lazzo aveva molte statue, di quelle che allora si andavano disotterrando nei dintorni di Roma e che per la loro bellezza toglievano pregio alle moder ne: ' fattegli vedere quelle statue, il cardinale gli domandò se gli bastava l'animo di farne una cosi bella, e il giovane gli rispose: "ch'io non farei si gran cose, ma e' vedrebbe quello che farei." E aveva ragione di ciò dire : fra quelle statue che il Riario tanto pregiava, vi era un piccolo Amore dormiente, opera del giovane statuario il quale, acconciatolo in modo che paresse stato sotto ter

 

1 V. l'opuscolo di F. Alberimi, De mirabilibus Urbis, Ro ma 1509. ra, lo aveva mandato in Roma a vendere come antico. Ma da quella vendita aveva ritratto ben poco, poiché Baldassare del Milanese non gli aveva rimesso che trenta ducati dei duecento che aveva ricevuto dal card. Riario. Venuto in Roma, il gio vane Michelangelo, per isdegno di essere stato frodato, pretese di riavere il suo Cupido, e ne gandoglielo l'altro, si decise a parlarne allo stesso cardinale ; il quale anziché compiacere Michelan gelo o fargli sborsare il restante del pagamento, cosi fu offeso dall'inganno, che arrestato Bal dassare e riavuti indietro i suoi denari, gli rese la statua. ' Saputosi il caso, gli artisti andarono a vedere il Cupido che giudicarono opera bellissima e per essere moderna non la stimarono meno degna di stare al confronto delle antiche, e la statua tro vò subito un compratore. Se la vendesse Baldas sare o Michelangelo si ignora; ma certo é che fu tosto acquistata dal card. di Valenza, il qualo cosi ne pregiò l'autore che quando anni dopo, ritornata in sua mano, Isabella cl' Este gliela chiese come antica, egli per compiacerla gliela mandò facendole sapere essere di mano di mastro Michelangelo fiorentino, e per cosa moderna non aver pari.'' Del Cupido e di una Venere, poco dopo.

 

1 Y. lett. di Michelangelo 2 luglio 1496, da Roma, e Vita di A. Condivi, Roma 1553.

 

2 V. le lettere di Isabella d'Este nei Docum. ai n. 57 e 60. — In un inventario dello studio della corte vecchia di Mantova si legge: "E più un altro Cupido che dorme, di marmo di Car rara, fatto de mano de Michele Agnolo firentino." — 30 — Cesare ebbe a far dono a Guidobaldo duca di Urbino, che per la guerra contro gli Orsini giungeva in Roma il 23 ottobre.
 Nominato Giovanni capitano della Chiesa il 27 ottobre, l'esercito papale, in cui servivano anche i Colonnesi, si mosse; e presi alcuni castelli si pose all'assedio di Trivignano. Per impedire i soccorsi dalla parte del lago, fu levato dal Tevere un brigantino, ma mentre cola era condotto su carra da Troilo Savelli, una notte Bartolomeo d'Alviano con cento cavalli lo assali e dispersi i difensori lo abbruciò: in un'altra scorreria sotto le mura di Roma l'Alviano si spinse sino a Montemario e mancò poco che non pigliasse Cesare uscito in quelle alture a cacciare, il quale si salvò fuggendo.

   II caso é accen. dal Guicciardini nel lib. 3, Storia d' Italia.

Alla fine Trivignano fu preso, e l'assedio si ridusse a Bracciano. Il 26 gennaio 1497 il borgo era già perduto, quando Carlo Orsini per la via dei monti giunse a Soriano co' fanti di Vitellozzo Vitelli: dopo una fiera battaglia. Guidobaldo restò prigione, Giovanni ferito Fabrizio Colonna e il legato scamparono a Ronciglione.
 La guerra continuata per qualche altro mese, presa Ostia da Consalvo che cavalcò in trionfo per Roma, fini con un accordo per cui gli Orsini promisero di pagare cinquantamila ducati per la restituzione delle terre occupate. Ma al papa si presentò un'altra occasione di ingrandire i figliuoli. Non ancora ricuperato tutto il Regno, era morto Ferrandino e gli era succeduto don Federico suo zio (benché la corona de jure fosse spettata alla vedova di Giangaleazzo Sforza) per il favore dei baroni ed il sostegno della Lega. In compenso egli diede ai Veneziani alcune terre di Puglia sino a che avesse pagato le spese della guerra, ed al papa promise di investire di Benevento il suo primogenito Giovanni, rinunziate tutte le ragioni che su quel ducato avevano i re di Napoli. Cesare doveva andare ad incoronarlo.
 Fra tanto nella famiglia Borgia un grave fatto accadeva. Pia dal marzo di quest' anno era ritornato in Roma Giovanni Sforza marito di Lucrezia. Il cerimoniere Burcardo nota la sua presenza in due distinte circostanze, quando entrò in Roma Consalvo Ferrando a' cui fianchi cavalcavano il duca di Gandia e lui, e poscia durante le feste della domenica delle palme : e dai dispacci degli ambasciatori si ricava che si vide presso Sforzino — cosi i contemporanei lo chiamavano — andare a piacere col cognato per la città. Il signore di Pesaro, sebbene appartenesse alla casa d'Aragona per ragione di donne, era fautore costante del duca di Milano: ma pure la parte da lui presa nell' esercito del marchese di Mantova nel Regno, non gli poteva più far credere di essere a mal partito in Roma, come gli accadde nel 1494 per il matrimonio di Jofré ; ciò non ostante o che egli non si ritenesse più sicuro, o che altra causa lo spingesse, egli segretamente se ne fuggì. La fuga e la ragione di essa furono tenute cosi nascoste che molti l' una e l' al tra ignorarono : ma alcuni saputa la prima, non tardarono a sospettare anche la seconda. Era noto che il matrimonio di Giovanni con Lucrezia era stato disturbato da molti dissapori; e si diceva che da un lato Lucrezia dopo quattro anni si doleva del marito "perché non le faceva buona compagnia" e che dal canto suo Giovanni aveva a dolersi di lei accusandola perfino di aver relazioni col fratello duca di Gandia. Dopo il signore di Pesaro disse che il papa non gliela aveva tolta "per altro se non per usare con lei." Lettere romane di quei giorni notano i dissensi degli sposi per causa del duca. Una anzi che é nel diario del Sanuto, aggiunge che Sforzino era stato ritenuto dal papa, il quale cogliendo il pretesto delle sue discordie con la moglie voleva torgli lo stato per darlo al duca di Gandia, ma che essendosi i Veneziani opposti, lo lasciò fuggire.

   "Lasciò fuggire il signore di Pesaro che teneva in distretto." Questa lettera riferita nella Cronaca di M. Sanuto é contraria a quanto si legge nelle cronache pesaresi, che cioé Giovanni fuggisse per avere un servo suo nascosto dietro una spalliera, udito Cesare dìre alla sorella che la morte di lui era stata ordinata.

Pare che il fatto avvenisse in aprile.
 Letta adunque in concistoro la bolla che investiva Federico del Regno di Napoli, il di 9 giugno Alessandro VI spediva il breve per cui a Cesare card. di Valenza suo legato commetteva di incoronare il nuovo re, e gli ingiungeva, andando egli nel Regno, di essere tanquam pacis angelum, affinché finalmente si potessero comporre le discordie che quello Stato avevano ridotto in così misere condizioni. Prima della partenza, il duca di Gandia che doveva andare con lui, il 14 giugno ordinò un solenne convito a casa della madre Vannozza, al quale si trovarono tutti i figliuoli. Alla sera, partiti i card. di Valenza e di Monreale, il duca usci per andare a piacere per Roma, su una mula; non avendo con sé che il pugnale, mandò lo staffiero che lo accompagnava a pigliare le sue armi in casa; ma il servo di ritorno più non lo ritrovò. Si disse che il duca s'era incontrato con uno sconosciuto che aveva il volto coperto da una maschera, a cavallo, il quale lo aveva preso in groppa : la mula che egli montava fu trovata poco dopo sciolta che si dirigeva alle stalle con una staffa tagliata. L'indomani non comparve, e si cercò per tutta Roma. Finalmente la mattina del giorno appresso un barcaiuolo Schiavone che era alla riva di santa Maria del popolo ebbe a raccontare che il 14 a quattro "re di notte aveva visto gettare dal ponte li vicino un cadavere, presente uno sopra un corsiero bianco con uno stocco dorato che domandò: "Ello andato sotto?" cui fu risposto "Signor si :" per questo indizio a mezzodì fu pescato, e per Tevere in una barchetta portato in castel sant'Angelo. La sera stessa gli furono fatti i funerali.

   Questi ed altri particolari si leggono nella relazione 17 giugno 1497 forse dell'amb. Marin Giorgi, riportata negli Annali del Malipiero e nei Diari del Sanino. — L'annotatore malipieriano al passo: "fece un solenne convito a casa della madre la quale é pelicera da Mantova" per inavvertenza pose: venditrice di pelliccerie, mentre doveva dire concubina. Vannozza, nel 1486, era passata a seconde nozze con Carlo Canale di Mantova.

 Dalle indagini fatte si poté ritrarre che il duca era stato condotto in una vigna dove fu tormentato, esaminato e poi morto ; il corpo quando fu levato dal fiume aveva ancora le mani legate ; di 10 o 14 ferite, una gli aveva segata la gola. Gli furono trovati addosso i denari, le gioie e perfino il pugnale di cui era armato, perché ben si comprendesse che dagli uccisori non si era voluta che la sua morte. Vi fu chi disse che lo sconosciuto che incontrò il duca per via o lo fece chiamare fuori della casa di Vannozza fu un "perfido amico", e certo é da credersi, perché altrimenti Giovanni non sarebbe montato in groppa con lui con tanta fiducia. Ma chi era costui? I primi sospetti che si trovano notati nelle lettere romane di quei giorni sono sopra Giovanni Sforza (ma questi allora non era più in Roma) o sopra Antonio Maria Fico della Mirandola, il quale avrebbe ammazzato il duca per conto del card. Ascanio.

   Son diversi i riporti nelle cronache. La napoletana e la perugina attribuita al Matarazzo imputano il delitto al signor di Pesaro per vendetta dell'ingiuria: la leccese, la fiorentina di G. Cambi, e la modenese di J. Lancellotti ne ignorano l'autore; la ferrarese dice che ne furono incolpati il card. Ascanio ed il conte della Mirandola, e che "il papa havea fatto pigliare il dicto conte."

Era Antonio fratello a Giovanni stato escluso per sentenza imperiale dalla signoria di Concordia e di Mirandola, a profitto dell'altro fratello Galeotto, e viveva da alcuni anni in Roma, dove aveva maritato ad un Giambattista de' Conti una figliuola avuta da Costanza Bentivogli sua moglie. Il cardinale con quella morte avrebbe voluto vendicare l' offesa dell'onor del parente e troncare ad un tempo gli ambiziosi propositi del pontefice, che per lo sciolto matrimonio potevano tornare in grave danno a tutta casa Sforza :

   La cronaca anonima napoletana (Raccolta di varie croniche, Napoli 1780-1782) dice: "e La causa della morte di quieto dicono multi, che fece intossicare re Ferrante per mano del Legato che li é fratello et per questo dicono che Ascanio l'abia fato amazare";ma poi si corregge. Ferrandino morì nell'ottobre 1495, e Giovanni di Gandia non fu in Roma che nell'agosto 1496.

per questa accusa egli, non ritenendosi più sicuro, fuggì subito da Roma, e il conte fu fatto pigliare dal papa. Poi i sospetti si aggravarono su Bartolomeo d'Alviano. che avrebbe ucciso il duca per conto del card. Ascanio o per conto degli Orsini.

   Una lettera 8 agosto 1497 ricevuta da Roma dai Signori Fiorentini riassunta in un disp. Manfredi dice: "Non possa senza qualche gelosia degli Orsini, li quali dubitano de M.UI Santità, et maxime Bartolomeo d'Alviano al quale pare che se imputi la morte del duca di Gandia"

Allora appunto gli Orsini col favore de' Sanesi e de' Veneziani avevano tentato di rimettere Pier de' Medici in Firenze, ed eran ritornati scontenti della mal riuscita impresa.
 Alessandro all' annunzio della morte del suo primogenito fu per morirne di tristezza ; la sera dei funerali, quelli che erano sul ponte del castello, udirono le strazianti sue grida. Il 17 in concistoro dopo essersi doluto del triste caso disse di non volere più altro dalla Sede che il vivere ed il vestire, e di non desiderare che di attendere al bene della Chiesa ed a conservarne lo stato "con promessa di non dar cosa alcuna ai sui" : e commise a' sei cardinali di provvedere alle riforme. Degli autori dell' assassinio non parlo, ma disse di non volere accettare le accuse che si facevano contro il signore di Pesaro, il duca d'Urbino e perfino contro Jofré, dichiarando che non aveva neanche sospettato del card. Ascanio fautore degli Orsini, fuggito da Roma, al quale perché ritornasse diede poi un salvocondotto.

   V. la relaz. 19 giugno 1497 nei Diari del Sanuto.

Per consolarlo, gli scrissero lettere fra Girolamo Savonarola, e il card. della Rovere che disse "non dubitare che per la costanza, la moderazione e l'ingegno suo sublime e divino avrebbe tollerato quella morte atroce e crudele che lui affliggeva come padre e come pontefice, ob quam rem ipsae Sedi Apost. iniuriam huiusmodi irrogatemi fuisse nemo est qui dubitare possit." In tanta tristezza, allontanò da sé tutti i suoi figli, perché la loro vista non gli facesse rammentare il perduto Giovanni: Lucrezia il 19 entrò nel monastero di san Sisto ; Jofré condusse Sancia nel Regno: non restò in palazzo che Cesare, ma anche egli poco dopo lasciò Roma per andare ad incoronare il re Federico.
 Essendo in Napoli la peste, la cerimonia fu compiuta il 10 agosto in Capua: il re ed il legato cavalcarono per la città, gettandosi al popolo una moneta in cui era impresso un motto di pace, ed il 14 fecero l'entrata in Napoli. Quando il 4 settembre Cesare ritornò in Roma, la tristezza del papa era ancora grande ; non gli disse una parola, ma solo lo baciò. Come fu più alquanto sollevato, il 17 ottobre, coi cardinali di Valenza e di Agrigento andò per alcuni giorni ad Ostia . e per sua scorta seco condusse 400 cavalli e 600 fanti, avendo da temere degli Orsini dai quali a quanto si diceva il mese prima si era tentato di aver quella fortezza, il cui castellano, scoperta la pratica, era stato impiccato ai merli. Tanto era lo sdegno del papa contro di loro, che in una lettera del 17 dicembre si dice: "Pare che più dell' usato la Santità sua se sia scoperta ad imputare epsi Orsini che habbino morto el duca de Gandia suo figliuolo, per il che se stima che quella sia in dispositione de vindicare dieta iniuria et morte del figliuolo."

   È rias. nel disp. M. Manfredi, 22 dicembre 1497.

Ma Alessandro malgrado che facesse dai Colonnesi fare una scorreria sulle terre degli Orsini, non voleva scoprirsi loro nemico fino a che la sua vendetta non fosse pronta e sicura; né gli conveniva di farlo, allora appunto che quei valenti baroni erano protetti dai Veneziani che cercavano di condurli ai loro stipendi. Del quale ritegno si ha un altro cenno nel febbraio 1498. Fra Girolamo Savonarola che aveva consolato il papa per la morte del figliuolo, trascinato nella lotta con la Curia romana, di quella morte si fece un'arma, quando ad onta dell'interdetto la domenica 11 febbraio risalì il pergamo. Sembrava il frate così convinto che Iddio non lo avrebbe abbandonato nella sua causa, che più volte aveva dichiarato che con un miracolo Iddio gli avrebbe concesso di confondere i suoi nemici: ora in quel dì ebbe a dire: "Ma pure hai visto, come a Roma qualcuno ha perduto il figlio ed hai visto che qui é morto qualcuno che anderà in inferno, e vedrete i processi loro. Ancora non sono stato costretto al miracolo : ma, a suo tempo, il Signore allargherà la mano; ed ora hai visto tanti segni, che non v' é più bisogno di miracoli." Non vi era dubbio, il frate alludeva al supplizio di Bernardo del Nero ed all'assassinio di Giovanni di Gandia. Riferita la cosa in Concistoro, mentre l' oratore veneto si rammaricava di quella "ignominiosa preclicatione " il papa esortò i cardinali e gli ambasciatori a prendere esempio da lui, il quale per la salute comune volentieri dimenticava le offese che gli erano fatte da "uno fraticello" e l'altra maggiore della morte del figliuolo a lui da fra Girolamo rimproverata, "la quale poteva dire da chi era facta, et nondimeno la tollerava per il bene de Italia."

   V. la lett. 1 marzo 1498 del canì. Sforza pubb, da Isidoro del Lungo ne' nuovi documenti su Fra Girolamo Savonarola, tom. 18 N. S. dell'Archiv. stor. italiano.

Ma la pazienza del papa si stancò, e il frate morì sul rogo (23 maggio) odiato dal popolo quanto prima ne era stato amato: Marsilio Ficino mandò al papa ed ai cardinali una apologià, ringraziandoli di aver liberato Firenze da quel monstrum veneficum.
 Né pare che gli Orsini si avessero ad offendere dei sospetti che per la morte del duca di Gandia il papa aveva contro di loro. Quando nel marzo di quest' anno i Colonnesi vinsero gli Orsini a Monticelli, i superbi baroni non vollero udire i consigli di pace di Alessandro, ma preferirono di amicarsi di per sé, rimettendo le loro querele per i feudi napoletani al giudizio di Federico, che ne aveva investito Fabrizio Colonna suo contestabile. In occasione di questa pace, fatta quasi in onta al pontefice, un dì in luglio sulla porta della libreria papale furono trovati affissi alcuni versi, due dei quali alludenti al bove dello stemma borgiano contenevano questa invocazione al Tevere :

   Merge, Tiber, vitulos animosas ultor in undas
   Bos cadat inferno victima magna Jovi.

   I versi sono riferiti negli Annali veneti del Malipiero. con la quale invocazione la sorte del duca di Gandia dai baroni veniva desiderata anche agli altri figliuoli di Alessandro VI, senza ritegno o riguardo alcuno al sospetto che l'assassinio fosse stato opera loro. Ma poiché anche i giudizi della storia sono soggetti alla fortuna, agli Orsini non doveva essere imputato il delitto.
 In mezzo a tanti pericoli che minacciavano la sua famiglia, papa Alessandro non aveva un figlio capace di difendere i suoi. Don Jofré era ancora un giovine di appena venti anni, e benché nella perdita e nel riacquisto del Regno seguendo le sorti aragonesi avesse mostrato buon animo, non era tale che gli potesse esser affidato tanto inca rico; anche negli anni appresso, esercitato in mag giori imprese, egli non dimostrò mai né quella audacia né quella fermezza che era propria della sua casa e passò la vita quasi ignorato agli stessi cortigiani. Del resto il sospetto che egli avesse avuto parte nella morte di Giovanni, per gelosia della moglie, gli faceva perdere il diritto di rac coglierne la eredità. Cesare solo poteva difendere casa Borgia, egli che fin dall'adolescenza ne era stato predetto la speranza ed il decoro : in lui la vita cardinalesca non aveva fatto mancare la forza né gliene aveva impedito gli esercizi necessari in quel tempo, in cui ancora si vedevano vescovi e cardinali comandar le battaglie. I suoi spiriti guer reschi appaiono nell'inscrizione della spada che forse usò nella incoronazione di re Federico : nel la lama a rabeschi d'oro era scolpita la strage de gli Isdraeliti col motto Cum numine Cacsaris Amen, e nell'armatura leggevasi: Caesar Borgia cardinalis Valcntianus. '

 

1 Di questa spada che l' abate F. Oalliani legò al duca Ono rato Gaetani si dà dal Cancellieri (Let. sulle spade dei più cel. capit. Roma 1821) una diversa descrizione, dicendo esso che d'ambe le parti della lama era inciso il motto Aut Cessar aut nihil. Io mi sono attenuto alla descrizione che ne dà il Cesaretti in una nota de\\\lstoria del princ. di Piombino, Firenze 1788. — 41 — Né gli mancavano i piccoli vizi de' giovani car dinali, e con loro fuggiva dalla mensa papale cui era convitato, perché vi era servita una sola vi vanda. l Il male terribile che nel marzo del 1493 incominciò in Roma, e che poi diffuso dai sol dati di Carlo VIII ebbe nome di mal francese, fe' manifesto come il clero osservasse i canoni che la fornicazione consideravano un caso nefando; in numerevoli furono quelli che nel primo infierire ne morirono. Anche Cesare ne fu colpito, e alla sua cura il medico Gaspare Torrella spagnuolo ebbe ad attribuire la scoperta e della natura del morbo prima giudicato incurabile e del rimedio di esso : così almeno egli dice nella dedica fatta a Cesare del suo trattato, aggiungendo che all' essersi egli lasciato curare secondo il suo precetto il mondo doveva essere a lui obbligato. * In questo libretto che ebbe molto grido, il Torrella declama contro i medici che malamente adoperavano gli unguenti mercuriali, proponeva dieta, pozioni, unguenti e sudazioni "in fumo calido." Come una particolarità dei costumi del tempo, torna opportuno no tare che la dedica ad un prelato di un libro di tal fatta non era sconveniente ; anche Sebastiano Aquilano professore a Padova ne dedicò uno a Ludovico Gonzaga vescovo di Mantova.

 

1 Disp. di G. Boccacci 24 maggio 1495 da Roma. s È riprodotta nei Docum. al n. 7. — Per ordine del cardi nale nei mesi di settembre ed ottobre 1497 il Torcila ebbe anche a curare alcuni suoi famigliari, "iussu rev. Dom. cardinalis Valer. tini, quem Deus protegat, visitet atque defendat." — 42 — Fin dai primi del febbraio di quest'anno, 1498, cominciò a parlarsi per Roma della intenzione di Cesare di deporre il cappello, e si riteneva dai cortigiani che egli avrebbe avuto, per un paren tado col re Federico a ciò sollecitato dal duca di Milano, il principato di Altamura con molte altre terre nel Regno : si diceva ancora che donna Lucrezia sarebbe diventata moglie di don Alfonso di Bisceglie fratello della principessa di Squillace ; es sendo già per sentenza stato sciolto il matrimonio di lei con Giovanni Sforza. Come per mostrare un segno della intenzione di Cesare, il Burcardo non lascia di scrivere nel suo Diario che il di 21 febbraio i cardinali Valentino e Borgia si recarono per piacere ad Ostia, con abito laico alla francese, solito ad usarsi dai giovani prelati per più comodità di divertimento. Per queste notizie di Roma i ragionamenti fu rono varii; l'oratore ferrarese in Firenze scrisse, "serà cosa de admiratione", ma un cortigiano che aveva un alto ufficio nella Camera non si tur ba per ciò, contento se "così anderemo vedendo alla giornata di belle cose. l" Ma pervenute a Ve nezia quelle notizie ebbero ben diverso commento. Da due anni per gelosia del duca di Milano, se condo i consigli del quale pareva condursi, i Ve neziani mostravano al papa una certa diffidenza che si venne ognor più accrescendo, e che si con

 

1 V. let. 16 feb. 1498 di G. Spannocchi nelle Memorie di Alfano Alfani di G. C. Conestabile, Perugia 1848. — 43 — vertl in vero sospetto, quando intesero le pratiche di quel doppio parentado: comunque la cosa av venisse, si riscontra il fatto che appunto in questi anni cominciano a diffondersi per Venezia alcune delle più gravi accuse che gravar dovessero sopra i Borgia. Dopo appena quattro anni di pontificato, le "divine virtù" che gli ambasciatori della Si gnoria avevano decantato alla elezione di Ales sandro, lasciano subitamente il posto ai detestabili vizi: e il papa parsimonioso che faceva fuggire dalla sua tavola i commensali perché si cibava di una sola vivanda, diventa ad un tratto un cra pulone che si consuma in orgie notturne: né più gli basta la tresca con la bella Giulia sua favorita d'un tempo, ma i suoi sessantasei anni gli fanno desiderare altre e altre donne che per maggiore infamia i figli suoi gli procurano, poiché nell'ot tobre 1496 é detto che Giovanni gliene recò una di Spagna. È pure narrato che per la sua lascivia un marito di una romana che gli aveva partorito un figliuolo, fu spinto ad uccidere lo suocero che a lui papa l'aveva venduta. E facendolo ritornare ai primi amori, nel marzo 1497 gli si fa avere un altro figliuolo da madonna Giulia, e per dare mi glior spaccio alla cosa si aggiunge : "Tamen non se ne fa nota, benché non sia stato il primo, ché essendo pontefice ne ha avuto degli altri." l Ma non era solo di Alessandro che si voleva guastare la riputazione: non appena si seppe che Cesare e

 

1 Ne parlano in più luoghi i Viari di M, Sanuto. — 44 — Lucrezia stavano per contrarre parentado co'Reali di Napoli che anche su loro la calunnia discese. L'8 febbraio 1498 si conosce per Roma che Ce sare sta per deporre il cappello, onde assumere la eredità di casa Borgia, e il 22 febbraio l'ora tore ferrarese intende ripetersi in Venezia che egli fu causa della morte del duca di Gandia; ' passano pochi giorni, e di Lucrezia si accerta es sersi sgravata di un fanciullo. Il 14 febbraio si trova nel Tevere il cadavere di un Pierotto o Pietro Calderon famigliare del papa, che da sei giorni vi era caduto, non libenter così almeno scrive il Burcardo; ma in Venezia, si dice che fu ammazzato da Cesare il quale (sarà poi narrato nella relazione di P. Cappello) lo "ammazzò di sua mano, sotto il manto del papa, si che il san gue saltò alla faccia del papa, del quale messer Pierotto era favorito." Era la prima volta che contro Cesare veniva pronunciata la terribile accusa dopo un anno quasi che il fratel suo era stato ammazzato ; da nessun fatto era provata, ma dal solo sospetto che ve niva a dare quella sua rinunzia al cardinalato, che lo faceva scoprire autore della morte di chi egli raccoglieva la eredità. Alla voce diedero credito senza dubbio i molti Orsini che erano allora in Venezia, i quali cosi si sgravarono dell' imputa zione che loro aveva fatto il papa, sebbene essi

 

1 "De uovo ho inteso come de la morte del duca di Gandia fo causa il cardinale suo fratello." Disp. G. A. Pigna, 22 f'eb. 1498 da Venezia. — 45 — se ne fossero quasi gloriati. L'accusa, una volta pronunciata, fu ripetuta da Paolo Cappello nella relazione del 28 settembre 1500, da Silvio Savelli nella lettera del novembre 1501 ; ma tardò assai a diffondersi : anzi in alcune cronache quantun que rifatte dopo, come in quella attribuita al Matarazzo, continua a darsi la colpa dell'assas sinio ad altri. Questa tardità dell'accusa appare anche dall'estratto dei dispacci dei Dieci fatto da N. Machiavelli, in cui si legge: "Per allora non si seppe, poi si tenne per certo che il card. di Valenza, o per suo ordine, fussi stato lui au tore di questo omicidio per invidia e per conto di mona Lucrezia." Quando scriveva l' Istoria, fiorentina, F. Guicciardini ignorava di dover poi accusare Cesare di avere fatto ammazzare il fra tello, incitato dalla libidine e dall'ambizione. In tanto a prevenire gli effetti di una nuova spedizione francese, papa Alessandro prima di rom persi coi Veneziani e di intendersi con Federico, per consiglio dello Sforza aveva mandato un suo segreto inviato alla corte di Francia, cercando per quanto si dice di persuadere Carlo VIII a pro curargli il matrimonio di Cesare con Carlotta fi gliuola di Federico che in quella corte era edu cata. L'inviato papale giungeva nel marzo 1498 ad Amboise, e fu F. Comineo che lo condusse nel la camera del re: cosi lo storico francese poté sa pere che il papa malcontento dei Veneziani estoit en grand' pratique, de tous points. a se ren — 46 — ger des siens. ' Ma in quelle pratiche Carlo VIII morì (7 aprile), né allora il papa poté riprenderle con il suo successore Luigi XII, il quale per aver portato alla corona di Francia i diritti della casa Orleanese sul ducato di Milano, era per mettere di nuovo in pericolo la pace d'Italia. Gli Sforza ad impedire una calata del pretendente in Italia, spe rando di unire la loro sorte a quella del papa, cer carono di favorirne i disegni. Per ciò il duca Lodovico per due volte mandò un suo cancelliere a Federico, richiedendo uno stato ed una moglie per Cesare ; ma il re non volle dare né la figliuola né lo stato, riputando essere dispari e disconve niente il matrimonio anche fatto col figlio d' un papa, e troppo lo stato di cinquantamila ducati di rendita che i Borgia possedevano in quel Re gno tanto distrutto. Ebbe a dire Federico che per la conservazione dell'onore d' Aragona piuttosto che cedere avrebbe "prima consentito perdere lo Regno li figli e la propria vita," però accettò il matrimonio di Lucrezia con don Alfonso, e per Cesare trovò la scusa di volere consultare prima i Reali di Spagna. Invece Federico preferì di far avere a Cesare i feudi posseduti dal fu duca di Gandia. Chi facesse primo la proposta, se il papa od il re, non appare nemmeno dalla istruzione che Federico diede a Consalvo Ferrando nel suo ri torno ; * ma pure vi é detto che ambedue la de

 

1 Memoires de Ph. de Commines. liv. 8.

 

2 L'istruzione 24 luglio 1498 fu puh. nei Doc. per la storia della milizia italiana rac. da G. Canestrini. Firenze 1857. — 47 — sideravano, e che il re mandò a posta un suo can celliere in Ispagna dove era da spogliare l' in fante, già per atti pubblici del regno di Valenza riconosciuto erede del ducato di Gandia e dei feu di napoletani di Sessa e Teano; ' mentre le robe che il padre suo aveva in Roma, fattone l' inven tario e la stima in 30 mila ducati d' oro, erano state consegnate a Cesare con obbligo di convertirle a maggiore utilità del pupillo. Celebrato in Vaticano il matrimonio di Lucrezia con Alfonso (luglio 21), il re credette di aver acquietato il papa e di non aver più da te mere che si gettasse ai Veneziani, i quali nega vano a lui la restituzione delle terre di Puglia, anche pagate le spese della guerra del 1490. Ma altra occasione si presentò al papa per insistere nel suo proposito. Alla fine di giugno Luigi XII aveva mandato a Roma a chiedere la dispensa del divorzio con la vecchia regina. Se la dispensa consentiva a Luigi di sposare la vedova del suo antecessore che gli portava in dote il ducato di Brettagna, il papa che la concedeva aveva bene da trame qualche profitto. Per tanto, fatto il 29 luglio il breve di nomina dei commissari che avevano da dare la sentenza del divorzio, da uno di questi, il vescovo di Setta Francesco d'Almeida portoghese, fece chiedere a Luigi per Cesare il contado di Valenza presso Avignone, e la figliuola

 

1 V. l' atto 27 settembre 1497 riassunto nel Periadico di nu mismatica, e sfragistica fasc. 2 anno 3, Firenze 1870. — 48 — del re Federico. Per quanto lui riguardava il re tosto lo compiacque, anche perché con questo egli poco donava ed il papa poco otteneva. Fra le due corti da un secolo esisteva una lite non mai ter minata a cagione di quelle contee di Valenza e di Dia che i papi per concessione lor fatta dal l'ultimo dei Delfini pretendevano essere di diretto dominio della Chiesa. Occupate prima da Carlo VII e per sé ritenute come di buon diritto, Luigi XI più scrupoloso le aveva restituite ; ma dopo pochi mesi, non fu egli morto, che il Parlamento del Delfinato le riunì di nuovo alla corona di Fran cia: Carlo VIII fu per proporre ad Innocenzo di rimetterle ad un giudizio di arbitri, ma la cosa fu protratta fino alla sua morte. Per terminare la contesa Alessandro VI non credette mezzo mi gliore che di venire ad un accordo con Luigi XII, e fu questo che la Santa Sede rinunciasse ai di ritti che la Chiesa pretendeva di avere su quelle contee, e che il re, eretta quella di Valenza in ducato, la conferisse a Cesare. E cosi fu fatto. Alcuni storici rimproverano ad Alessandro quella rinun cia; ma forse a sua scusa vale rammentare che quando Luigi XI restituì quelle terre, Sisto IV ottenne che fossero trasmesse al conte Girolamo Riario suo nipote in nome della Chiesa. ' In tal modo Alessandro rifaceva l'opera di un suo anteces sore che con quell'atto aveva già pregiudicato le

 

1 Il breve con cui Sìsto ne rese grazie al Re é citata nella Istoria dì Avigrwne del p. S. Fantoni, Venezìa 1678. — 40 — ragioni della Sede al dominio diretto del Valentinese. Il dì stesso, 13 agosto, che il signor di Villanova ambasciator francese portava in Roma le patenti regie che conferivano a Cesare il nuovo ducato, il giovane cardinale si presentava in concistoro a dire che sino dalla sua giovinezza per nulla era stato inclinato alla vita ecclesiastica, nel la quale aveva tuttavia perseverato per non di spiacere al papa: pregava quindi i cardinali di far gli avere la dispensa di deporre il cappello, e di intercederne per lui la grazia dal pontefice. Per comune voto il Collegio rimise la dispensa all'ar bitrio di Alessandro, il quale tosto l'accordava, non essendovi che l'impedimento del diaconato, il solo ordine sacro che a Cesare fosse stato con ferito. Questa rinuncia assai dispiacque ai Reali di Spagna, ai quali (benché pochi di prima, il 5 ago sto, avessero segnato una tregua con Luigi XII) non poteva riuscire gradito che il papa si strin gesse così con la Corte di Francia da farne diven tare un principe il suo stesso figliuolo. Ma alle obbiezioni che gli fece l'oratore spagnuolo, Ales sandro seppe rispondere al card. Ximenes che egli non aveva potuto impedire a Cesare di rinunciare al cardinalato, prò salute animae suae, e che se egli era per diventare principe francese, i suoi molti benefici' erano per darsi a'gpagnuoli, aggiungendo di avere alla Corte di Spagna un altro nipote, l'e rede di Gandia, che particolarmente le volea rac comandato. 4 — 50 —  Così Cesare, per un caso di omouomia singolare, non cambiato nome, come era stato cardinale di Valenza, diventò duca di Valenza.
 Luigi XII doveva mandare per mare ad Ostia il signor di Sarenon a levare il nuovo duca, agli ultimi di agosto; ma le navi tardarono un altro mese ad arrivare. Il papa spese un tesoro nei preparativi della partenza. Egli volle che Cesare andando a prendere stato e donna alla Corte di Francia, vi dovesse sfoggiare lo straordinario lusso, onde andarono famosi i principi italiani di quel tempo, sia per le pompe del vestiario o sia per il numero del seguito. Avevano da accompagnarlo cento servi, fra paggi scudieri e staffieri con dodici carriaggi e cinquanta muli da portare i forzieri ; i giannetti ed i cavalli erano tutti riccamente bardati, con staffe ferri e campanelli d'argento al collo. Della sua casa dovevano andare con lui il medico Gaspare Torrella e il maggiordomo don Remigio di Lorqua. Ed a fargli corteggio furono richiesti trenta gentiluomini, fra i quali molti romani come Giangiordano Orsini. Pietro Santa Croce, Mario di Mariano, Domenico Sanguigna, Giulio Alberini. Giambattista Mancini, Bartolomeo Capranica, tutti giovani di quelle nobili famiglie romane che i Borgia con benefizi e parentadi avevano saputo farsi aderenti; in quei giorni appunto, l'8 settembre, in Vaticano Fabio Orsini figliuolo di Paolo disposava Jeronima nipote del pontefice. Alla fine di settembre arrivò il signor di Sarenon ad Ostia, ed il papa il 28 scrisse la credenziale per Cesare al re. Gli dice che per aderire al suo desiderio egli gli manda il duca che chiama "cuoisuo" e glielo manda in segno del suo affetto verso la Corona di Francia, e lo prega di trattarlo in modo che tutti comprendano quanto Cesare alla regia fede commesso a lui sia accetto.

   È riport. nei Documenti al n. 8.

Tre giorni dopo, l'I ottobre avvenne la partenza. Quattro cardinali lo accompagnarono fino all'ultima porta de' Banchi. Era vestito d' un farsetto di bianco damasco orlato d'oro, con un mantelletto di velluto nero gettato sulle spalle, ed un berretto pur nero in capo ornato di grossi rubini : anche nei calzari aveva cordoni d' oro e perle : il suo cavallo portava una bardatura di seta rossa e di broccato d' oro con staffe e ferri d' argento. Dei gentiluomini che lo seguivano, i romani erano come lui vestiti alla francese, di drappi d'oro e d'argento, ma gli spagnuoli conservavano il costume della loro nazione. I paggi e gli staffieri avevano abiti di velluto cremisi e di seta gialla, partiti a metà, secondo i colori della Casa di Francia cui Cesare apparteneva. Il papa rimase alle finestre del palazzo ad ammirare la bella cavalcata, fino a che non glie la nascosero i nuvoli della polvere ; e sorrideva e piangeva di consolazione a mirar lo splendore delle ricchezze che aveva profuso sul figliuol suo, dando fondo ai forzieri della "povera" Chiesa.

   II Burcardo che chiama ancor Cesare Cardinalis Valentinus, dice che secrete recessit!

Il 12 ottobre il duca arrivò a Marsiglia dove per ordine del Re era andatq ad incontrarlo l'ar civescovo di Digione, e di là fece via per Avignone aspettatovi dal card. della Rovere che da alcun tempo aveva dismesso le inimicizie col pon tefice, cessata la gelosia del card. Sforza, e che assai si era adoperato per Cesare. Egli doveva ac compagnarlo alla Corte in Turrena ove i Reali di Francia di quest'epoca avevano fermato la loro residenza: Blois era la città favorita di Luigi XII come di Carlo VIII era stata Amboise, cosi che quasi tutti gli atti de' due sovrani portano la da ta di questa o quella città, o de'castelli vicini. Il 31 ottobre Cesare era ancora in Avignone, don de scrisse al marchese di Mantova. Il 18 dicem bre giunse al castello di Chinon dove era la Cor te. La sua entrata fu stupenda a vedere ' Il cardinal di Rouen,il siniscalco di Tolosa i signori di Ravestain e di Clermont accompagnati da molti si gnori e gentiluomini della Corte che fino al pon te gli erano andati incontro, lo accompagnarono al castello dove il re era ad aspettarlo. Andando in Francia, oltre il cappello che portava per monsig. di Rohan primo ministro del

 

1 Di questa entrata, furono fatte descrizioni in verso e in prosa. Una fu raccolta fra le carte appartenute a N. Machiavelli che si custodiscono nella Biblioteca nazionale di Firenze. Un'altra si legge riassunta nelle Vies des hommes illustres del signor di Brantóme che la estrasse da un vecchio cantare. Descritto il "ric chissimo corteggio, vi si dice che il duca aveva Et un collier pour en dire le c&s Machiavelli, che Cesare portava anche la dispensa pel matrimonio di Lui gi con Anna di Brettagna. E si aggiunge: Il pa pa "questa dispensa la dette a Valenza quando andò in Francia senza che altri lo sapesse con or dine che la vendesse cara a quel re, e non pri ma che fosse soddisfatto della moglie e degli altri suoi desideri. E mentre queste cose si agi tavano, seppe el re dal vescovo di Setta, il quale per avere rivelata la cosa ne morì per ordine di Valenza, che la dispensa vi era, e così senza averla vista o avuta consumò il matrimonio." II racconto é cosi strano che non importerebbe nemmeno prenderlo in esame; per mostrarne l'er roneità, basta rammentare 1° che la notizia della dispensa anziché essere segreta era conosciutissima così che p. es. se ne parla in un dispaccio dell'orator ferrarese Manfredi del 2 ottobre; 2° che il giorno prima che Cesare entrasse in Cbinon , il 17 dicembre i tre commissari papali (il card. del Lussemburgo ed i vescovi di Albi e di Setta) nella chiesa di san Dionigi in Amboise avevano profferita la sentenza dissolutiva del ma trimonio con la regina vecchia, dopo la quale, per essere come la chiamano nastrarti senteniiam definitivam, non pare che necessitasse altra di spensa ; 3° che la Corte si trattenne ancora in Chinon per la cerimonia del cappello di Roano al quale, presente il re, il dì 21 dicembre fu im posto dal legato della Rovere ; 4° che solo il 7 — 54 — gennaio 1499 da Luigi e da Anna fu firmato in Nantes l' atto delle nozze che in quel castello dovevano celebrarsi. ' Donde adunque il Machia velli traesse la notizia mal si comprende. Ad ogni modo é certo che non furono gli ambasciatori fio rentini quelli che narrarono quella morte nei loro dispacci, perché allora non accadde, ma due anni dopo, all' assedio di Forlì, dove il vescovo aveva seguito il duca. 2 L'estratto del Machiavelli ha le notizie troppo confuse col commento per non far credere che il gran segretario, anziché star con tento a riprodurre i fatti come erano nei dispacci che esaminava, non li spiegasse o li commentasse come li udì poi narrare a' suoi dì, quando la ma ledetta fortuna dei Borgia faceva sospettare di tutte 'le morti che attorno a loro avvenivano. In una lettera del 18 gennaio da Nantes, il card. della Rovere si loda col papa di Cesare che "per la modestia, la prudenza, la prontezza e le altre virtù sue aveva saputo acquistarsi l'affetto di tutti." Ma né queste doti, né la predilezione del re, avevano potuto vincere Carlotta, la figliuola di Federico : dice il cardinale in quella lettera che "la donzella o per sua contrarietà o perché da altri indotta, come era più da credersi, costantemente si ricusava al matrimonio." Dopo questo rifiuto pare ; ' La sentenza 17 dicembre 1498 e l'atto 7 gennaio 1499 sono puh. nel Recueil des traités di F. Leonard, Paris 1693. * Di questa morte del vescovo Ferdinando d'Almeida vescovo di Setta parlano i cronisti forlivesi, che ancor ne descrivono i funerali. che Cesare fosse per ritornare a Roma. Il re infatti il 4 febbraio nel castello di Loches commetteva al card. della Rovere a Cesare ed altri procuratori di prestare per sé in Roma l'obbedienza al pontefice.

   Nel l'atto Cesare é detto "monseigneur le duc de Valentinois."

Ma altro accadde, e non parti. Federico ebbe paura del suo rifiuto e dubitò che la rottura del matrimonio non spingesse Alessandro a gettarsi nelle braccia dei Veneziani; per ciò largo a promettere nel pericolo, per consiglio di Lodovico, rimandò a Roma a proporre grandi patti, co' principati di Salerno e di Sanseverino tolti ai baroni ribelli pel duca. Il papa era per cedere ed accettare una lega fra Milano, Napoli, la Chiesa e Firenze, se Cesare non avesse scritto lettere al papa onde disturbare quell' inopportuno e tardo accordo.

   Sono accenn. nell' Historia de rebus Hispaniae di O. Mariana: "Valentini litterae disturbarunt ex Gallia, ubi lunc erat, renunciantis ejus concordiae etc."

 Per distogliere il papa dalla lega d'Italia e per trascinarlo in quella che stava per concludere con i Veneziani, il re Luigi, mancato il matrimonio con la figlia di Federico, aveva pensato di accasare Cesare in altra maggiore famiglia di Francia. Aveva la regina Anna fra le sue damigelle le figliuole dei primi del Regno, che educava a quella splendida vita della Corte francese già da lei tanto ingentilita sotto Carlo VIII suo primo marito ; di quelle nobili fanciulle il re gli propose o la sorella di Foix sua nipote o la sorella del re di Navarra, e questa bellissima fra tutte fu scelta dal duca. Le pratiche furono condotte durante la quaresima in Blois, dove per sospetto di peste si trattenne la Corte; non furono lunghe ma non del tutto facili. Il vecchio Alano d'Albret che per vecchie contese non era troppo grato al re, non volendo disposare la figlia Carlotta ad uno d'altro paese, mandò il suo consigliere Giovanni Calvimontano uomo di sottile ingegno a dissuadere quelle nozze ; ma Luigi così trasse al proposito suo il consigliere, al quale diede un officio nel Parlamento di Bordò, che il Calvimontano quando ritornò al signor suo, fu egli stesso che lo consigliò ad accettare quel matrimonio che era per rimetterlo nelle maggiori grazie regie.

   Ne parla il Ferronio, De gestis regum Gallorum. Arnoldo Le Feron, che fu consigliere regio a Bordò sotto Enrico II, forse ebbe dal Calvimontano stesso queste notizie. È notevole che egli, al quale non erano sconosciuti gli orridi delitti attribuiti al duca dagli storici toscani, non si periti di dire che Cesare sposo di gran cuore la fanciulla non solo per il parentado che stringeva con le case d'Albret e di Francia, ma anche per la bellezza della moglie, pari alla bontà e alla soavità del costume.

Dicesi da alcuni che per questo matrimonio il papa, mandato il vescovo d'Amalfi. ebbe a promettere di comprare in Francia uno stato di centomila ducati nel quale assicurare la dote, e di fare cardinale Aimone d'Albret fratello di Carlotta; altri invece narrano che ai due patti si obbligò il duca, e benché al secondo del cardinale "fusse gran difficoltà perché il Valentino diceva non avere commissione di farlo, finalmente si segnò che il re promettesse a quelli di Albret che il papa lo farebbe."

   Delle due versioni, questa é nei cit. Estratto del Machiavelli, e l'altra nella relaz. di Paolo Capello 28 settembre 1500. Il Burcardo riporta essere ne' patti che il matrimonio non doveva consumarsi prima della nomina del fratello della sposa al cardinalato.

Ai 20 di aprile il papa ebbe notizie che il matrimonio era concluso, e le nozze furono celebrate il 12 maggio.

   I1 Burcardo udì narrare il duca nella prima notte fecisse octo viages.

Sette giorni dopo il 19 maggio, festa della Pentecoste. Cesare fu fatto cavaliere dell'ordine di san Michele, allora in grande onore, perché per elezione fatta dal sovrano e dai cavalieri si conferiva soltanto ai primi del Regno, a difesa del quale era stato instituito da Luigi XI. In Roma il papa per queste buone nuove fece grandi feste.
 Fra tanto il 15 aprile in Blois si era conclusa una lega fra il Re ed i Veneziani, fatta (come si dice nel trattato) contro tutti, nessuno eccettuato altro che il vivente pontefice al quale é lasciata facoltà di entrarvi: era il primo atto della guerra contro il duca di Milano. Si narra che le pratiche furono tenute tanto segrete, che solo negli ultimi mesi, Lodovico, arrestato ai passi di Lombardia un Jacopo cancelliere del Valentino che ritornava al suo padrone in Francia, ne ritrasse essere il papa entrato nella lega; onde il 13 luglio il card. Ascanio fuggì da Roma. Ma in quel mese erano già comparsi in Piemonte i primi francesi.
 In pochi giorni il bel ducato era perduto, e Lodovico esulando portava seco i destini di quell' Italia che alla calata di Carlo VIII aveva mo strato tanta forza, vittima della preponderanza per tanti anni da lui esercitata. Fra il Moro ed i Veneziani vi erano lunghe ragioni di contese, dopo ché al ritorno di Carlo in Francia egli aveva fatto pace separata col re. In questi ultimi anni il duca, trattenuti i Fiorentini con la speranza di far loro riavere Pisa era riuscito a deviare il papa dai Veneziani e ad accordarsi con Carlo ; ma la suc cessione di Luigi XII ruppe il suo disegno, e prestò modo ai Veneziani di disfarsi di lui che tante volte li aveva offesi nelle . loro imprese di Toscana e di Puglia. Il papa aveva minori ragioni di dolersi di Lodovico, il quale sebbene nel 1494 gli avesse irritato contro Carlo VIII, lo aveva però in seguito aiutato a riconciliarsi con esso, e ultimamente si era adoperato per fargli avere nel Regno uno stato per il figliuolo. Ma qualun que fossero le buone disposizioni di Alessandro, anche accettate le nuove offerte di Federico men tre Cesare era in Francia, é assai dubbio che il papa avesse potuto impedire ai Veneziani di fare al re ed a questi di accettare l'offerta di quel bel ducato di Milano che valeva un altro Regno. Né forse bastava la lega fra Milano Napoli Chie sa e Fiorentini, di cui si erano segnati fino i capitoli. Ma il papa a lasciar venire Luigi in Ita lia fu vinto da una maggiore promessa.

I.

A quali condizioni Alessandro VI fosse entrato nella lega contro gli Sforzeschi apparve dalla legazione del card. Giovanni Borgia suo nipote, al cominciare della guerra per lui mandato a Firenze ed a Venezia. Giunse il cardinale in Firenze agli ultimi di agosto, e propose una confederazione ; ma cosi male se ne conobbero gli intendimenti, che uno dei cancellieri, B. Buonaccorsi, ebbe a scrivere nel suo Diario che "era mandato dal papa per unire tutta Italia contro i francesi di loro impaurito!" Né questo mal giudizio maraviglia, perché i Fiorentini, tanta era stata la loro leggerezza di lasciarsi precipitare addosso la guer ra, non si erano ancora dichiarati amici del re. Arrivato a Venezia.ì' 11 settembre, ammesso m udienza segreta, espose avere il papa col favore del re da ricuperare alla Chiesa alcune terre di Romagna e perciò domandare alla Signoria di a-y stenersi da ogni aiuto o protezione a quei vicari; e pare che il legato nominasse non solo Imola Forlì e Pesaro, possedute dagli Sforzeschi ma anche Faenza e Rimini. Preso tempo, il 23 fu de— 60 — ciso di rispondergli che la Signoria "quanto a Faenza e Rimini non puo1 permettere che '1 (papa) se n' impazza ; ma de i altri luoghi, che la no farà prohibition alguna. '" E partito il legato, il 26 gli furono mandati dietro ambasciatori che dices sero al re essere desiderio della Signoria di procedere d accordo nell impresa di Romagna. È incerto quale parte prendesse il duca nella guerra di Milano, ma sembra che egli non si trat tenesse col re in Lione ad aspettarne l' esito, ma fosse nell'esercito di Ligny e di Trivulzio, che in agosto si accampò attorno ad Alessandria, e che il 6 settembre prese Milano. In un panegirico di Pier Francesco lustolo di questa guerra gli é fatto gran vanto, leggendosi in esso che il giovane eroe, tolto ai primi amplessi ed alle prime dol cezze dell'imeneo, ebbe a condurre innumeri coorti di belgi ed a passare le alpi, Unde velut fulmen tumidos descendis in hostes Sfortiadas ; solioque illos depellis avito. 2 All'entrata di Luigi in Milano, il 6 di ottobre, essendosi fermata la Corte al monastero di sant'Eustorgio fuor delle mura per mutar vesti, il segretario genovese Antonio Gallo vide il duca fra gli "altri grandi signori" aspettare il re alla

 

1 Annali di D. Malipiero. — Si noti che in vece di Faenza nel testo stampato si legge Ferrara. È certo un errore, nel quale é caduto anche il Romanin che pure lesse i Secreta del Senato. 2 Petri Francisci Justuli Opera rursns vulgata oc ineditis aucta. Spoleti 1855. porta della cella in cui si era ritirato. Erano nel seguito il legato Borgia, ed i cardinali della Ro vere e di Roano, i duchi di Savoja e di Ferrara, il marchese di Mantova, e gli ambasciatori dei Genovesi, Fiorentini, Pisani, Senesi e Bolognesi. B. Castiglione, il quale era in Milano col suo mar chese di Mantova, descrivendo in una lettera il corteggio, dice che "fu bel vedere" i carri del giovane duca, pochi, ma sopra tutti gli altri ricchi di drappi: anche lo storico Gian Andrea Prato che fa una lunga descrizione del corteggio nota che quello del duca fu "cosa stupenda da ve dere." II futuro autor del Cortegiano notò pure che nella cavalcata "el figliuolo del papa era molto galante > ; e quella galanteria non era per dispiacergli, se dopo pochi di in altra letterali doleva amaramente al veder quel castello di Mi lano "già ricettacolo degli uomini del mondo, pieno di bettole e profumato di letame." ' Nei primi giorni tra le feste e le caccie fu rono conclusi i capitoli della protezione francese che i signori d'Italia in quel generale mutamento di stati avvenuto per la disfatta di Lodovico, cer carono a caro prezzo dal re. L'impresa di Romagna fu tra le prime decisa, e in quelle prati che non poco si adoperò in favore di Cesare, il card. della Rovere, il quale assicurata al fratel suo Sinigallia con il matrimonio del nipote Fran cesco con Angela Borgia, volentieri abbandonò i Lett, di B. Castiglione 8 e 12 ottobre 1499. — 62 — alla loro rovina i Riarii pure suoi parenti, di Sisto IV nipoti; in una lettera del 12 ottobre il cardinale ringrazia il papa della proposta del ma trimonio e promette che sarà per patrocinare presso il re gli interessi di Cesare. N. Machiavelli nel libro del Principe, discor rendo di questa impresa di Romagna, rimprovera a Luigi XII di avere aiutato il pontefice ad oc cuparla, malgrado che quei vicari avessero do mandato la sua protezione : e dice che non "si accorse con questa deliberazione, che faceva sé debole, togliendosi li amici e quelli che se li erano gettati in grembo ; e la Chiesa grande, ag giungendo allo spirituale, che gli da tanta autori tà, tanto temporale." Ma non é da credere che l'a micizia degli Sforzeschi gli sarebbe stata di gran de utilità, perché mal sicura. ' Luigi, se non avesse dato aiuto al papa, avrebbe dovuto occupare egli stesso la Romagna o lasciarla occupare dai Ve neziani, come ne avevano mostrato desiderio, quando al principio della guerra avevan ten tato di prendere Cotignola, castello nativo degli Sforza, che si teneva per il duca di Milano; e l'avrebbero preso se quegli abitanti non avessero alzato le insegne del re al quale per ragione di conquista il castello doveva appartenere. Ma a compiere l' impresa non bastava il solo

 

1 Se ne videro gli effetti al ritorno di Lodovioo. Il Bentivogh che fu preso in protezione non soccorse il re, onde dovette pagar una grossa taglia. V. le Memorie per la vita di- Giovanni II de' Bentivogli del conte G. Gozzadini. Bologna 1839. — 63 - aiuto del re, ma il consenso dei Veneziani e dei Fiorentini, i quali per la protezione in che ave vano quei vicari erano per opporsi al pontefice." All'elezione di Alessandro VI pareva chela" potenza della Chiesa fosse venuta a mancare in Romagna, così che i signori che vi erano per vi cari non solo si rifiutavano a pagare i censi do vuti, ma facevano leghe e portavano le armi con tro la Chiesa istessa. Gli ultimi pontefici che ave vano preceduto Alessandro, per un mezzo secolo di guerre avevano combattuto i vicari inobbe dienti; ma perché non usavano armi proprie,, e perché avevano nipoti da mettere in jstato, non si curarono di restituire alla Chiesa le città rioccu pate, ma preferirono di dividerle fra i loro fi gliuoli e nipoti, facendone parte anche a quei signori vicini che li avevano aiutati. Pio II ave va visto disperdersi il bel dominio dei Malatesta che si estendeva su tanta parte di Romagna; ma la morte gli impedì di poter lasciare Sinigallia ad Antonio duca di Amalfi, e Fano ad un altro nipote. L'opera fu compiuta con migliore fortuna da Sisto IV, dopoché da Paolo II fu ripresa Ce sena a Roberto Malatesta che nel 1470 a grande stento salvò Rimini, ultimo avanzo dell' antica grandezza. Nel 1471 Sisto comprò Imola dal duca di Milano, dote di Caterina Sforza, per il conte Girolamo Riario, e nel 1475 donò Sinigallia a Giovanni della Rovere. Ma ai Veneziani che lo soccorsero contro Lorenzo de' Medici non poté ri domandare Ravenna e Cervia, nelle quali si di— 64 — cevan succeduti all'ultimo Ostasio da Polenta, e da loro mal seppe difendere Ferrara, dove quei forti mercanti imposero un visdomino per assi curarsi dell' amicizia di quel Marchese, che im pedendo la navigazione del Po, avrebbe potuto recar gravi danni ai loro commerci. Anzi sotto lui maggiori benefici ebbero Ercole d'Este e Fe derico di Montefeltro, fatti duc1li di Ferrara e di Urbino, e Giovanni Bentivogli primario cittadino di Bologna. Da Paolo II aveva Giovanni ottenuto di appartenere sempre per tutta la sua vita ai Sedici che erano al governo della città, sotto un legato; e Sisto IV ne rese ereditaria la dignità nella famiglia, ordinando che fosse ascritto al Ma gistrato il figliuolo Anni baie che aveva a succeder gli. Per contro preparando al Riario un grande stato, lasciò che egli, perché Lorenzo de' Medici forniva soccorsi a Carlo Manfredi di Faenza, en trasse scopertamente nella congiura de' Pazzi; poi nel 1481 morto Pino degli Ordelaffi gli diede Forlì, e gli avrebbe dato anche Cesena Rimini e Faenza, se viveva ancora qualche anno. Distratto da altre cure Innocenzo VIII non parve che si volesse occupare di Romagna per non offendere i duchi di Milano, che erano a lui troppo necessari nelle sue contese con i Reali di Napoli. Nel 1488 in Forlì, gli Orsi gettano da un balcone del palazzo il cadavere del conte Girolamo; ma il papa non si perita di mandare il suo governatore di Cesena ad aiutare i Forlivesi che assediavano nella cittadella Caterina Sforza. — 65 — e lascia che gli uccisori che il nome di lui e della Chiesa avevan gridato nella congiura, se ne va llano in esiglio al giungere di Giovanni Bentivogli pronto a soccorrere la parente con armi milanesi. Per un momento solo pensa a dare Forlì a Gian Giacomo Trivulzio, ma tosto ne dimette il pen siero, e per tutto il suo papato lascia la llomagna alla dipendenza dei ducbi di Milano, non contra stata che dai Medici, i quali per la uccisione di Galeotto Manfredi ordinata dalla moglie Francesca Bentivogli, dicesi per consenso del padre . avevano mandato loro commissari a prendere in protezione il pupillo ed i Faentini. In mezzo a questi casi, non restando più alla Chiesa che la città di Cesena, la quale Innocen ze in un di d'ardimento aveva chiamato "l'an temurale dello stato nostro di Romagna," era eletto Alessandro VI. Alla calata di Carlo VIII egli vide quanto vera fosse la minaccia fatta da Lodovico al vecchio Ferdinando, che cioé ove 'il Moro avesse lasciato venire il re, il duca di Fer rara Giovanni Bentivogli ed i signori di Forlì e di Pesaro suoi parenti gli avrebbero dato il passo, in modo che i francesi sarebbero andati con la lan cia su la coscia sino sul Tronto. Cacciato Pier de' Medici da Firenze, mancò pure l'autorità dei Fiorentini in Romagna ; ma un' altra ben più pe ricolosa vi sottentrò, quella dei Veneziani: essi nella lunga guerra che si combatté per la libertà di Pisa, e per la lega che avevano col pontefice, ebbero agio di estendervi la loro potenza. Già 5 — 66 — nel 1493 contro i Riario avevano mostrato di favorire Anton Maria Ordelaffi che vantava di dover succedere a Pino. Nel 1495 si intromettono fra le fazioni che si agitano in Cesena, e non ri fiutano la domanda di quelli che volevano dare la città alla Signoria. In Rimini sostengono Pandolfo Malatesta per la uccisione degli zii non an cora sicuro. ' In Faenza mandano un loro provve ditore a difendere Astorre contro il cugino Ottaviano Manfredi, al quale i Fiorentini che già lo avevano fatto presentare a Carlo VIII nell'ambascieria che gli mandarono in campo, avevano dato aiuti per ritornare in Faenza. 2 Cosi divisa fra Fiorentini Veneziani e Milanesi, Alessandro VI vide mancare sempre più il resto della potenza che la Chiesa aveva in Romagna. Più volte a lui si era no presentati gli esuli che fuggivano la mala si gnoria dei vicari a domandare giustizia; ma la sua ' amicizia con Milano e con Venezia non avrebbe fatto avere alcun effetto alle sue proteste, se la venuta di Luigi XII non lo avesse liberato dalla soggezione in cui da quelle amicizie era tenuto. Quest'impresa di Romagna, che tornava tanto sgradita ai Veneziani ed ai Fiorentini, appena se ne ebbe notizia, impauri talmente quei vicari che si credettero perduti prima ancora di essere as

 

1 V. la bella memoria su Pandolfo Malatesta di Antonio Cappelli inserita nelle Mem. della Dep. di storia patria. Modena, 1863, voì. 1.°

 

? I Fiorentini favorivano Ottaviano per odio dei Medici che avevano sostenuto Astorre. — 67 — saliti. Giovanni Sforza * stando in qualche so spetto" chiese aiuto ai vicini ; l e si recò a Ve nezia per implorare soccorso dalla Signoria, e profferirle Pesaro; ma la Signoria fu costretta a dichiarare di non potere accettare l'offerta, di cendo che doveva farla "quando l'era in libertà". Per non offendere il re, al piacere del quale ave vano detto di conformarsi, i Veneziani volentieri facevano il rifiuto, per sostenere con più ragione che Rimini non fosse tolta a Pandolfo Malatestae Faenza ad Astorre Manfredi, come il papa faceva continuamente istanza. Dal canto loro i Fioren tini per salvare Forlì, avevano cercato di propor re una lega fra Bologna Ferrara Forlì Piom bino e Siena, la quale doveva essere fatta per la comune sicurezza di questi minori stati d'Italia: ma la lega fallì, né a Caterina Sforza giovò la domanda che fecero, perché fosse nominata loro aderente nei capitoli dell'accordo col re.2 L'im presa fu adunque decisa, ma non interamente se condo la intenzione del pontefice. Luigi XII per debito di alleanza non poteva impedire ad Ales sandro di ricuperare le terre della Chiesa in Romagna ; ma più prudente fu di quanto non cre desse il Machiavelli, perché egli, anche per non scontentare i Veneziani e per tenersi più obbli gato il papa, preferì che la guerra fosse prima ' La lett. 21 ottobre 1499 é riport. nelle Mem. star, di S. Marino di M. Delfico. Napoli 1865. - A Caterina che domanda di essere nominata per aderente e collegata dei Fiorentini, i Dieci con lett. 16 ottobre 1499 rispon dono, assicurandola che così é stato scritto agli oratori a Milano. — 68 — mossa contro gli Sforzeschi suoi nemici,, riser vando ad altro tempo gli altri vicari. Per acquietare il papa, siccome anche Astor Manfredi era citato dalla Camera per il censo non pagato, i Veneziani fecero mandare a Roma un suo procuratore con denari per pagarlo, e "per ogni evento" fecero cavalcare in Romagna il provveditore Cristoforo Moro che era nel Ve ronese con 1700 cavalli di Bartolomeo d'Alviano da mettere a guardia delle città e dei castelli di loro dominio. Più di tutti aveva ragione di te mere il Malatesta, che in Rimini qualche grido aveva udito contro di lui, e aveva visto i suoi fuorusciti far massa a Cesena per tentare di cac ciarlo di stato, e prestare così buona occasione al duca di prendere la città ad onta della veneta protezione. Furono provveditori a Faenza il Moro, ed a Rimiui Francesco Capello. I Fiorentini ab bandonando i Riario alla propria fortuna, ordi narono di non dare aiuto né a loro né al duca: il 19 novembre scrissero ai commissari di Castrocaro e di Modigliana, "che non si muovi alcuna cosa che sia in favore o in disfavore di madonna o delle genti sue nemiche, usando in questa som ma diligentia." l Per rendere più facile l' impresa, e anche per contenere tante gelosie, Alessandro non fece con durre la guerra in nome suo, ma in nome del re. al quale nessuno poteva contrastare ; per ciò Cesare fu costituito regio luogotenente. Luigi adunque a Giovanni Bentivogli che era stato sol i Istruz. 19 novembre 1499, al com. Berlo da Filicaja. i — 69 — lecito di comprarne la protezione, il 5 novembre scrisse un'ordinanza, nella quale annunziava che avendogli il papa manifestato il desiderio di ri prendere le città di Romagna che appartenevano alla Chiesa e particolarmente Imola e Forlì, e richieste perciò le sue forze, egli aveva costituito il duca suo luogotenente ; e raccomandava che all'esercito che egli conduceva fosse dato passo vettovaglie e alloggio, come richiedevano i ca pitoli della convenzione negli ultimi del mese prima conchiusa. ' Il duca aveva avuto per l' im presa 300 lance francesi con Ivo d'Allegra e 4.000 guasconi e svizzeri col bali di Digione, e altri soldati per lui erano fatti in Cesena da Achille Tiberti e Ercole Bentivogli : per condurre tanta gente, da alcuni si dice che il papa mandò al duca 20,000 ducati, da altri che n' ebbe in prestito 45.000 dalla Comunità di Milano, il card. della Rovere garante. Il di 9 pertanto, presa licenza dal re, il duca parti da Milano facendo la strada di Piacenza co' cavalli, mentre i fanti dimandato il passo sul territorio Cremonese e Ferrarese, discesero con le artiglierie per Po ad Argenta. Accompagnato forse fino a Parma dal mar chese di Mantova. col quale era partito da Mi lano, 2 il duca alloggiò in Reggio nel palazzo di Alberto Zobolo e in Modena dove giunse il 15

 

1 È nei documenti al n. 9. 2 II marchese non seguì il duca in Romagna come fa credere la Cronaca del Sanuto. Dal Diario Ferrarese si ricava che eCaterina Sforza alle ragioni del pontefice, per le quali i suoi figliuoli erano dichiarati decaduti dal vicariato, perché trascorso il termine di tre anni non avevano pagato i censi, aveva risposto che il conte suo marito era ancor creditore della Chiesa per le sue provvisioni di capitati genera

 

1 V. Diario di G. Nadi e Cronica di Fileno dalle Tuate, mmss. nella Biblioteca dell' Università di Bologna. Nel libro Mandatorum n. 22 é inserita la commissione data dai Sedici il 15 nov. a Jeronimo Zani di condurre i guastatori ohe si avevano a mandare in Romagna in sussidio del papa, as sieme al commissario da deputarsi dal duca. Arch. di Bologna. le; 'e quando le proteste non furono ammesse, non dubitò di rimetter la sua causa alla prova delle armi. In una medaglia Ottaviano Riario suo figliuolo, giovane di venti anni, é rappresentato a cavallo in atto guerriero : ma Caterina non lo credette degno di difendere lo stato paterno, e di ritentare la fortuna degli Sforza che a lei sola, dopo la disfatta di Lodovico, pareva com messa. In maggio la fiera donna da Ottaviano e dagli altri figliuoli . per istrumento, si era fatto rilasciare piena facoltà di amministrare lo stato: a e ai primi sospetti, fuorché il maggiore, li aveva mandati in salvo a Firenze con le robe più preziose, per essere cosi più libera e spedita. Alla difesa, non avendo un esercito da opporre a quello del duca, provvide munendo le rocche, nelle quali mise suoi fidati, determinata ella pure a chiudersi nella cittadella di Forli e durarvi un lungo assedio, anche se i popoli le mancavano di fede. Il 4 novembre mandò Ottaviano ad Imola per esortare quel Consiglio dei Trenta ad unirsi a lei nel difendere la città; ma nel Consiglio non vi era alcuno di fazione guelfa o ghibellina che non avesse un parente od un amico offeso dai Riari nelle robe e nelle persone. Eppure il cro nista Andrea Bernardi scrive: "Questa gentil donna si poteva dare il vanto che in Italia non

 

1 Gli atti del processo della Camera contro i Riario sono per duti. Dice di averlo letto A. Padovani nell'Istoria di Forli ms. in quella Biblioteca comunale. 2 Vita di Caterina Sforza, di A. Burriei. Bologna 1795. fosse la più famosa di lei, nec etiam che sempre avesse la giustizia in mano, perché continuamente faceva stare il ricco appresso il povero. > Né solo i cittadini privati erano stati offesi. I Riario la sciarono in Imola una memoria tanto odiata che. anche molti anni dopo, gli Anziani accennando alle gravezze imposte al Comune dissero di ar rossire di vergogna al solo rammentarle e bene dissero la memoria del duca che tanquam minister divinae justitiae nella sua cesarea liberalità le cassò ed abolì. l  Malgrado questo, sperando di tenere la città in soggezione per la ben guernita rocca, la contessa aveva fatto murare tutte le porte, eccetto una. e aveva ordinato tutte le provvigioni necessario ad un lungo assedio. Ma non era il duca ancor giunto davanti ad Imola, che gli si presentarono Tommaso Broccardi ed altri gentiluomini, i quali a nome della parte ghibellina gli fecero offerta della città. Fra le altre sollecitazioni ebbe pure Cesare una lettera di G. A. Flaminio, il quale offrendo Imola al duca che da tempo desidera ed ama. gli dice che potendo gli Imolesi gli apriranno le porte, e lo prega, se mai dovesse usare le armi, di avere misericordia della città e di salvarla dalle rapine; poiché venuta una volta in potere di lui, lo accerta che non avrà mai una città più fedele. È dubbio se allora il Flaminio fosse in patria, oppure se mandasse la lettera da Conegliano ove tenne scuola per più anni prima e poi : ma ad ogni modo é notevole che egli vecchio beneficato di casa Riaria, e condiscepolo del cardinale, fosse uno dei primi a salutare nel duca un nuovo signore e ad accusare la violenza e il giogo, dai quali gli Imolesi erano oppressi.

   È riportata uei Documenti al n. 10.

 Il duca pertanto mandò avanti Achille Tiberti cesenate con una squadra di cavalli, il quale presentatosi il 24 novembre sotto le mura, chiese che il popolo aprisse le porte al suo liberatore. In Imola da pochi giorni, era tornato Giovanni Sassatelli, già soldato di Paolo Vitelli, il quale con altri gentiluomini si era messo a fare armati, a difesa non solo della città, ma anche della parte guelfa cui apparteneva; egli andò a parlare al Tiberti, ed udita la sua domanda gli rispose che volentieri egli dava la città al duca per essere questa la volontà di tutto il popolo.

   " Como volontà del dito populo " Cronica ms. di A. Bernardi nella Biblioteca comunale di Forlì. - II Sassatelli a mezzo novembre era ancora in Toscana; un'istruzione del 12 della Balin ordina di sorvegliare " Giovanni da Imola uomo d'arme di Pagolo ".

Fatta quindi la capitolazione, tre giorni dopo, il 27. Cesare fece il solenne ingresso malgrado che la rocca tirasse contro la città e con fuochi ne abbruciasse molte case. Vi era castellano Dionigi di Naldo, uno dei più riputati capitani dei fanti del tempo, di quei fanti di Val di Amone (Val di Lamone?) che sopra tutti i romagnuoli godevano nome di buoni soldati, 500 dei quali in luglio egli aveva condotto in Lombardia in tardo soccorso a Loclovico.
 Era appena Cesare entrato in lmola, che gli giunsero lettere da Roma che annunziavano essere il papa scampato ad un estremo pericolo, ad una violenta morte. Si diceva adunque che Caterina Sforza per salvare sé ed il suo stato aveva tentato di fare avvelenare il pontefice, alla morte del quale, mancando al duca ogni autorità, la impresa di Roinagna sarebbe stata interrotta, e che perciò aveva inviato due oratori con incarico di domandare accordi per cedere il vicariato e loro aveva dato una lettera di credenza attossicata da consegnare nelle mani del papa, il quale toccandola sarebbe restato morto. A parte del fatto era un Tommasino Cospi forlivese, cameriere del pontefice secondo gli uni, musico papale secondo il Burcardo; il quale aggiunge che. scoperta la trama, questi non solo confessò il delitto da commettere, ma disse anche che vi era stato indotto dalla speranza che, morto il pontefice, si sarebbero liberate dall'assedio lmola e Forlì.

   Questo mancato avvelenamento é narrato con qualche diversità nelle cronache romagnuole, come nel diario del Burcardo e nelle lettere di Pier Delfino. Il papa ne diede notizia ai Fiorentini con un breve del 21 novembre 1499.

 Ma la notizia di questo mal riuscito attentato non avvili i difensori di Caterina. Con Cesare era partito da Milano Vitellozzo Vitelli, il quale vi era stato a domandare al re vendetta della morte del fratello decapitato dai Fiorentini, e si era messo ai servigi del duca, offerendogli il suo braccio di capitano audace ed il suo consiglio di capo di parte, non dominato che da un solo proposito, di sollevare contro gli offensori del suo sangue quanti nemici avesse potuto. Egli fece pratiche col Naldi per fargli cedere la rocca; ma non essendo quelle riuscite, il 28 novembre si incominciò l'assedio. Da prima le artiglierie furono piantate dalla banda di fuori, ma senza grande profitto per essere in quella parte il muro grossissimo e ben interrato, ma poste il 4 dicembre dalla banda di dentro in pochi giorni abbatterono un' ala del muro. ll dì 8 il castellano domandò di far parlamento, e perduto un rivellino convenne col duca che quando dopo tre dì non fosse stato soccorso, egli gli avrebbe dato la rocca. Lettere da Imola dell'8 riassunte nella cronaca del Sanuto fanno sospettare della fede di Dionigi di Naldo, che per " una finzione ", si dice, avrebbe lasciato prendere il rivellino; e nel Diario del Nadi si aggiunge che fece una difesa " da beffe " per essere egli d'accordo col duca. Ma la gelosia dei Veneziani e dei Bolognesi spiega questi mali giudizi. In altre cronache, come in quella del Bernardi, si attribuisce la resa a ben altra causa, al " tradimento " cioé di un maestro di legname, il quale una notte calatosi dalla fortezza indicò di piantare le artiglierie dal lato della città dove il muro era più debole, come fu fatto. Del resto é noto che Dionigi per sicurtà della sua fede aveva dovuto lasciare presso Caterina la propria moglie con due figli, e che con lui nella fortezza erano alcuni Sforzeschi accorsi a difendere la loro Casa, fra i quali il contino di Melzo. Egli appunto in quest'assedio d'Imola riportò una ferita al capo, la quale poi gli impedì di prender parte alla guerra di Lombardia.

   Alcune notizie degli assedi d' Imola e di Forlì si leggononella Cronaca di Antonio Grumello pavese. Raccolta di croniufi lombardi inediti. Milano 1856-1857.

Passati i tre giorni, senza che venisse il soccorso, la rocca si arrese, salve le robe e le persone.
 Il 13 dicembre giunto in Imola il card. Giovanni Borgia che ultimamente il papa aveva fatto legato di Bologna e di tutta Romagna in luogo di Ascanio Sforza, il Consiglio dei Trenta deputò quattro cittadini a prestare il giuramento di fedeltà nelle mani di lui; furono Pietro conte di Cantagallo, Pensiero Sassatelli, Giacomo dalle Selle ed Ettore di Franceschino Ettorri. La cerimonia fu compiuta nella chiesa di san Domenico.

   L'atto dell'elezione é nell'arch. d'Imola. In quello di Bologna si conserva una lettera del cardinale 14 ottobre 1499 da Milano, che partecipa al Reggimento la sua nomina a legato, e l'atto della presentazione di detta bolla fatta dal cardinale il 29 novembre.

 Avute anche le altre rocche del contado che tutte subito si arresero, eccetto quella di Doccia, il 15 dicembre il duca mosse l' esercito verso Forlì. Nel passare che fece per Faenza "fu benissimo veduto ed accarezzato" dal provveditore veneto Cristoforo Moro e dal signor Astorre, il quale comè pochi di dopo ebbe a scrivere, assicurato dalla protezione della Signoria, credeva di non avere da impaurirsi e da dolersi di quell' impresa del duca, e nella salvezza propria, confortandosi della rovina altrui, dimenticava che la contessa a lui fanciullo aveva sposata la figliuola Bianca, per rimproverarle la servitù in cui aveva tenuto i sudditi.

   "Queste povere città Forlì ed Imola sono rimaste sbattute e percosse; tuttavia quando repensano essere usciti di tanta servitù remangono consolati" Lett, di Astor Manfredi, 31 gennaio 1500.

 Perduta Imola, Caterina dalla cittadella, ove era riparata, mandò il fratello Alessandro Sforza a chiedere agli Anziani 'di Forlì quali erano le intenzioni dei cittadini, decisa ella a difendersi anche loro malgrado; fu adunato il Consiglio dei Quaranta, ma non fu presa alcuna deliberazione, cosi diversi furono i pareri. Allora disperando, il 14, mandato anche il primogenito Ottaviano a Firenze, tentò di assicurarsi dei principali cittadini : Luffo Numai, Antonio Teodoli, Bartolomeo Moratini, e fece cercarli nelle loro case. Luffo fuggito, passò la notte nella piazza in mezzo ai cittadini armati che vi si erano ridotti; il dimani, andati gli altri a trovarlo, di comune concordia deliberarono di tor lo stato ai Riarì e per le vie gridarono popolo, popolo! Le porte della città custodite dagli sforzeschi furono prese. E nel Consiglio generale si nominarono venti anziani, cinque per quartiere, i quali decisero di dare la città al duca.

   Di questa deliberazione non si ha cenno che dalle cronache. Nel libro dei mandati del Comune di Forlì detto il libro di Madonna, che va dal 1491 al 1499, l'ultima adunanza che vi è notata é del 14 novembre 1499.

Saputa la cosa, Caterina, ritenuti prigioni Nicolo Tornielli e Lodovico Ercolani che il Consiglio aveva a lei spedito per annunziargliela, fece sparare le artiglierie contro il palazzo del Comune guastandone la torre.
 La capitolazione fu fatta da Achille Tiberti che il duca aveva tosto inviato in Forlì, e vi furono compresi anche i contadini che tumultuando erano accorsi in città per essere sgravati da tasse che Caterina aveva loro imposto. Il 17 dicembre mentre stavano per cavalcare a Imola il vescovo Tomaso dall'Aste e Giovanni dalle Selle, a far segnare al duca i capitoli, giunse un corriere ad annunziare che il duca sarebbe stato la sera stessa a Forlì. Molti gentiluomini gli andarono incontro e lo visitarono in una villa di Lodovico Ercolani dove si era fermato. Benché pregato dagli Anziani non volle entrare in città prima di aver firmato i capitoli, e il 19 sotto una dirotta pioggia, preceduto dall'esercito in ordinanza, smontò in casa di Luffo Numai. I soldati nella piazza atterrarono la crocetta della vittoria del 1282, antica offesa al nome francese che pretesero di così vendicare : e tanti guai fecero patire ai forlivesi che il cronista Bernardi dice che "furono simili a le pene de l'inferno."

   II Sanuto si compiace di questi danni, perché i forlivesi non dovevano "rendersi come puttane".

Ad impedire le rappresaglie, fatti gravi bandi contro i soldati, fu ordinato ai cittadini di deporre le armi.
 Le feste del Natale, a celebrare le quali venne da Imola il card. Borgia, non ritardarono i lavori per l'assedio della fortezza. Finite le cave delle artiglierie, il 25 Caterina fece inalberare su un torrione una insegna con un leone per far credere di essere protetta dai Veneziani; ma un condottiere veneto che era nel campo ebbe a dire che i suoi signori non l'avevano in protezione. Prima di dar battaglia, il duca ammirando l' ardire disperato della gran donna, con rispetto di buon cavaliere volle proporle patti di resa: per ciò il 26 per due volte andò a cavallo fino sui fossi della rocca e per due volte chiamatala la esortò ad arrendersi.

   "L' altro giorno che fu a di 26 il nostro Signor Duca due volte andò a cavallo perfino in suso li fossi della rocca, e quivi ebbe a parlare con Madonna le molte parole". Cronaca di A. Bernardi.

Ma Caterina ricusò. Anzi se dovesse prestarsi fede a quanto si aggiunge da altri, madonna avrebbe cercato di contraccambiar molto male tanta gentilezza. Uscita fuori dalla rocca ad abboccarsi con lui, si racconta che nel ritorno il duca volle servirla fino al ponte levatoio, e che Caterina, dopo i complimenti, montatavi sopra, tentò di farsi seguire da lui per farlo suo prigioniero, avendo dato prima ordine al castellano Giovanni da Casale di levare il ponte subito che il duca vi avesse posto i piedi. Ma la trama fallì per la troppa fretta, essendosi il ponte levato, mentre il duca stava col piede alzato per porvelo sopra. Caterina, "querelandosi il duca del tradimento, si scusò con dare la colpa alla sollecitudine del castellano ; ma s'accorse del tiro non per altro teso, che per prendere il duca ed ucciderlo."

   Cron. ms. cit. dal Vecchiazzani nell'Historia di Forlimpopoli, Rimini 1647.

 Allora per tutto l'esercito e per tutto Forlì fu gridata una grossissima taglia su la vita di Caterina, e il 28 dicembre cominciarono le artiglierie a tirare contro la fortezza; si componeva di una rocca e di una cittadella separate da un fosso, ritenuta inespugnabile per le molte opere di difesa onde era stata guernita. Battute le corone delle mura per togliere agli assediati l'uso delle artiglierie, il dì 10 gennaio si ricominciò a battere la cortina della rocca per fare la breccia. Il 12 fu dato l'assalto che durò fino a sera, vi furono circa 400 morti: perduta la rocca, nella confusione vinti e vincitori entrarono nella cittadella ove madonna era rifugiata.

   Il Machiavelli nel libro dell'Arte della guerra dice che la fortezza fu perduta per avere troppo ridotti "non signori dei ponti suoi."

 Un borgognone, soldato del bali di Digione, la trovò in una sala in mezzo alle sue ancelle ed ai pochi fedeli, e la presentò al duca che assieme agli altri capitani due ore dopo l' assalto aveva seguito i suoi. Il duca gli donò una borsa con duecento ducati. Le cronache venete differiscono nei particolari di questa presa: dal Sanuto si raconta che il "capitano francese." presentando Caterina a Cesare, gli domandò una taglia di diecimila ducati, ma che questi disse di dargliene solo duemila; onde "turbatosi molto il capitano, disse al duca: Adunque tu vuoi venir manco della tua parola? e cavata fuori la spada in presenza di esso duca voleva tagliare la testa alla povera Madama". E invece dal Malipiero si dice: "Il capitano ha snuda un pugnal per ammazzarlo (il duca) ma l' è sta retegnudo, e don Cesare l' ha liberà". Di questa contesa non si trova menzione nelle cronache romagnuole. La stessa sera Caterina uscì a cavallo dalla rocca, fra il duca e mons. d'Allegra, e fu condotta nel palazzo dei Numai dove Cesare aveva la sua corte, accompagnata da alcune ancelle e da due vecchi servitori. Fra gli altri prigionieri, si presero il conte Alessandro Sforza, Paolo Riario, tre fratelli di casa Landriana ed un Scipione figliuolo naturale del conte Girolamo.
 Quattro di dopo, Cesare ebbe nuove da Urbino, che vi era morto il card. Borgia. Aspettando che il duca avesse ottenuta la fortezza di Forlì, il giovane cardinale — cui il papa aveva commesso di seguire il cugino in Romagna per fargli avere anche l'autorità della Chiesa, — fino dal 28 dicembre da Forlì era andato in Cesena, si diceva, per persuadere a quei cittadini di chiamare il duca loro signore e per tenere in isperanza i fuorusciti riminesi che continuamente vi si radunavano per andare contro Pandolfo. Appunto in questi giorni il papa aveva scritto un breve alla Signoria di Venezia per esortarla a volere finalmente togliere la protezione al Malatesta . cessata la quale, il re facilmente lo avrebbe aiutato a ricuperare anche Rimini. Ma la Signoria ne prevenne la domanda. Onde far mancare al duca l'aiuto dei francesi senza i quali non avrebbe potuto continuare la guerra, i Veneziani ottennero che il re "senza rispetto al papa" mandasse ordini al Trivulzio che le sue genti, spedita la impresa di Forlì e di Pesaro, fossero ritornate ai loro alloggiamenti in Lombardia. Dopo questo, il card. Borgia, essendo per le feste del giubileo chiamato a Roma, l' 8 gennaio partiva da Cesena; ma colto per via dalla febbre, giunto ad Urbino, vi moriva in due giorni di malattia il 14 a tre ore di notte.
 Pier Francesco Justolo nel secondo panegirico dice che la morte del cugino attristò le glorie di Cesare: il quale con lettere del 16 gennaio scritte da Forlì ne diede notizia ai Signori amici, come di lutto della propria famiglia. Ma anche questa morte doveva essergli attribuita. Il Burcardo riporta nel diario le nuove che per più corrieri furono spedite al papa dal vescovo di Tivoli, che accompagnava il legato, fra le quali questa che la febbre si era fatta violentissima, perché il malato udita la resa di Forlì era rimontato a cavallo per andare a congratularsene col duca cum celeri accessu ; ma già aveva notato che quella febbre era medicis suspecta. Anche il Sanuto riassume nella cronaca le lettere ricevute dai suoi Signori da Ravenna, le quali non parlano che di febbre ; ma aggiunge : "Si giudica che sia attosicato" e non bastando : "Di poi s' intese certamente, come il duca Valentino il fece attossicare, perché conosceva che il pontefice gli portava tenero e cordiale amore e entrò in gelosia che questo cardinale si volesse fare signore di qualche luogo." Più giudizioso di tutti, il Giovio ammette l'avvelenamento, e quando é per dirne le ragioni non sa trovare che questa, che Cesare lo "haveva avvelenato perciocch' egli favoriva il duca di Gandia!"

   Nella Storia di Milano di G. A. Prato si dice che il cardi nale ed i suoi "furono nel contado de Urbino tagliati tutti a pezzi da certi Romani"!

 Questi sospetti sono cosi incerti, che non si comprenderebbe come si potessero divulgare senza la mala fama dei Borgia, che ha sempre fatto credere a quanto di loro e contro loro é stato detto e scritto. Il duca poteva avere interesse a far morire il legato, o perché la grandezza di lui offendeva la sua ambizione, o perché gli dispiaceva il matrimonio promesso in Milano fra il prefettino di Sinigallia ed Angela Borgia sorella del cardinale; ma nemmeno questi due sospetti, sebben più probabili, reggono al confronto del fatto. Non poteva offenderlo la grandezza, perché egli in luglio consentì che tutti i benefizi del defunto fossero dati al fratel suo Ludovico, fatto cardinale arcivescovo di Valenza governatore di Spoleto ecc. Né per occulti propositi poteva dispiacergli il matrimonio, perché egli in agosto e in settembre lasciò che se ne stipulasse l' atto solennemente, davanti agli ambasciatori di Francia. Del resto il cardinale, quando mori, mancava da diecisette giorni pai campo ducale , come si ricava dalla cronaca forlivese del Bernardi e dal Diario Cesenate.
 Avuta la rocca, (e il 19 si rese anche quella di Forlimpopoli ad assediare la quale era andato Ivo d'Allegra), il duca attese ad ordinare lo stato. Da Imola e da Forlì erano andati ambasciatori a Roma a pregare il pontefice di riconoscere nel duca il nuovo signore, al quale i popoli si erano liberamente dati; e intanto, non ancora giunta la conferma, negli atti pubblici egli già si dichiarava vicario d'Imola e di Forlì per la Chiesa.

   Il nuovo cancelliere di Forlì ser Stasio de' Prugnoli notaio sotto la data del 22 gennaio 1500 riferisce i nomi degli Anziani eletti per l'anno "ab ill.mo et ex.mo D.no D.no Cesare Borgia de Francia Duci Valentinensi Comitatum Diensis et Isoduni D.no, ac Forlivii Imolaeque pro S. R. E. vicario". Archivio comunale di Forlì.

Costituì suo governatore don Remigio di Lorqua; e fece in Imola podestà un messer Simone degli Allotti forlivese e in Forlì un messer Benedetto che subito incominciò a tener ragione ; con lui furono nominati m. Guglielmo Lambertelli auditore, m. Bernardino Colombrini oratore, e m. Giovanni Morattini cavaliere della guardia. E perché la rocca cadeva in rovina per i guasti che vi facevano i soldati che vi andavano a rubare i ferramenti, ne fece chiudere la breccia e vi mise castellano don Consalvo di Mirafonte.
 Era disposta la partenza alla volta di Pesaro, quando il 21 a tre ore di notte il bali di Digione con gli svizzeri ammutinati si recò al palazzo dei Numai, dove era la corte ducale, e vi tolse Caterina e seco la condusse nella casa in cui egli alloggiava. Il bali diceva di aver ciò fatto, perché riputava "sua vergogna" consentire che la contessa restasse prigione, essendo uso delle leggi di Francia di liberare le donne prese in guerra ; e il duca voleva ritenerla, perché il papa gliel'aveva richiesta per il processo ordinato contro lei e coloro che per suo ordine, come si credeva, avevano da consegnargli la credenziale. Gli svizzeri poi si erano ammutinati, perché dicevano di non credersi obbligati a far l'impresa di Pesaro , se non avevano altre paghe, allegando di aver servito il duca in quanto si erano obbligati per la promessa del re.
 Il dimani, 22 . Forlì fu nel più grande rumore; ma ad impedire i disordini in buon punto giunse da Forlimpopoli mons. d'Allegra che il duca aveva fatto chiamare per dolersi con lui dell'offesa ricevuta. Fu deciso un consiglio di tutti i capitani dell'esercito, da tenersi dopo mezzodì nella piazza ; vi si recarono con le milizie in ordinanza, italiani e spagnuoli contro svizzeri, minacciosi. Il duca fu udito dir loro collericamente ad alta voce che avrebbe fatto dare la campana all'armi e tagliarli a pezzi dal popolo, che con le loro superchierie tanto avevano offeso. Finalmente dopo molti discorsi fu convenuto, che il bali avrebbe ridata madonna al duca, con patto che da lui sarebbe ritenuta ad istanza del re di Francia, e che a questa condizione egli l'avrebbe consegnata al papa;

   "Se acordono inseme in questi modi in forma che el signore duca dovesse tenere dicta madonna a petizione ed instantia de la m.a del re de Francia" Cron. di A. Bernardi.

e che agli svizzeri sarebbe stata data un'altra paga. Il di dopo, 23, Cesare nella chiesa di san Mercuriale dai nuovi Anziani ricevette il giuramento di fedeltà, e con l'esercito si levò da Forlì. Il Bernardi che trovavasi presente alla partenza, narra che Caterina andava in mezza al duca e a mons. d'Allegra, montata sopra una ghinea learda, vestita con una turca di raso nero ed un velo di bambagio segugiato.
 Lasciata la contessa in custodia ad Ivo, il duca con 600 cavalli giungeva la sera in Cesena e ripartiva tosto verso Savignano e Sant'Arcangelo, volendo raggiungere i suoi che già erano pervenuti fino alla Cattolica. Sebbene avesse ricevuto qualche aiuto di fanti da Guidobaldo d'Urbino, Giovanni Sforza era così poco sicuro di mantenersi in istato che, mandati altrove i suoi ori. si teneva pronto a fuggire , appena i primi soldati ducali si fossero mostrati sotto Pesaro. Il 26, il duca era giunto a Montefiore, quando ricevette più corrieri dai governatori di Milano i quali gli commettevano di rimandare tosto i francesi in Lombardia , a' cui confini era apparso Lodovico che in pochi di aveva da riacquistare lo stato, in pochi di perduto. Un capitano francese tolta Caterina dalla rocca di Cesena, dove mons. d'Allegra l'aveva messa, la condusse al duca; e il 27 gennaio tutto l'esercito in gran furia ripassò da Cesena, ritornando a grandi giornate in Lombardia.
 Questo richiamo dei francesi non poteva avvenire in peggiore momento per il duca, perché allora appunto , scacciato lo Sforza da Pesaro, sperava di compiere l'impresa di Romagna, riavendo anche Rimini e Faenza. Il papa persistendo più che mai nel suo proposito, aveva fatto nuove istanze ai Veneziani, perché togliessero la protezione a Pandolfo Malatesta e ad Astorre Manfredi, dal quale egli negava di ricevere il censo del vicariato per il troppo tempo trascorso;

   L'oratore Gabriele Calderoni si presentò alla Camera per pagare il censo, il 3 febbraio 1500. L'atto é riferito nell'Istoria di Faenza del Tonduzzi.

e dal re aveva ottenuto promessa d'aiuto, benché i Veneziani a quelle nuove richieste fossero per deliberare (come fecero il 4 febbraio) di fargli sa pere che volgere le armi contro Faenza e Rimini era come volgerle contro la repubblica,

   Senatus Secreta, 4 febbraio 1500.

Forse il duca con i soldati che gli restavano, un migliaio di fanti e un 500 cavalli, avrebbe potuto tentare di andar contro lo Sforza; ma mancando di artiglierie, non si volle avventurare ad un assedio che questi era per sostenere, fatto ardito dal ritorno di Lodovico. Per tanto, lasciati in Romagna i 500 cavalli di Ercole Bentivogli. ed i 300 fanti di Consalvo di Mirafonte, prese la via di Urbino per ritornare a Roma : condusse seco sei bandiere di fanti, tedeschi guasconi e spagnuoli, ed i cavalli di Vitellozzo.
 Alessandro VI aspettava con grande desiderio il figliuol suo che dopo la lunga lontananza gli ritornava più caro ed amato. Al principio della guerra di Lombardia, la lega del pontefice con Luigi XII aveva fatto bandire da Roma Sancia e fuggire don Alfonso che, come altra volta Sforzino , in quella corte amica di Francia si era trovato a mal partito : ma dopo poche settimane le persuasioni del papa e l'amore della moglie incinta lo avevano fatto ritornare presso Lucrezia in quel mese d' agosto fatta governatrice di Spoleto e di Foligno, fiducioso com' era Alessandro della singolare prudenza di lei. Per la nascita del piccolo Rodrigo, in novembre Cesare aveva mandato da Milano un suo segretario a congratularsi con gli sposi, e il papa mantenendo la promessa dell'atto nuziale di comprare perla figliuola un altro feudo nel Regno o nella Campagna di Roma, in aggiunta al fondo dotale di Corata, le aveva ai primi di febbraio fatto ven dere dalla Camera il feudo di Sermoneta dei Gaetani, contro i quali era da profferirsi sentenza di decadimento. Per parte della madre, Giulia Farnese era nipote di Nicola e di Giacomo Gaetani ; ma la bella donna in quest' anno non era più la favorita del pontefice da potere salvar i parenti: l'orator veneziano andando un giorno a visitare il papa, attorno a lui aveva trovato con Lucrezia e Sancia una damigella della figliuola, che si diceva essere la sua "favorita".
 Cesare giunse in Roma, il 26 febbraio.

   Ai primi di febbraio Lucrezia avea avvertito il suo luogotenente di Spoleto del prossimo passaggio del duca. V. i Documenti dell'Archivio comunale di Spoleto pub. da Achille Sansi, Foligno 1861.

Fu la sua entrata un trionfo. Justolo nel panegirico dice che l'eroe Borgia assoggettati i popoli di Lombardia e di Romagna fu ricevuto con meritato onore. Gli andarono incontro i card. Farnese e Borgia, fuori porta del popolo, e lo ricevettero detectis capitibus : dietro loro erano gli ambasciatori, e le famiglie dei cardinali. Avanti al corteggio, dopo i carri, andavano due araldi, uno del re di Francia ed uno del duca; poi venivano un migliaio di fanti, cento staffieri co' ronconi sulle spalle, i cinquanta gentiluomini; in fine i cavalli di Vitellozzo. La entrata fu lentissima per la gran folla che era nelle vie. Il duca cavalcava in mezzo ai cardinali, seguito dagli oratori: indossava una veste di velluto nero, che gli giungeva alle ginocchia, al collo non aveva che una semplice collana d'oro, forse l'ordine 'del re di cui era stato insignito ; biondo, bello "era ammirato dalle madri ilari che erano sulle porte e dalle nubili fanciulle salite alle alte finestre". All'arrivare al ponte di castel sant'Angelo tuonarono le artiglierie, e la cavalcata percorse la nuova strada che dal ponte conduce al Vaticano fatta aprire l' anno prima da Alessandro. In mezzo ai cardinali, seduto nella gran sala del trono, il papa aspettava il figliuolo : al solo vederlo , l'orator veneto dice che "lacrimavit et rixit a uno tracto". Cesare andò fino ai gradini del soglio, e fatta la riverenza, dal Burcardo fu udito in lingua spagnuola ringraziare il padre che a lui assente aveva fatto tanti favori ; gli rispose Alessandro nella stessa lingua, e quando vide il figlio inchinarsi per baciargli il piede, la carnalità lo vinse, e sollevandolo lo abbracciò teneramente.

   Il Justolo così descrive l'atto nel 2° panegirico:


Non te sustinuit sacris dare basia plantis,
Sed solio exurgens alto, stratisque superbia
Agmine cum patrum, cupidis amplectitur ulnis.

 Fino dai primi di febbraio erano in Roma due oratori d'Imolae due di Forlì, ai quali intervenuti ad una solennità del giubileo nella chiesa di san Pietro, il papa aveva fatto donare alcune candele benedette per loro e per il duca ; e poco dopo ne giunsero da Forlì altri quattro nuovamente mandati a pregare il papa di segnare i capitoli, che la città aveva fatto nel darsi al duca. Alessandro VI che aveva detto nel fare l'impresa di Romagna di' voler ricuperare quelle città per la Chiesa, quando con nuovo esempio le vide offrirsi liberamente al figliuolo, non poteva avere un miglior pretesto per lasciarle a luì ; né i cardinali potevano negargli il consenso, vinti dalle promesse lor fatte dal papa e da Cesare. Restituendo loro le visite, il duca si mostrò di una straordinaria gentilezza: il Burcardo, cosi scrupoloso osservatore del cerimoniale, notò che egli quando fu a visitare il card. Piccolomini, nell'essere accompagnato fuori dalla camera, volle sempre tenere la sinistra, sebbene il cardinale con grande istanza gli offrisse ia destra; usò pure questa gentilezza anche agli altri. Il 9 marzo adunque fu firmata la bolla dal papa e da diecisette cardinali, che investiva Cesare del vicariato d' Imola e di Forlì, del quale i Riari si dicevano privati con sentenza del Camerlengo per non aver pagato da molti anni i censi, mille fiorini d' oro per Forlì, duecento per Imola e due tazze d' argento per San Mauro.

   Anche questa bolla manca negli Archivi di Forlì e di Imola. Il Burriel ne ha pubblicato un passo con la data del 9 marzo 1499; ma per certo essa é del 1500.

E l'll marzo dal duca era sottoscritto il diploma ilei privilegi conceduti agli imolesi che egli prometteva di governare con giustizia e misericordia e di conservare in pace e difendere da guerra, salve le franchigie comunali e restituite quelle che furono usurpate dal conte Girolamo e da' suoi successori. In questo diploma il duca si firma ancora regius generalis locumtenens.

   Il diploma é rifer. nei Docum. al n. 11. Nell'Archivio d'Imola si conserva un'altra lettera del 12 marzo 1500, per cui il duca dona a quella Comunità due mulini.

II grande si gillo di cui é munito porta le doppie arme della casa, il bove dei Borgia e le fascie dei Lenzol, inquartate con i gigli di Francia: attorno corre la leggenda, Caes. Borgiae de Francia ducis Valentini. Ma non bastava più a Cesare Borgia il titolo di luogotenente del re. Alessandro VI volle dargli quello di gonfaloniere e capitan generale della Chiesa. E il 17 marzo nella basilica di san Pietro riceveva dalle mani del pontefice le insegne del grado, il berretto, il bastone ed il gonfalone, e prestava giuramento; riceveva pure la rosa d'oro come benemerito della Sede apostolica. Della cerimonia si legge una lunga descrizione nel diario del Burcardo, che ebbe in dono la veste di broccato indossata da Cesare nella solennità. La sera in piazza Navona fu fatta una rappresentazione di undici carri, rappresentanti il trionfo dell'eroe romano, le cui glorie aveva da rinnovare il duca che ne portava il nome.
 Il titolo del vicariato fu di conte d' Imola e di Forlì. Con lettere patenti del 10 aprile Cesare costituì suo luogotenente generale Giovanni Olivieri vescovo d'Isernia che andava nuovo governatore in Cesena, e sopra tutti gli altri suoi ufficiali gli diede piena e libera facoltà di esaminare e decidere tutte le cause civili e criminali, miste e sommarie, di punire i delinquenti ed i malfattori e di fare quant' altro é di solito farsi per diritto e per consuetudine. E mandando il papa suo commissario in Romagna Martino Zappata vescovo di Sessa, a lui pure il duca com mise di provvedere a varie cose assieme al suo luogotenente don Remiro ; nella lettera del 13 agl' Imolesi raccomanda loro di assisterlo con il ricordo e l'opera in quelle cose "perché (dice) tutte resultano in beneficio et ornamento nostro et de la patria".

   V. le lettere ducali nei Docum. ai n. 13 e 14.

Egli era già in possesso del vicariato ; ma pure il papa volle che di nuovo si compiesse la cerimonia forse perché il dominio non dovesse mancare di alcuno di quegli atti che hanno apparenza di legalità: perciò commise al vescovo di Sessa di far la consegna al vescovo d'Isernia in nome del duca, di cui fu nominato procuratore, 4i Imola Forlì e Forlimpopoli, e di far prestare a lui il debito giuramento di omaggio e di fedeltà, da quelle Comunità, alle quali il 17 aprile furono mandati i brevi di notificazione.

   Il duca ne aveva avvisato gl'imolesi con lett, del 10 aprile 1500 che é nei Docum. al n. 15.

 Al ritorno degli oratori in Romagna, anche in Cesena nella piazza per due di fu gridato il nome del duca da quelli del popolo che volevano dargli la signoria della città. Polidoro liberti perorò in Consiglio per Cesare ; ma i ghibellini , perché avevano a temere, perdendo la libertà ecclesiastica, di esser soggetti ai guelfi, dei quali i Tiberti erano capi, fecero nominare quattro ambasciatori da man dare al papa per pregarlo di non levare la città dal governo della Chiesa. Avendo i suburbani preso le armi, i tumulti non cessarono, se non quando ai primi di maggio i Tiberti lasciarono Cesena , andando Achille a Roma e ritirandosi Polidoro al suo castello di Monteglutone.

   "Civitas in facilone dispertita" Diar. Caesenate.

Da questo castello, alcuni anni prima, Achille Tiberti era disceso coi suoi partigiani in città e nella chiesa dei Francescani , mentre si celebravano i vespri, con assalto improvviso, aveva ammazzato ventitré dei Martinelli. Il governatore di Cesena, Jeronimo Porcari, aveva fatto giustizia di alcuni degli uccisori ; ma la memoria dell'eccidio era ancor troppo viva negli animi degli offesi ghibellini , perché allora fosse possibile un accordo fra essi ed i guelfi offensori.
 Appena rientrato in Milano. Lodovico Sforza aveva avuto speranza di ritrarre il papa dalla lega e di unirlo con lui al re Federico, contro il quale Luigi XII era per rinnovare l' impresa di Carlo VIII;

   Lettere latine di G. Morone (21 e 26) pub. da D. Promis, nella Miscelanea di storia italiana, Torino 1863.

ma la sua fortuna era troppo incerta, perché Alessandro ed i Veneziani, ai quali pure avean fatto grandi promesse, se ne dovessero fidare, e in una giornata (10 aprile) a Novara riperdeva lo stato e la libertà. Al card. di Roano che era ridisceso in Lombardia, il pontefice richiese subito gli uomini d'arme per continuare la guerra di Romagna, si diceva non solo contro Giovanni Sforza, ma anche contro Giovanni Bentivogli, il quale mancando agli obblighi suoi, nel ritorno del Moro non aveva soccorso il re. L'oratore veneto Paolo Cappello narra che "Roano non volle dicendo di aver ducati mille al giorno di spesa e si accordò col Bentivogli , di che il papa ebbe molto a male": ma la proposta non fu accettata per ben altre ragioni. Sebbene Alessandro proponesse di dare 50,000 ducati, assai più ne poteva avere il francese. Giovanni Bentivogli, per conservare la protezione ebbe a pagare 40,000 ducati di taglia per le spese della guerra, ed i Fiorentini, i quali subito dopo la vittoria avevano mandato Pier Soderini a Milano a domandare l'esercito per Pisa, avuta questa, promettevano di pagare 50,000 ducati per l'impresa del Regno. I Veneziani inoltre sconsigliavano Roano di aiutare il papa in Romagna per non avere essi da aiutare Luigi nel Regno.
 I Veneziani dopo avere aiutato Luigi a calare in Italia, se ne mostravano quasi dispiacenti, e chiaramente dicevano di non volere più mettersi in nuove imprese, se non ne avevano da ricavare un qualche migliore profitto. L'acquisto di Cremona e della Ghiara d'Adda li faceva aspirare a un dominio maggiore in terra ferma. Ripresa la Lombardia, il re mandò ad offrir loro di fare assieme la guerra di Napoli ; ma essi non accettarono. Prima, fecero rispondere al re che egli assai altri nemici aveva in Italia che non consentivano né a lui. né a loro di avventurarsi in quella guerra : e fra questi nemici nominarono il marchese di Mantova ed il duca di Ferrara, i quali come il Bentivogli non lo avevano soccorso nel ritorno di Lodovico, loro parente e vecchio alleato. Onde gli proponevano per la sicurezza comune, di togliere a quei signori lo stato e di ripartire i nuovi acquisti; dopo che, gli promettevano di aiutarlo nell'impresa del Regno, ma lo consigliavano ad accordarsi per questo con i Reali di Spagna, perché a lui non accadesse — come a Carlo VIII — di ricondurre gli spagnuoli in Italia.

   Senatus Secreta 7 e 9 maggio 1500.

Né migliore effetto ebbero le pratiche con loro fatte da Alessandro per indur1i a lasciare la protezione delle città di Romagua. Malgrado le grandi promesse del papa di soccorrerli nella guerra del Turco che loro prendeva le isole dell' arcipelago, essi insistendo sempre nel loro rifiuto, ad Alessandro che mandava a Venezia il vescovo di Tivoli il 25 maggio facevano rispondere dal doge : "Saremo sempre come sempre semo stati obsequentissimi del papa, ma di Rimano e Faenza son gran cosse a questi tempi".

   Diario di M. Sanuto.

E i Veneziani erano cosi poco disposti a cedere, che si disse avere proposto ad Astorre Manfredi di permutare la signoria di Faenza in altra del loro dominio ; questa come cosa certa in maggio fu udita dalì' autore del Diario ferrarese.
 Fallite queste pratiche. Cesare restò ad aspettare in Roma che fosse terminata la guerra di Pisa, dopo la quale non dubitava che Luigi XII. volendo far quella di Napoli, non avrebbe cercato di compiacere il papa, facendo dai Veneziani lasciar la protezione di Rimini e di Faenza. La sua riputazione era omai tale, che se anche il re non gli avesse dato l'esercito, egli come capitano della Chiesa ne avrebbe fatto uno, da poter continuare da solo l'impresa di Romagna. In questi giorni, il marchese di Mantova mandò a chiedere in gran favore a Cesare di tenergli al battesimo il figliuolo che gli era nato ; ed egli con lettera del 24 maggio gli rispose che "per la strecta et fraterna benivolentia" che porta al marchese volentieri accetta di esserne compare. È certo che con questa alleanza il Gonzaga voleva procurarsi nel Borgia un amico che presso il re lo avesse difeso dai Veneziani.
 In mezzo alle feste del giubileo, una sola volta il cerimoniere Burcardo nota di aver visto il duca assistere ad una delle tante cerimonie che di giorno in giorno si ripetevano, davanti a migliaia di pellegrini; e fu il 13 aprile quando accompagnò il papa nella gran cavalcata alle quattro basiliche, seguito dai suoi gentiluomini e dai cento neri staffieri co' ronconi sulle spalle. Ma gli bastò quella visita per lucrare le indulgenze in quel di dispensate ai vivi ed ai morti. A lui piacevano altre teste, altri spettacoli. Il 24 giugno comparve in una caccia di tori fatta presso S. Pietro, costumanza non nuova, introdotta dagli Aragonesi in Italia. Il duca scese a cavallo nello steccato, dove furono lanciati sei tori selvatici ; ne ammazzò cinque, combattendoli alla giannetta , una sottile lancia, e all'altro tagliò la testa con uno spadone alla prima botta, "cosa che a tutta Roma parve grande."
 L' orator veneziano, P. Cappello, dice di Cesare: "È di anni 27, bellissimo di corpo e grande, ben fatto, e meglio del re Ferrandino... E realissimo, anzi prodigo, e questo al papa dispiace... Serà se vive , uno de' primi capitani d' Italia." Tanta era la sua liberalità che fu detta "liberalità cesarea" per non potersi indicare con altro nome che con quello suo proprio: in breve fu la sua corte piena di letterati, di artisti e di soldati, che ne ricercavano i servigi. Egli ricevette tutti "graziosamente."
 Vi ebbero posto letterati italiani e latini, consiglieri e segretarì di Cesare, i quali fra i più gravi negozi del governo non dimenticavano i diletti studi : alcuni di loro sono gli stessi, che poi B. Castiglione descrisse nel Cortegiano conversare ne' classici colloqui di Urbino. Vi erano Agabito Gerardino da Amelia , Battista Orfino da Foligno . Francesco Sperulo camerinese e Pier Francesco Justolo spoletino, tutti dell'accademia pomponiana allora tenuta in casa di Paolo Cortese. Il Justolo era andato forse a Roma nel seguito di Lucrezia che lo conobbe in Sppleto; compose molti versi latini in onore del duca, altri ne dedicò a Giovanni Vera fatto cardinale e ad Agabito Geraldino.

   Justuli Spoletani Opera, Romae 1510. Ne fu fatta una ri stampa con aggiunte a Spoleto nel 1855.
 In una sua lettera ad Angelo Colorai premessa alla edizione romana dice il Justolo di aver composto dodici panigirici De gestis Caesaris Borgiae, dei quali solo tre gli rimasero, avendo gli altri perduti nella delezione di Faenza nel 1503.

Anche Francesco Sperulo ce lebrò il suo signore in un poema latino; dagli uni detto elegante nella poesia eroica nell'ele giaca e nella lirica, dagli altri giudicato scrittor duro e troppo amante del suo sentimento. ' E ac canto a questi latinisti si veggono il "divino" Aquilano, Vincenzo Calmeta da Castelnuovo che ebbe nome di rimatore eccellente, distinto per lo stile proprio, e Antonio Cammelli da Pistola, le cui "facezie" anche oggi sono leggibili. Con questi letterati latini e italiani, la corte di Cesare rappresenta un momento del contrasto durato per tutto il secolo tra i due elementi della letteratura nazionale. La cancelleria é nelle mani dei latinisti, che preferiscono di usare negli atti la lingua vecchia, ma la trovano così insufficiente ai bisogni del governo, che sono costretti a ri servarla solo agli atti più solenni: e nella corte, come nell'accademia, si lasciano occupare il primo posto dagl'italiani. Nel trapasso dall'una all'altra forma, avvengono promiscuità di frase e di senso: il Gerardino costringe il suo volgare in un pe riodo latino che ne impedisce la scorrevolezza, e il Justolo, ne 'panegirici, fa l'antico Giove occu parsi del papato : ma già la italianità irrompe nelle scuole e nelle istituzioni. Passeranno ancora alcuni anni, e il Bembo dovrà tradurre in volgare I Di lui parlano l'Arsilli nella Coryciana (Roma 1524) e il Giraldi ne' dialoghi Depoetis suorum temporum. Il carme dello Speralo é ancora manoscritto nella Biblioteca Vaticana. Altre sue poesie si leggono nei codìci della Biblioteca di Perugia. le sue Istorie venate, e il Bibbiena deriderà i la-' tirasti nel prologo della Calandra. Serafino Cimino da Aquila fu chiamato dai coetanei il divino Aquilano, l'elegantissimo fra quanti allora componessero versi in Italia. Le più splendide corti lo avevano udito, spasimante delle duchesse, poetar d'amore sopra ogni argomento — un anello, un ventaglio, una maniglia — in sonetti e in stram motti pugliesi da lui introdotti a gareggiare co' rispetti toscani. Soleva egli can tare i suoi versi sul liuto e in arie così nuove, che non vi era festa che egli non fosse invitato a rallegrare con l'armonia della sua musica e l'ar guzia de' suoi strammotti : anche nell' accademia pomponiana era gradito, se interrompeva le ar due conversazioni degli eruditi con il suo dolce canto. Tal grido ebbe per questo modo nuovo di cantare che egli soleva dire facetamente : "stima re più in vita sua un applauso popolare , che dopo morte tutta la fama di Dante e del Petrarca." Violento nel suo amore e nel suo odio, anni pri ma per alcuni versi contro la Curia aveva avuto una gran coltellata da un ribaldo per mandato, si disse, di Franceschetto Cibo figliuolo di Innocenzo VIII. Partito da Roma , vi era ritornato da pochi mesi, richiamato dal card. Borgia morto ad Urbino. Dei versi contenuti nella raccolta a stampa pochi sono quelli che, con certezza, si conoscono composti da lui durante il tempo che fu al servizio del duca. Quando Lodovico fu preso a Novara, in mezzo al giubilo che per quella nuova dimostra rono il papa e gli Orsini, l'Aquilano non esitò di dettare due sonetti, il 139° e il 143°, per com piangere la miserevole fine di quel grande prin cipe. Nel primo rammentando con malinconia come "in un momento Fortuna sforza a lacrimar chi ride" liberamente fa dire al Moro questo consiglio di prudenza: Però chi in cima di sua rota siede Exemplo pigli da la mia percossa Che savio é quel che inanzi al mal provede. E ripreso l'argomento, nel secondo, al suo nuo vo signore raccomanda : "prendi pur tu virtù per tua arte" perché "centra virtù non può l'em pia fortuna." Di un altro sonetto, il 67° della rac colta, si dice che la materia gli fu data dal duca. È un sonetto d'amore che contiene una compa razione fra la donna del poeta e l'idra ' È tanta la stranezza di alcuni dei componimenti dell'Aqui

 

1 "Materia datali da Cesare Borgia duca di Romagna": Ch' il crediria ? fra noi l' hidra dimora Con sette teste et con so gran veneno Che n' ha sette altre, poi se una vien meno Già che fa quello la mia donna anchora. Ha sette capi, i qual te nemine hora El sguardo, el riso de dolcezza pieno, La fronte, i piei, le man', la bocca, el seno, Et ogn' un morde, ognun strugge e divora. Tronca una testa, n'ha sette altre fore, Sdegno, desperation, vivace morte, Sospetto, gelosia, dubbio, timore. In questo solo han differente sorte: L' hidra col foco (a quel e ch'io intendo) more B questa col mio ardor si fa più forte. lano (in un altro confronta la sua bella con la canicola), che probabilmente anche il duca aveva il mal gusto di quel tempo in cui tanto dilettava 10 strano e lo straordinario. Ma é da dubitare che 11 poeta, avuta dal duca la materia di un sonetto sopra l'idra, male ne interpretasse la intenzione, la vari diplomi fatti dopo la nomina a gonfalo niere della Chiesa, Cesare usò un sigillo con uno scudo, che in mezzo ai quarti delle arme ha le chiavi ed il gonfalone, sormontato da due cimieri, l'uno con un pegaso e l'altro con un'idra dalle sette lingue aguzze. Forse su questa il duca diede a comporre all'Aquilano il sonetto; ma il poeta preferì di cercarla nella donna sua, anziché altro ve, per non svelare il senso che i contemporanei diedero a quella impresa. ' Sotto la protezione del duca, che gli aveva fatto ottenere una commenda dell'Ordine geroso limitano , pareva finalmente che egli dovesse ri posare la sua vita avventurosa, quando preso da una febbre maligna in pochi giorni, il 10 agosto 1500, ne mori. Non aveva ancora trentacinque I II sigillo, guastatosi in molti diplomi, vedesi chiaramente, cosi come é sopra descritto, in uno del 5 luglio 1501. II Brantóme narra che "on donna à cedit Cèsar pour dévise un dragon devorant plusieurs serpeuts, avec ses mots: Unius compendiimi, alterius stipendium"; ma si ignora se proprio e quando il duca usò questa impresa. Così dicasi dell'altra de scritta dal Giovio nel Dialogo delle Imprese : "Cesare Borgia duca di Valentinois, usò un'anima senza corpo, dicendo, aut Cas sar aut nihil, volendo dire che si voleva levar la maschera e far prova della sua fortuna". anni di età. Agapito Gerardino curatore del te stamento lo fece seppellire in S. Maria del popolo, e sul sepolcro erettogli dagli amici ed ammiraratori suoi fu scolpito un epitaffio di Bernardo Accolti detto l' unico Aretino, che da indizio del grande onore in cui fu tenuto. Angelo Colocci perugino intese a comporre una apologià delle opere di lui , da ristampare in scelti esemplari . e Vincenzo Calmeta che gli era stato grande amico ne dettò la vita. l In Bologna Gian Filoteo Achillino si dié a raccogliere i sonetti che in lode dell' "ardente Seraphino" furono composti dai poeti italiani da lui invitati a contribuire a quella "funebre pompa." Degli artisti che aveva conosciuto in giovi nezza, il duca al suo ritorno in Roma non ritro vò né il Pinturicchio né il Perugino, i quali fi niti i lavori del palazzo e del castello, poco prima della sua partenza, erano ritornati alla lor Peru gia: né il Perugino per il papa ed il duca ebbe più oltre a lavorare , ma forse il suo discepolo prediletto Giovanni lo spagnuolo che fece alcuni affreschi nella rocca di Spoleto. Ma vi ritrovò Antonio da San Gallo primo architetto del papa, vi ritrovò Michelangelo , che allora per il grup po della Pietà commessogli dal card. di Villiers aveva meravigliato Roma, e molti altri artisti

 

1 Opere d'amore di Serafino Aquilano con la loro apolo già e vita d'esso poeta. In Roma per m. Joanni de Besichen 1503 a dì 5 di ottobre. — Della vita é riportato un passo nell'Ap. al n. 16. che vi aveva tratto il giubileo, impiegati ne' la vori ordinati dal papa nelle strade, nelle chie se , nello Studio rinnovato e ingrandito, sotto i cui arapii atrii il Copernico, distratto ancora una volta da' sacri studi , discepolo e coadiutore del Regiomontano , insegnava astronomia. Vi era il giovinetto Benvenuto Tisi da Garofalo, che nel gennaio dell'anno prima era fuggito dalla bottega del Boccaccino in Cremona solo per "voler veder Roma." Vi era il Bramante che a S. Giovanni di Laterano sopra la porta santa dipinse l' arme del papa con angeli che la sostenevano, e poi servi per sotto architetto al fonte di Trastevere ed a quello costrutto davanti al vecchio S. Pietro. Certamente il duca conobbe Michelangelo, se da lui anni prima comprò il Cupido ; ma se al lora gli commettesse altri lavori, nessuna memoria rimane , mancando ogni notizia sulla vita di lui. dal 26 agosto 1498 giorno del contratto per il gruppo della Pietà, al 5 giugno 1501 data di quello per le statue della libreria Piccolomini. È da no tarsi però che quel messer Jacopo Galli che gli fece fare in casa sua un Bacco ed un altro Cu pido, ed ebbe a promettere per lui nei contratti col card. Villiers, era di famiglia cliente dei Borgia, della quale un Giuliano nel 1486 si trovò presente all' atto del matrimonio di Vannozza con Carlo Canale. Forse in questi mesi Pier di Lorenzo allievo di Cosimo Rosselli, fiorentino, ebbe a fare il ritratto del duca ; ma non si trova più né la pittura, né il cartone che a' suoi di il Vasari vide in Firenze. ' Degli altri ritratti che rimangono del duca, quelli che si veggono riportati nel Museo degli uomini illustri di P. Giovio, e nel Tesoro del Grevio da vanti al Diario Cesenate, sono diversi dall'altro che ancora si conserva nella Galleria Borghese in Roma, probabilmente fatto più tardi, se come si dice, é di mano di Raffaello Sanzio. Nel quadro del Museo gioviano il duca é rappresentato, in quella età, in cui Francesco Sperulo chiamava lui suo eroe, virum... Cui matura manus pugna, menì praeteril annos: nella destra ha il bastone del cornando. È vestito di un farsetto che gli giun ge al collo, e sopra ha una cappa dalle ampie maniche ; un berretto militare riquadro alla fran cese gli copre il capo ornato di lunghi capelli ricciuti , che, tagliati sulla fronte, gli discendono sulle larghe spalle. La faccia é di profilo , un po' lunga, con leggiera barba; l'occhio é mite, la bocca é aperta ad un sorriso. Vi si conosce il "bellissimo" duca descritto dall'orator veneto. Con questo ritratto davanti , non si comprende come il Giovio potesse scriverci sotto, che la fac cia di Cesare era deformata da schifose pustule . e che gli occhi incavati scintillavano di atroce sguardo, ciie né gli amici né i famigliari pote vano tollerare , benché poi con mira commutatione diventassero soavissimi ogni volta che egli

 

1 "Ritrasse ancora il duca Valentino figliuolo di papa Ales sandro" Vita di Pier di Cosimo. si fosse trovato con belle donne (jocabundus inter foeminas). Il Giovio gli negava la bellezza, per aver ragione di dire che era nato da fetido sangue e da esecrabil seme. ' Il 29 giugno, festa degli apostoli . ad Ales sandro occorse un grave pericolo. Ad ore 23 egli era ritornato dalla basilica al palazzo, e si era fermato nella sala da basso detta dei papi, appa rato ancora del gran manto e seduto nella sella gestatoria. Infuriando un fortissimo temporale, mandò due camerieri a far chiudere le finestre, quando ad un tratto un fulmine precipitò su la volta del camino, e fece cadere addosso a lui ed a quelli che gli erano appresso un trave ed un pezzo di muro. Di sala in sala si udì il grido: "Il papa é morto :" Cesare, Lucrezia e Jofré, ac corsero ; e si videro fuggire i cortigiani atterriti davanti a loro, dubbiosi di averli ancora da riverire per padroni. Ma il papa era solo ferito, e il 5 lu glio con gran pompa andò a S. Maria del popolo a render grazie del pericolo scampato. Durante il suo papato Alessandro VI ebbe a dimostrare una singolare venerazione per la Vergine, in onor della quale instituiva il suono dell'Ave Maria nella Chiesa. Ma nemmeno questa divozione salvava la sua religiosità. Aldo Mauuzio poteva ancora cre derlo degno di dargli la dispensa di un voto che l' amore dell' arte sua gli impediva di sciogliere ; -

 

1 "Viroso sanguine execrabilique semine pragenitum ferunt, quod faoiem etc." Elogia virorum illustrium.

 

2 V. il breve 11 agosto 1498 pub. da R. Fulin, nell'Archivio veneto, tona. 1. Cristoforo Colombo nelle sue navigazioni poteva ancora pensare a lui per il riacquisto di Terra santa. Ma in questi anni non era più

Grato a ciascuno, a nessun mai molesto
Sesto Alessandro papa Borgia ispano
Justo nel judicare e tucto umano.

come Giuliano Dati aveva cantato.

   La lettera delle isole eco. pub. da G. Uzielli nella Scelta di curiosità letterarie, Bologna 1873.

Gli scandali avevano cominciato a guastarne la buona riputazione, i portenti compirono l'opera. Da vari cronisti con una minuziosa cura sono rammentati di volta in volta gli spessi fulmini che cadono in Roma o sul castello o sul palazzo ; e quando se ne fa il conto, é per far dire al Malipiero "Tal che l' é seguido gran portenti in tempo di papa Alessandro," osservazione che prepara il Prato a dire per questo del 29 giugno : "Il che fu estimato esser cosa diabolica: conciossiaché esso non fussi santo."
 Pochi giorni dopo questo caso, il 15 luglio a tre ore di notte, fu trovato ferito su le scale di S. Pietro don Alfonso, marito di Lucrezia. Il Burcardo racconta che il giovane duca di Bisceglie fu assaltato da divertii assassini, i quali, dopo averlo ferito nella testa, nel braccio destro e in un ginocchio, fuggirono giù per le scale, dove li aspettavano circa altri quaranta a cavallo che li scortarono fuori della porta Pertusa. Il principe abitava presso la basilica, in casa del card. di S. Maria in portico; ma tanto gravi erano le sue ferite, che da quelli che lo raccolsero fu trasportato nel palazzo pontificio, e messo in una delle camere della Torre Borgia. Il giorno dopo, portata la nuova a Napoli, il re Federico mandò un m. Galieno suo medico a curarlo. In un dispaccio veneto del 19 luglio, riassunto dal Sanuto, si dice che mons. di Valenza, il duca Cesare, emise un editto che niuno dal castel di sant'Angelo alla basilica di S. Pietro potesse lasciarsi vedere armato, pena la morte. Il povero Alfonso stette trentatré di ammalato, assistito sempre da Lucrezia e da Sancia: il cardinale di Capua gli prestò i sacramenti.
 Né il Burcardo né l'autore della cronaca napoletana dicono chi fossero gli assalitori , e mostrano di non conoscerli. Erano senza dubbio sicari, ma chi li aveva fatto appostare in quell'ora insolita presso il Vaticano? Don Alfonso al cominciare della guerra di Lombardia si era trovato male in quella corte amica di Francia, adirata ancora del primo rifiuto del re Federico, e non vi era ritornato che per le persuasioni del papa e l'amore della moglie. La nascita del piccolo Rodrigo, per la quale Cesare gli aveva mandato congratulazioni , aveva finito di acquietarlo. Ed era restato a Roma al giungere del duca , e vi era restato dopo la presa di Lodovico , che toglieva ai suoi tante speranze : perché ben sapeva, che sebbene Luigi XII portasse fra i suoi titoli anche quello di Roy de Sicilie, il papa suo alleato non lo avrebbe mai lasciato avventurarsi in una guerra che avrebbe ricondotto gli Spagnuoli in Italia. Del resto, anche se Luigi avesse avuto intenzione di far la guerra da solo, senza il papa ed i Veneziani, allora non Io avrebbe potuto, perché la fallita impresa di Pisa gli faceva mancare i 50,000 ducati che i Fiorentini gli avevano promesso. Pareva adunque che don Alfonso avesse piuttosto da temere da altri , dai nobili napoletani di Sanseverino, de' quali egli aveva avuto il principato di Salerno, o dai nobili romani dei Gaetani , ai quali era stata tolta Sermoneta per darla alla moglie sua Lucrezia. Ma l' orator veneziano non se ne mostrò persuaso. Già nel dispaccio del 19 luglio dice che non si sapeva chi avesse ferito Alfonso di Biselli, ma che si riteneva lo stesso che ammazzò Giovanni di Gandia : il Cappello non metteva dubbio che Cesare non fosse stato l' autore della morte del fratello. Poi nella relazione del 28 settembre procede senza reticenze.
 Paolo Cappello era andato oratore a Roma soltanto dopo il settembre del 1498, cioé quando Cesare era partito per la Francia ; ma de' suoi fatti, delle accuse che gravano su lui, si mostra informatissimo forse per le notizie che ne ebbe alla corte di Napoli, dove gli anni prima era stato ambasciatore. Del duca che vide rientrare trionfante in Roma, egli ammirò la liberalità e la va lentia ; ma un senso di paura sembra che lo invada ogni volta che ha da parlare di lui. Gli pare che tutta Roma, prelati e cittadini, siano avviliti da vanti a tanta grandezza e ne temano le vendette: e perché si trovano morti per la città, "tutta Roma trema di esso duca, che non li faccia ammazza re." E gli pare che anche i suoi, la sua famiglia, abbia a temere di lui che gli fu detto avere scan nato il fratello. Davanti a lui Jofré e Lucreziache erano stati tanto ammirati nelle prime feste del giu bileo, dopo il suo ritorno, rimangono confusi nella folla dei cortigiani; l'oratore dice di don Jofré che "calza li speroni al duca," e di Lucrezia che deve darsi a lui sul letto maritale. Solo donna Sancia par che non lo tema, quando (come il Burcardo narra) in una disfida di due soldati, un bor gognone ed un francese, ella per isfregio al nome di Francia veste i suoi scudieri con la croce di sant'Andrea per onorare il borgognone vincitore. Dal papa stesso dice che "ama ed ha paura" di questo suo figliuolo, e non osa dolersi delle sue prodigalità, sebbene gli dispiacciano: e aggiunge che altra volta il duca inseguì con la spada il ca meriere Pi erotto fin sotto il suo manto, "sì che il sangue saltò alla faccia del papa." Fin dai primi giorni l'oratore incolpò Cesare del ferimento del cognato: immaginoso e facile al sospetto, la terribilità del duca bastò a convin cerlo. ' II suo racconto é diverso in molti punti da

 

1 In un disp. del settembre 1496 da Napoli, perché il marchese

  • Signoria la fa miglia e lo Stato, nota: "Lo che era segno che non si fidava J quello del Burcardo. Egli narra : "Fu ferito a tre ore di notte presso il palazzo dal duca Valentino. suo cognato, e il principe corse dal papa dicendo : son stato ferito, e gli disse da chi ; e madonna Lucrezia figlia del papa, sua moglie, eh' era in ca mera col papa, cadde in angoscia... E la moglie e la sorella, che é moglie del principe di Squil late altro figlio del papa, stavano con lui e gli cucinavano in una pignatella per dubbio di veleno per l'odio che gli aveva il duca Valentino. E il papa lo faceva custodire da 16 persone per dubbio che il duca non l'ammazzasse. E quando il papa 10 visitava, il duca non vi andava; se non una volta che disse: quello che non si é fatto a de sinare si farà a cena. E avendo l'oratore parlato col papa di questo, il papa gli disse : il duca dice di non lo aver ferito, ma se lo avesse ferito lo meriteria ecc." E forse disse il perché, ma nella relazione é om messo. ' La differenza dei due racconti ognor più si accresce, quando giungono a descrivere che il 17 agosto don Alfonso fu trovato morto nel suo letto. 11 Cappello cosi prosegue a narrare: "Ora un giorno (Cesare) entrò in camera, ché era già sol levato, e fece uscire la moglie e la sorella, e don Michele chiamato, strangolo il detto giovane e la del duca di Ferrara suo suocero perché lo haveva ut dìcitur vo luto atosegar." È nei Diarii del Sanuto.

     

    1 Notisi che la relazione é solo riferita in sommario nei Diari del Sanuto. È pub. nel voì. 7 delle Relazioni degli ambascia tori veneti, Firenze 1846. — 112 — notte fu sepolto... E il duca ebbe a dire di averlo fatto ammazzare, perché tramava di ammazzar lui, e di questo faria il processo, e lo voleva man dare alla Signoria." Per contro il Burcardo così si esprime: Alfonso "non volendo per le ferite ricevute morire, fu strangolato nel letto ieri verso le ore 19. Nella sera il cadavere fu por tato a S. Pietro e deposto nella cappella di S. Maria delle febbri. Lo accompagnava Francesco Borgia arcivescovo di Cosenza. Furono carcerati e condotti in castel S. Angelo i medici del de funto ed un certo gobbo che lo serviva, e contro loro fu fatto processo ; ma poco dopo furono li berati, essendo immuni, perché si era conosciuto che erano stati ingannati (capi) dai mandanti." Delle molte diversità fra i due racconti sono da notarsi queste: la che mentre il Cappello in colpa Cesare del ferimento e della morte di Al fonso di Biselli, il Burcardo esclude che egli lo ferisse, ammessi più aggressori ; e se in questi non si vogliono cercare i mandanti, fa dubitare che egli volesse alludere e al papa e al duca : 2" che mentre il Cappello assicura che il duca si vantò autore della morte, il Burcardo fa credere che esso ed i suoi complici cercarono di gettarne la colpa sui medici. Son queste differenze molto im portanti, inspiegabili in due testimoni che nella stessa città, nella stessa corte, quasi insieme vi vevano. Le notizie che di questo fatto vanno spargen dosi fuori di Roma sono molto incerte: nelle ero — 113 — nache alcuni continuano a dire che gli assassini restarono sconosciuti, altri non tenendo conto di alcun sospetto dicono che il giovane morì delle ferite avute. ' Né meno incerti sono quelli che imputano al duca la morte. L'autore della cro naca napoletana amico degli Aragonesi, nel ri portare la notizia del ferimento, non mostra di conoscerne il colpevole, nemmeno quando il re Fe derico manda al ferito un suo medico per gover narlo, — sebbene l'orator veneto dica che questi "per dubbio aveva mandato a torre medici a Na poli." Solo quando riporta che é stato ammaz zato "dentro la camera," nota che "dicono l'ave facto amaczare lo figlio de lo papa." In gene rale é la versione del Burcardo, che trovasi ri petuta nelle storie ; quella del Cappello così piena di particolari ha solo un riscontro nella cronaca pavese di Antonio Grumello, il quale su Alfonso e su Lucrezia raccolse assai minute notizie : ma da lui la morte é narrata in modo molto più tra gico, perché scrive, che il duca Valentino non fece uscire la sorella dalla camera e non si valse del laccio di don Michele, ma che "trovandolo a giacere con Lucrezia sua consorte con grandissima orudelità lo ebbe occiso in lecto appresso Lucretia sua sorella.8"

     

    1 Il fiorentino Buonaccorsi scrive : "Uscendo una notte di pa lazzo fu in su le scale di S. Pietro assaltato e ferito a morte, delle quali ferite alla fine si morì". Invece il Matarazzo dice conl'usamente : "Per attempo lo ammazzò lo cardinale di Valenza". 2 La cronaca fu pub. da G. Miiller nella Raccolta di cro nisti Lombardi inediti, Milano 1856-1857. 8 — 114 — Qnesto assai singolare riscontro farebbe dubi tare, che il sommario della relazione di P. Cap pello non fosse molto esatto, e che vi fossero con fuse le notizie proprie dell'oratore con quelle che in altra guisa si procurò il Sanuto. Di questa con fusione si é visto qualche esempio nei Diarì dello stesso segretario, e nell' estratto dei dispacci fatto dal Machiavelli. Ciò ammesso, sarebbero spiegate molte delle diversità che si notano fra le due prin cipali versioni del fatto, e quella particolarmente della confessione, contro la quale starebbero l'or dine del divieto delle armi . le parole del papa : "il duca dice di non lo aver ferito," e persino la promessa del processo da mandare alla Signoria. Comunque sia la cosa, l'oratore veneto era tanto persuaso che Cesare avesse ammazzato don Al fonso, che non ebbe a curarsi di dirne il perché, bastandogli di affermare che lo ammazzò. Nella re lazione però, accennando ad alcune cause che ne fecero volere la morte, lascia intendere questa, per potere da solo godere la sorella e toglierle Sermoneta, come fece "dicendo: é donna, non la po trà mantenere :" ma l'oratore senza dubbio ignorava che Sermoneta, ancor da prendere ai Caetani, era fondo dotale di Lucrezia — appunto come Corata nel Regno, che Federico subito dopo la morte del pa rente occupò come feudo a sé devoluto. ' Sermo

     

    1 "Questo stato e contado di Corata fu già comprato dal Papa et datolo a questo Alfonso in dote della figliuola, et Federico se l' aveva occupato, come devoluto a lui per la morte del parente". Comp. del lo st. del regno di Napoli, ag. da M. Roseo. — 115 — neta toccò poi all'infante Rodrigo. È più proba bile l'altra causa che l' oratore lascia intendere . sebbene non dica, cioé che Cesare aveva interesse a sbarazzar la corte, del cognato, per spingere il papa alla guerra di Napoli alla quale, quantunque "nimicissimo" di Federico, non si mostrava pro penso per rispetto ai parentadi di Lucrezia e di Jofré, e per essere egli stesso più libero negli ac cordi da fare con gli ambasciatori del re di Fran cia che avevano da giungere a giorni in Roma. Ma resta una obbiezione : la morte di don Alfonso era tanto necessaria alla guerra di Napoli, da non poter questa essere altrimenti fatta? Nei giorni appunto, che il povero Alfonso moriva, alla corte francese — fallita l'impresa di Pisa — si diceva che Luigi aveva dimesso il pensiero della guerra, dopo che i Reali di Spagna avevano allestito una armata da mandare in aiuto al parente; anzi si diceva che teneva pratiche di accordo con Fede rico, un cui segretario era andato a trovarlo. l Del resto, anche se il papa e gli Orsini fossero stati pronti ad andare nel Regno, Luigi allora non vo leva; e preferiva, secondo il consiglio dei Vene ziani, di intendersi prima con Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona, con i quali tre mesi dopo, in Granata, ne stipulava il trattato di divisione, uno degli atti più perfidi del secolo.
     In tanto Cesare, avendo dovuto mandare a Pisa

       Disp. F. Della Casa e N. Machiavelli, 12 agosto 1500 da Montargis.

    gli svizzeri ed i guasconi che erano andati con lui a Roma, aveva preparato un esercito proprio, di soldati degli Orsini e dei Baglioni, e l'aveva mandato nell' Umbria, le cui città per le fazioni andavano a fuoco ed a sacco; brevi papali, dell' agosto incaricano Paolo Orsini e Gian Paolo Baglioni di fare armati. E quei guelfi — vi fu anche Bartolomeo d'Alviano — ben volentieri si erano messi al suo servizio, perché nel nome della Chiesa avevano da fare le vendette della lor parte sui ghibellini. Con questo esercito il duca poteva abbattere i Colonnesi confederati di Federico, se si faceva la guerra di Napoli, o andare in Romagna, se altro avveniva. Annunziavano intanto la impresa di Romagna, l' interdetto su Faenza e la proclamazione del duca in Cesena.
     Ai primi di luglio, il papa aveva interdetta la città di Faenza, non avendo voluto ricevere il censo che Astorre Manfredi chiedeva pagare alla Camera per mantenere lo stato. Erano le armi spirituali che precedevano le temporali. Nel primo spavento il clero fu indeciso: il canonico Sebastiano di Zaccaria, già precettore di Astorre, non volle celebrare il sagramento dell'altare: ma una notte il castellano Nicolo Castagnini lo fece prendere, e ignominiosamente lo cacciò fuori di una porta, alla campagna. Rifugiato a Lugo, l'esule scrisse lettere al clero faentino ed ai frati predicatori per esortarli a non trasgredire l'interdetto: soffocando ogni sentimento di carità per la patria, e di affetto al suo principe, scriveva a don Giusto Zuccolo rettore di Varna : Omne solum mihi patria est, Christum modo habeam mihi propitium.

       Epist. ex Lugo idibus juliis 1500. Le Epistolae familiares con altri scritti furono stampate in Faenza nel 1506.

     Il governatore di Cesena in giugno aveva tentato di metter pace fra quelli dei Tiberti e quelli di Marco Casini che avevan preso le armi ; e aveva riempito la città di soldati.

       Il dott. Bernardino da S. Geminiano in una lettera 30 maggio 1500 si raccomanda di dar ordine che "tanti armati habbinosi a multiplicar in questa miserabile Cesena". Archivio com. d'Imola.

    Ma il governatore Giovanni Olivieri vescovo di Isernia, luogotenente del duca in Romagna, ebbe dal papa ordine rli sollecitare la proclamazione, e di richiamare i Tiberti ritirati nei loro castelli della montagna. Il di 26 luglio i guelfi armatisi percorrono le vie con uno stendardo dalla croce rossa, gridando : Chiesa ! Chiesa ! e tentano di occupare il palazzo del Comune; ma il governatore dagli spagnuoli della rocca fece trasportare le artiglierie sulla piazza, e chiamò da Forlì Ecole Bentivogli che vi era con una compagnia di cavalli. Così i Tiberti il giorno dopo, 27, poterono rientrare in città ed occupare il Comune, cacciando tre degli Anziani e bruciando le carte dei processi fatti contro di loro in passato. Alcune case di cittadini guelfi furono devastate. Fra questi tumulti, l'ultimo dì di luglio, fu radunato il Consiglio, nel quale i ghibellini prevalenti decisero di mandare a Roma ambasciatori: Oddo Antonio Dandini, Domenico Rossi, Giovanni Assaloni e Nicolo Masini. a chiedere al pontefice di dare la signoria della città al duca. E il 2 agosto nella piazza, presenti il governatore ed Ercole Bentivogli con tutti gli armati, Polidoro Tiberti cavalcò in mezzo alla folla gridando che ad onore e salute del popolo acclamar si doveva il duca Cesare signor di Cesena.

       "Quod honori salutique Populi hujusve magnificentissimae Urbis Caesena sit: Io vivat Valentiae Dux illustrissimus, meritissimusque S. Eccl. summique Pontificis in hac Civitate vicarius. Io Dux vivat". Diar. Caesen.

    E Duca ! duca! fu gridato fra gli squilli delle trombe. In questa occasione i Forlivesi inviarono loro ambasciatori ai Cesenati.

       Cron. di A. Bernardi.

     Il vescovo Olivieri mandò subito un suo cancelliere a portar la nuova a Roma. Gli rispose il papa con un breve dell' 8 agosto, ringraziando della prontezza e della devozione di quei cittadini a compiacerlo, e sollecitandoli a mandargli subito gli ambasciatori, affinché le cose del duca avessero l'esito desiderato. Raccomandò pure che Polidoro si astenesse dalle rovine e dai saccheggi delle case degli avversari, che dice essergli assai dispiaciuti, e esortò l' Olivieri a fare andare a lui due o tre dei capi delle fazioni, affinché egli avesse modo di accordarli e di pacificarli per la quiete della città. In ultimo ingiunse al governatore di persuadere quelli di Bertinoro a mandargli oratori ad petendum ipsum Ducem in Dominum. Dopo questo, il 13 agosto, Alessandro scrisse un altro breve in risposta al vescovo che gli aveva annunziato l' arrivo degli ambasciatori cesenati. Gli raccomanda di nuovo di esortare il liberti ad astenersi da nuove offese, e perché le possa impedire, gli manda denari per fare altri 200 fanti ; e lo riprega di insistere che vadano a lui i procuratori delle fazioni, ut eorum res melius consolidari ac firmari passini. ' Avuto il primo breve, il governatore ne fece far copia e la fece portare da un de' suoi a JBertinoro, scrivendo a quei Consoli di "dar principio a quello che abbia esser utile, e pigliare tal partito che stia per la conservazione e augmento della città." I Bertinoresi elessero senz' altro l' oratore, già guadagnati dalle grazie prima avute dal pontefice. 2 Andarono dunque gli ambasciatori a Roma ad offrire al duca la signoria di Cesena e di Bertiiioro. Quasi alle porte della città i cesenati fu rono svaligiati dai Colonnesi, che battevano la campagna: in que'dl, tutta terra di Roma era in isterminio, dopo che Gian Paolo Baglioni e Bartolomeo d'Alviano rimpatriato erano corsi in Viterbo a scacciare i figliuoli di Giovanni Gatti. Ma era

     

    1 V. i brevi nei Documenti ai n. 17 e 18. 2 La lettera é del 19 agosto 1500. — Nell'Archivio di Bertinoro si trovano ancora due brevi di Alessandro del 26 maggio 1499 con cui si rilasciano in prò del Comune le tasse per la costruzione del palazzo e delle mura, e del 14 giugno 1500 con cui sono ri messi a Guido da Bertinoro ducati 50 d'oro da lui non potuti esigere nelle tasse per le guerre passate. — 120 — già apparso chi doveva frapporsi fra quei guelfi e quei ghibellini. Agli ambasciatori il papa fu largo di cortesie, e esaudì tutti i loro desideri. Man cano gli atti per i quali il duca fu costituito si gnore di Cesena, di Bertinoro e degli altri castelli del Cesenate; ma dai cenni che ne rimangono pare che prima della bolla generale fossero spediti i di plomi delle particolari grazie, alcune concedute dal papa ed altre direttamente dal duca. Gli amba sciatori di Cesena ebbero dal papa un breve del 3 settembre con cui ordina, che i benefizi chiesa stici di Cesena si abbiano da conferire soltanto ai preti della città e della diocesi, da nominarsi dal duca o dal suo luogotenente e dagli Anziani. ' Nella bolla poi Alessandro rimise alla Comunità il quinto dei dazi e le condonò quello della ma cina. Gli ambasciatori di Savignano ottennero dal duca il 29 settembre varie grazie, fra le quali l'e senzione per tre anni del tributo che la Comunità doveva pagare alla Camera, a lui devoluto. In que sto diploma Cesare si intitola: Duca di Valenza, conte di Dia et signore de Cesena, Forlì. Imola, Brilinoro e Isoduno. 2 Ma il duca con queste grazie e questi privilegi soltanto non diede principio alla sua signoria, ma con un atto di ben mag

      1 "Per nobilem virum Caesarem Borgia de Francia ducem Valentinum etc. sive ejus in dicta Civitate Locumteneutem, ac Antianos dictae Civitatis nominandis". Il breve é cit. dal Braschi nelle Memoriae Caesenates. — La notizia della bolla si desume dal Diar. Caesen.

      2 È riport. nei Documenti al n. 19.

    giore importanza: egli, il 17 settembre, avuti a sé i capi delle fazioni di Cesena, poté persuaderli a rimettere in lui le cause delle antiche contese, ed a fare fra loro la pace.

       "XV Kal. octobris Tibertos inter inimicamque illis factionem Roniae coram Valentino Duce pax constituta". Diar. Caesen.

     Fra tanto il 24 agosto erano giunti in Roma gli ambasciatori francesi Luigi di Villanova e mons. di Trans : uno mascherato, che si credette il duca, andò loro incontro, discese da cavallo e scopertosi il volto li abbracciò. Il 2 settembre assistettero all' atto di nozze di Angela e del prefettino di Sinigallia, ancora fanciulli, stipulato da procuratori. Essi certamente portavano seco i capitoli dell'accordo per gli aiuti che il re poteva prestare al duca in Romagua ; ma se ne ignorano i particolari: secondo l'oratore veneto, il re aveva da dare 600 uomini d'arme e 600 svizzeri, senza però le artiglierie, nel caso che si avesse a scacciare Giovanni Bentivogli da Bologna, il solo omai che potesse soccorrere i parenti di Faenza, di Rimini e di Pesaro.

       II Cappello dice espressamente: "e ciò fa per scacciare da Bologna messer Giovanni Bentivogli".

    In questi giorni i Veneziani, per consiglio del re avevano dovuto finalmente lasciar la protezione del Malatesta e del Manfredi. Quando giunse la lettera della Signoria, P. Cappello e M. Giorgi andarono tutti e due a portarla al papa, che n'ebbe tale allegrezza . che quantunque pregasse di tenerla segreta, presto si intese da tutto il palazzo. Quella notte se ne fece gran festa.
     Dopo questa risposta, Alessandro che prima pubblicamente aveva detto che la Signoria nulla si pensasse di avere da lui, perché non lo vole va compiacere, si mostrò disposto a favorirla in tutto. Egli voleva cosi obbligarsela, desiderando che ella proteggesse il figliuolo e lo facesse suo gentiluomo, e gli desse ancora titolo di suo ca pitano; perché dichiarava di non stimare più della Signoria altra potenza del mondo. Agli oratori disse di voler fare tale ordine che il papato fosse o di Cesare o dei Veneziani. E dal canto suo il duca aggiungeva: "che farà far papa (morendo il papa presente, suo padre), quello che la Signoria nostra vorrà ; e che se i nostri cardinali saranno uniti, il papa non sarà altri che Veneziano." Ma queste promesse, anche se sincere, non bastavano a far dimenticare ai Veneziani, che il duca si fa ceva signore di terre che essi da tanti anni ave vano inteso ad occupare in Romagna, e che gliele prendeva appunto quando stavano per occuparle. Si racconta anzi, che dopo aver chiesto al Man fredi di ceder loro la signoria, diedero ordine al provveditore nel partire da Faenza di tentare di condurlo seco anche a forza, perché avendo nelle mani il giovinetto lor pareva di avere ancora la desiderata città. l Essi allora, perché costretti a

     

    1 "Fu opinione che se il signore andava a palazzo, sarebbe stato ritenuto e mandato a Venezia ; un tal ordine aveva il prov veditore". Cronica civitatis Faventìae, — 123 — contentare il papa ed il re, cedevano, ma per tor nare di nuovo ad aspirare al dominio perduto, una volta cessata la paura del Turco contro il quale, il re ed il papa li avevano da soccorrere. In questi giorni, il 23 settembre P. Cappello ritornato dalla sua ambascieria leggeva nel Se nato la famosa relazione, nella quale tanto terribile appare la figura del duca. Fa meraviglia a ve dere come i Veneziani così gelosi della loro no biltà, si inducessero ad ascrivere fra i proprì gentiluomini, uno che era accusato di aver rotto tante fedi e di essere stato così crudele con gli stessi suoi congiunti; ma essi o non credettero alle accuse, oppure finsero di ignorarle, per valersi delle buone intenzioni che il duca mostrava per loro. Onde il 18 ottobre lo fecero gentiluomo, e gli diedero casa in Venezia, come si usava. * Il papa desiderava anche che gli dessero titolo di loro capitano, e in questo il re lo favoriva: ma non lo compiacquero, perché quel titolo non desi deravano che fosse portato da chi andava contro signori che prima erano stati sotto la protezion veneta. Decisa adunque la guerra, prima di partire Ce sare aspettò che fossero fatti i nuovi cardinali, dalle nomine dei quali si avevan da cavare le spese. Per questo il 24 settembre egli fu visto

     

    1 Se ne trova questo cenno nei Stari del Sanuto : "1500 a 18 (T ottobre l' illustre don Cesare Borgia duca di Valentina, nipote di papa Alessandro VI". — 124 — cavalcare alle case dei cardinali per pregarli a voler dare il loro assenso alle proposte del papa. "acciò lui habi danari per l'impresa di Romagna. > Così il 28 in Concistoro ne furono eletti "lodici, alcuni dei quali suoi congiunti, e tra questi Anbono d'Albret suo cognato. Il duca li invitò la sera alla propria tavola.
     L'esercito che il duca conduceva in Romagna era di 10,000 soldati, parte raccolti da lui e parte da Paolo Orsini e Gian Paolo Baglioni che lo aspettava co' suoi fanti in Perugia. Era di 700 uomini d'arme, 200 cavalli leggeri e 6,000 fanti, italiani francesi e spagnuoli, raccogliticci: conduceva le artiglierie Vitellozzo Vitelli, e maestro del campo era Bartolomeo da Capranica, tutti capitani di buon nome. Fra i gentiluomini della sua guardia vi erano molti dei nobili romani che con lui erano stati in Francia: Pietro Santacroce, Giulio Alberino, Mario di Mariano, un suo fratello, Menico Sanguigni, Gio. Battista Mancini, Onorio Savelli, Ferdinando Farnese. E altri giovani romagnuoli gli aveva condotto Achille Tiberti, desiderosi di fare le prime armi sotto di lui. Lo accompagnavano anche molti fuorusciti, fra i quali alcuni dei Malvezzi, che dopo la congiura del 1488 cacciati in bando da Giovanni Bentivogli, andavano cercando per tutta Italia nemici da condurre contro il tiranno.

       Lucio Malvezzi che per il duca di Milano aveva difeso Pisa contro Ercole Bentivogli capitano dei Fiorentini, nell'ultima guerra di Lombardia era stato fatto prigione dai Veneziani; nel gennaio del 1501 il nunzio papale a Venezia instava per la sua liberazione. Diarì del Sanuto.

     Della sua casa lo avevano da seguire il cugino vescovo d'Elna, il vescovo di Trani ed il vescovo di Santa Justa, Gaspare Torella suo medico e consigliere, che appunto in quei di gli dedicava un Dialogus de dolore, e si compiaceva che le virtù di lui superassero quelle dei grandi della romanità, come la giustizia di Bruto, la costanza di Decio, la continenza di Scipione, la fedeltà di Marco Regolo e la magnanimità di Paolo Emilio. A farla corta, il buon Torella credeva di poter dire al suo duca: Tu es imus qui nostrum exornas saeculum!

       La dedica é riport. nei Documenti al n. 22.

    E oltre questi vescovi, gli andavano dietro letterati ed artisti che volentieri abbandonavano le quiete cure delle professioni loro per lo strepito dell' armi e le brighe dei pubblici negozi. Vi erano Agapito Gerardino, Vincenzo Calmela, Pier Francesco Justolo, Francesco Sperulo, Battista Orfino ed altri dell'accademia di Paolo Cortese, segretari, commissari e poeti di Cesare. E con loro forse sarebbe andato anche Antonio Cammelli, se le feste romane non gli avessero guastato la salute. Alla morte dell'Aquilano egli aveva sperato di ottenerne il posto, siccome ne aveva ereditato le "facezie ;" ma per la malattia sua e per la partenza del duca, gravandogli di attendere, poco dopo ritornava in Ferrara dove aveva lasciato i figliuoli, la moglie e le amiche, ad una delle quali annunziava "essere eletto fra i baroni di Francia e caricato di mille bolle senza però aver dal papa un benefizio."

       Sonetti giocosi di Antonio da Pistola pub, nella Scelta di curiosità letterarie, Bologna 1865.

    Anche lo scultore Pier Torrigiano volle seguire il duca in Romagna. Questo fiero artista non aveva bisogno di essere sviato "da alcuni giovani fiorentini" per farsi "in un tratto" di scultore soldato, come narra il Vasari, perché egli già aveva fatto con Paolo Vitelli la guerra di Pisa. Egli allora aveva avuto da scolpire le statue per la libreria Piccolomini di Siena, ma per la smania di partire lasciò il lavoro appena incominciato, tanto che poi una di quelle statue si obbligò a finire Michelangelo Buonarroti, suo competitore e nemico. I due artisti non si eran più riconciliati dopo una baruffa avuta fra loro da fanciulli, nella cappella di Masaccio in Firenze, dove andavano ad imparare. B. Cellini che vide 11 Torrigiano nel 1518, e che non poteva patirlo per i suoi vanti di aver dato un pugno sul naso al "divino" Michelangelo, così lo descrive: "Era di bellissima forma, aldacissimo. aveva più aria di gran soldato che di scultore, massimo a' sua mirabili gesti ed alla sua sonora voce, con uno aggrottar di ciglia atto a spaventar ogni uomo da qual cosa.

       Vita di Benvenuto Cellini scritta da lui medesimo, lib. 1°12 e 13.

    Un mese dopo la partenza del duca, in dicembre, anche Michelangelo lasciava Roma, richiamato a casa dal padre per domestici affari ;

       V. la lettera 19 dicembre 1500 nella Vita di Michelangelo Buonarroti di Aurelio Gotti, Firenze 1875.

    né per alcuni anni più vi ritornava. I lavori della libreria di Siena e del David lo ritennero in patria fino al papato di Giulio II.
     Ma l' impresa di Romagna, se fu causa che un artista fosse distolto dall'arte, fu pur causa che un altro artista le fosse ridonato. Bernardino Benedetti da alcuni anni viveva in Perugia, quasi ritirato dall'arte, a godersi con la famiglia numerosa due tenimenti che il papa gli aveva donato nel Chiugino in ricompensa dei lavori del castello e della torre Borgia, per i quali lo ave va dichiarato "benemerito di lui e della Sede apostolica." Ora nel passaggio del duca, il Pinturicchio gli chiese che gli fosse concessa una cisterna che forse per quei fondi gli era necessa ria: e il duca non solo lo compiacque, ma volle riprenderlo a' suoi servigi, pensando che in verun altro modo egli poteva mostrarsi grato all'arte fice, che di tanta bellezza aveva illustrato i fasti di casa Borgia. Cesare scrivendo il 14 ottobre al vicetesoriere di Perugia, gli ordina che l'uso della cisterna sia concesso al Pinturicchio "qual sempre (dice) avemo amato per le virtù sue e l'ha vemo nuovamente riducto a li servizi nostri." ' ' Questa lettera 14 ottobre 1500 é cit. nelle Mem. di A. Alfani di Or. C. Conestabile.

  • II.

     La grandissima pioggia sotto la quale il duca giunse, nel contado di Perugia, rendendo più dif ficili le strade alle artiglierie, gli fece tenere per quattro di il campo nei castelli di Diruta Torsciano e Bettona. Furono a trovare il duca in Diruta i Baglioni e gli Anziani di Perugia. Nella cronaca attribuita al Matarazzo si racconta, che "in questo mezzo una notte venne al duca la chiave de Arimino, ché molte dissero che lui l'aveva comprato; e finaliter, fu fatta una grandissima allegrezza, de foce, de campane e de scoppie de artiglierie." Saputa la partenza di Cesare da Roma, il 5 ottobre aveva Pandolfo Malatesta mandato a Bo logna per la via di Ravenna e di Lugo la moglie Violante ed i figliuoli alla corte dello suocero Giovan Bentivogli, ed egli si era chiuso nella rocca disperato omai di potersi sostenere, mancatigli gli aiuti veneziani che gli erano stati promessi. Sul popolo non poteva fare alcun conto. Quando il 7 ottobre il Consiglio gli mandò Simon Paci ed altri nobili a chiedere quali fossero le sue intenzioni, egli rispose che avessero fatto il vantaggio loro, essendo per approvare la risoluzione per essi presa. Si dice anzi che Pandolfo mandasse al duca il segretario Giovanni Postumo ad offrirgli a nome suo e la città e gli averi. Il Consiglio allora trattò la resa, e inviò i suoi procuratori al vescovo Olivieri luogotenente generale in Cesena che — stabi liti i patti preliminari dal commissario ducale Roberto Bencini cesenate — si recò in Rimini, e il 10 ottobre nella rocca da lui e da Pandolfo fu firmato l' atto della cessione. Il Malatesta ottenne di partir libero con i suoi famigli e le sue robe da Rimini, si obbligò a consegnar la rocca e le artiglierie che gli dovevano essere pagate a stima, in fine domandò che tutti i Riminesi fossero salvi nelle robe e nelle persone, ottenuto prima che i suoi ribelli non rientrassero in città fin tanto che egli vi rimaneva.

       La capitolazione é nei Docum. al n. 19. — Nella Biblioteca Gambalunga di Rimini si conservano altri atti che riguardano la resa; da uno appare che il sostituto procurator ducale Bencini il dì 8 ottobre ebbe da Pandolfo in feudo Castel Leale.

    Nei patti preliminari il Bencini gli aveva promesso di pagargli duemila e novecento ducati, oltre il prezzo delle munizioni e delle artiglierie. Nello stesso di, 10, Pandolfo consegnò la rocca di Rimini; quelle di Sarsina e di Meldola furono ricevute da Baldassare Morattini, altro commissario ducale. Pandolfo si imbarcò tosto per andar per mare a Ravenna, dove gli dovevano essere pagati i denari. Tanto era l'avvilimento in cui era caduto, che dimentico di ognì dignità, si racconta, che essendo già in nave, scrisse molto calorosamente a Rimini che gli fosse rimandato un cane, del quale nella partenza si era dimenticato.

       Raccolto isterico di Rimini, di C. Clementini. Rimini 1617.

    Fileno dalle Tuate, quando vide arrivare in Bologna il Malatesta e la moglie notò nella sua cronaca: "Non volseno spoetare questo figliolo del papa, e questo perché se àno fatto si ben volere a li popoli soi."
     Giovanni Sforza più ardito sperò di sostenersi in Pesaro, se gli restava fedele il popolo : ma l' 11 ottobre, una domenica, alcuni giovani gridarono per le vie il nome del duca, e tutto il popolo corse alle armi. Sforzino con pochi de' suoi si ricoverò nella rocca e nella notte fuggì per mare a Ravenna, accompagnato da un capitano Albanese che gli era stato dato dal marchese di Mantova. Giunto a Bologna, pentitosi della sua fuga, invocò soccorso dal Bentivogli che pure non si sentiva sicuro della protezione francese e aveva comandato tutti gli uomini del contado e della città. E il 19 ottobre scrisse al marchese di Mantova pregandolo a volergli spedire 300 uomini d' arme, con i quali si prometteva di riprendere Pesaro. Ma mentre egli invocava i soccorsi, la città era già stata presa per il duca. Da Rimini con solo 30 o 40 cavalli vi era andato Ercole Bentivogli, e a lui subito Galeazzo Attendolo da Cotignola fratel naturale di Giovanni aveva consegnato la rocca. Si era convenuto che le artiglierie e le munizioni sarebbero state pagate per quello che le avrebbero stimate i commissari ; ma non avendo questi potuto accordarsi, furono caricate su navi e portate a Ravenna. Con le robe più preziose Galeazzo condusse ad Urbino la madre e la figliuola del fratello.

       V. i dispacci di S. Calandra da Urbino 21-24 ottobre 1500.

     Cesare ricevette gli oratori pesaresi che andavano ad offrirgli la città, prima forse di giungere a Fossato, un castello degli Appennini posto sulla strada che da Foligno conduce a Fano. Giunto a Fossato, il duca seppe che nella rocca erano detenuti alcuni prigioni e domandò di averli; ma quelli abitanti glieli negarono, onde fece espugnare la rocca e mettere a sacco il paese. Dal Matarazzo, o dall'autore della cronaca perugina a lui attribuita, si aggiunge che il duca entrato nella rocca "cum suoi proprie mani abrusciò ciò che vi era dentro." II Justolo nel terzo panegirico dice a Cesare:


                                   ..........dederunt
    Exitio meritas multo cum sanguino poenas,
    Major ut a minimo discat tua signa vereri;

    ma il Matarazzo narra che di questo ebbe assai dispiacere Gian Paolo Baglioni, forse perché quei prigionieri liberati erano di fazione a lui contraria, e che "incominciò a venire in dissensione cum lo duca," sebbene Paolo Orsini insieme li riconciliasse. — La nuova di questo assalto andò avanti al campo del duca, impaurando tutti i luoghi per i quali egli aveva a passare, diffusa e ingrandita da coloro che non senza inquietudine lo vedevano calare in Romagna con un esercito così numeroso e con tanta fortuna e tante minaccio ; onde si comprende come Silvestro Calandra agente mantovano in Urbino, narrato il sacco di Fossato, scrivesse : "A questo medesimo dubito devon venire Sassoferrato e tutti li castelli dove haveranno a passare; et se dice per certo, eh' el duca ha promesso de dare Pesaro a saccho a le sue gente d'arme." Ma subito discopre la sua parzialità, quando compiacendosi dei guasti patiti dai Pesaresi, aggiunge: "Gli cominzano già a darli de li fanti che meritano per la fedeltà sua... Questo che li vien fatto al presente sono rose, veniranno poi alle fructe."
     Guidobaldo di Urbino, Giovanni Bentivogli ed i Fiorentini, a quel rombo d' armati che udivano ai lor confini, temettero che il duca non volesse solo andar contro Faenza, come aveva annunziato, ma che volesse riprendere tutte le altre città che di diritto appartenevano alla Chiesa. Ed erano i suoi soldati che mettevano tanti sospetti, i Baglioni a Guidobaldo, i Malvezzi al Bentivogli, gli Orsini ai Fiorentini: Vitellozzo diceva di voler andare a Borgo S. Sepolcro "con speranza di fare la vendetta del fratello," e gli Orsini vantavano di voler rimettere Pier de' Medici loro parente in Firenze. Si diceva anche che il duca aveva fatto a dire ad Ercole d'Este di voler Lugo e Bagnacavallo. "per amore o per forza" e forse anche Ferrara. Ma tanti sospetti non erano per giovare al duca, e gli dovevano far disturbare la sua impresa, cominciata con tanta facilità.
     Per far cessare quelle inquietudini, Cesare scrisse lettere ai signori amici annunziando il suo arrivo in Romagna, per intendere le intenzioni loro e per avvertirli che non fossero per soccorrere il Manfredi. Guidobaldo gli mandò in campo un m. Angelo da Cagli suo cancelliere a congratularsi con lui dei buoni successi ed a proflerirsegli in quanto abbisognava. Poi, perché aveva inteso che i Baglioni volevano andar contro il castello di S. Lorenzo di Ottavian Fregoso suo nipote, Guido glielo fece raccomandare, e il duca gli rispose che "serà securo e senza lesione alcuna." Gli fece ancora raccomandare la Comunità di S. Marino che l'anno prima aveva spedito fanti in soccorso a Giovanni Sforza : e il duca rispose che non avrebbe mai comportato che né S. Marino, né altri luoghi che avesser dipendenza da Guido fossero molestati, anzi promise che li "baverà in protectione, per amore et respecto de la Signoria sua."

       Disp. di S. Calandra, 24 ottobre 1500 da Urbino.

    Con queste risposte il duca voleva mostrare di essere "bon fratello" di Guidobaldo, e di poter contenere i suoi soldati, dai consigli dei quali si temeva che egli fosse per essere trascinato alle più arrischiate imprese.
     A Fossato, lasciò che Vitellozzo e gli altri condottieri prendessero la via di Fossombrone con le artiglierie, a trascinare le quali il duca di Urbino mandò cento buoi, ed egli per la strada di Fabriano con i cavalli leggeri se ne andò direttamente a Fano, dove arrivò la sera del 22. Era questa città dal di che venne levata al dominio malatestiano, retta da governatori della Chiesa, e pareva vivere contenta dei privilegi ottenuti . senza più desiderare altro signore. Il duca vi stette cinque giorni per dar tempo ai suoi di raggiungerlo, e forse anche per vedere se i Fanesi si davano a lui; ma perché egli non li chiese, essi non se gli offersero. L'orator ferrarese Pandolfo Collenuccio narra in proposito : "Dicono loro ch'el papa li commise che de Phano non se impacciasse se li cittadini proprii non lo domandavano: così son rimasti nel stato che erano."

       Disp. di P. Collenuccio, 29 ottobre 1500 Pesaro.

     Il duca entrò in Pesaro la sera del 27. Alla, porta lo ricevettero gli Anziani e gli presentarono le chiavi della città; tutto il popolo gli era uscito incontro : al Collenuccio, che giunse la sera stessa in Pesaro, riferirono i suoi, che "fece la entrata molto solenne." sebbene cadesse una gran pioggia. Avvisato dell'arrivo dell'oratore di Ercole d'Este. il duca mandò subito a visitarlo don Remiro di Lorqua suo maggiordomo ed a fargli intendere che aveva assai cara la sua venuta, e il- dimani gli inviò un presente di vino, e di confetti, scusandosi di non potere riceverlo, perché andato a veder la rocca vi stette fino a notte. Il 29 datagli udienza, "con molta dimestichezza et optima cera," si scusò di nuovo e gli raccomandò di ringraziare Ercole della risposta fatta alla propria lettera e dell'invio di lui oratore, dichiarando di aver sempre desiderato una "più intrinseca amicizia" con l'estense. Pandolfo notò che nel discorso il duca nominò sempre Ercole per padre e sé per figliuolo. Entrati a parlare delle cose di Faenza, Cesare disse: "Io non so quello vorrà fare Faenzia: ella ce vorrà dar poca faticha come han fatto queste altre, o pure vorrà far prova di tenerse ?" E l'ambasciatore per complimento, gli rispose che "pur quando non lo facesse, non era se non ad honore de sua Sig." che darla occasione de poter mostrare la virtù et valor suo nell' expugnarla." Di Bologna non occorse ragionamento.
     Il duca di Ferrara, perché a Cesare fosse più grata l'ambasciata, gli aveva mandato Pandolfo Collenuccio pesarese, che Giovanni Sforza aveva fin dal 1489 cacciato in esiglio, uomo di grande riputazione fra i giureconsulti ed i letterati del suo tempo: lo Sforza lo aveva cacciato per togliergli i beni e per disfarsi di un consigliere che alla morte di Costanzo gli aveva fatto ottenere la investitura del vicariato. Durante il lungo esiglio, era stato podestà e capitano di giustizia in varie città d'Italia. Lorenzo de' Medici lo aveva occupato in diversi importanti uffici, e ultimamente lo aveva preso al suo servizio Ercole d'Este. Il Poliziano che lo conobbe in Firenze, ne aveva ammirato la versatilità dell' ingegno. Nella corte ferrarese dettò con critica nuova un Compendio delle Historie del Regno di. Napoli, meritevole di essere ristampato più correttamente : tradusse comedie di Plauto in metro eroico per la rappresentazione : e compose prose e versi, dei quali la canzone alla Morte bastò a trarre il nome di lui dall'oblio immeritato.

       Notizia intorno la morte di Pandolfo Collenuccio, cont. negli Opuscoli del conte G. Perticar i, Lugo 1835.

     Dopo tanti anni ritornato nella sua Pesaro, il Collenuccio, fra le carezze dei parenti e le liete accoglienze dei cittadini, sentì una gioia eccessiva al vedere la patria liberata dal tiranno; ma la turbarono le preoccupazioni della incerta sorte, alla quale egli vedeva destinata Pesaro. Non sapeva se il duca l'avrebbe tenuta per sé, oppure se consentiva che il papa la concedesse in dote a Lucrezia da maritare ad un italiano : e quella incertezza gli dispiaceva. Nella relazione della sua ambascierfa egli si mostra grato al duca delle "molto honorevole parole" fattegli dire al suo arrivo e delle gentilezze usategli ; ma perché lo vede non curarsi di Fano che non domanda e di Pesaro che non gratifica, fa questo giudizio di lui : È "tenuto animoso, gagliardo e liberale : et che tenga bon conto de nomini da bene. Aspro in le vendette : così ho informatione da molti. Animo vasto et cerca grandezza e fama ; par che curi più lo acquistar de stati, che stabilirli e ordinarli." Sembra insomma che al Collenuccio dispiaccia che Cesare tardi a dichiararsi signore di Pesaro. e che voglia averne la conferma dal papa, prima di conceder privilegi alla città: pare quasi che egli abbia fretta di congratularsi con lui della cacciata del tiranno, e di presentargli la supplica per riavere i suoi beni confiscati.

       La supplica é nei Docum. al n. 33.

     Mentre il duca si tratteneva tanti giorni in Fano ed in Pesaro, Astor Manfredi aveva tempo di prepararsi alla difesa. Dopo essere stato abbandonato dai Veneziani, parve che anche Astorre avesse a partirsi da Faenza, prima di essere assalito dal duca, e ritirarsi o a Ravenna od a Ferrara dove aveva già mandato molte delle sue migliori robe : egli come gli altri vicari, non aveva da fuggire l'odio del popolo; ma era disposto a lasciar Faenza, perché non intendeva di essere causa della ruina della città. Ma l'aiuto gli venne donde meno sperava.
     Giovanni Bentivogli, sebbene in luglio con gravosissimi patti avesse riottenuta la protezione francese, aveva assai a temere che il duca, occupata Faenza, per un segreto accordo col re non fosse per assaltare anche Bologna; onde per assicurarsi, in questi mesi, egli aveva fatto pratiche con i Signori vicini, e si era ristretto con i Fiorentini, i quali volentieri gli promisero aiuti se egli mandava loro un esercito al desiderato acquisto di Pisa. Il trattato fu rotto dal re. il quale per non perdere i 40,000 ducati della convenzione, non volle che altri si interponesse nelle cose dei Fiorentini : ma questi non cessarono di favorire il Bentivogli, riav vicinati dal comune pericolo. Giovanni allora, ai primi di ottobre, mandò un suo oratore alla Corte del re a far intendere il pericolo grande in cui era, ed a chiedere se per trattenere il duca, poteva dare aiuti al nipote di Faenza. Come era uso alla Corte di Francia, che aveva da difendere tanti confederati, la risposta fu doppia. Prima, da consensu regis fu scritto che il Bentivogli poteva per il debito suo di parente soccorrere Astorre. Poi, il re stesso rispose all'oratore che non avrebbe mai acconsentito che i suoi confederati fossero andati contro il duca ; ma tosto soggiunse che quando il pontefice volesse far contro il Bentivogli, egli vorrebbe udire le ragioni di ambedue e dare il torto a chi l' avesse.

       "Che quando il Pontefice venisse a questo particolare di voler fare contro a mes. Giovanni, che sua Maestà vorrebbe udire le ragioni del papa e sua, e dare il torto a chi lo avessi". Disp. di N. Machiavelli, 25 ottobre 1500 da Nantes.

    Questa promessa lo fece assai ardito, perché, mentre gli forniva modo e tempo di provvedere alla propria salute, restringeva assai il senso della clausola dei diritti della Chiesa, contenuta nella protezione, per la quale il re si era obbligato a difenderlo.

       La clausola é questa: "Juribus tamen Sac. Rom. Ec. et Ap. Sedis ac eorum auctoritate in omnibus semper salvis".

     II figlio di Francesca Bentivogli pertanto vide giungere in Faenza il conte Guido Torello suo padrigno, che da parte dell'avo gli andò ad offrire soccorsi di denari e di armati per difendere la città. Il conte propose agli Anziani che Astorre fosse mandato in salvo a Venezia ; ma essi non vollero, perché lui partito, i cittadini non avrebbero più sostenuto l'assedio, al quale si esponevano solo per l'amore che portavano al giovane signor loro.

       Cronica civitatis Faventiae.

    E li incitò alla difesa anche il vescovo Gio. Battista de' Canonici bolognese, non troppo obbediente all' interdetto che fin da luglio era stato posto in Faenza. Sebastiano di Zaccaria, piuttosto che celebrar messa, aveva patito di essere cacciato dalla città ; ma nei quattro mesi dell'esiglio un gran cambiamento accade in lui. Egli si ribella all' autorità del papa, e trova che, per sentenza di buoni canonisti, per se stesso l'interdetto é apertamente nullo ;

       "Nunc vero nonnullorum sane sentientium et eruditio, et experientia me docuit interdictum aperta ratione esse nullum". Ep. ad Bapt. de Canonicis Fav. Epo. Ex Lugo XV Kal. nov. 1500.

    allora il 18 ottobre scrive al vescovo, pregandolo a voler intercedere per lui il richiamo dall' esigilo, perché egli vuole servire al suo principe, al quale non senza grave molestia del cuore egli dice di avere disobbedito.
     In queste pratiche, il 24 ottobre, giunse in Bologna un mandatario del papa con un breve che comandava sotto pena d'interdetto e di maledizione, che nò il Reggimento, né Giovan Beritivogli s'impacciassero nelle cose di Faenza; ma il breve non fece che sollecitare l' invio di altri aiuti al Manfredi. Il 25 furono mandati a Castel Bolognese 600 fanti, con ordine che là giunti, se ne fuggissero in Faenza;

       "Poi tutti se ne fuzino in Faenza, che così era ordinato" Cron. ms. di F. dalle Tuate.

    in tal modo ve ne erano stati messi più di 1.000. Né il Bentivogli badava solo a soccorrere il parente, ma anche ad assicurare se stesso. Aveva per capitano de' suoi uomini d'arme il conte Nicolo Rangoni di Modena, marito di una sua figliuola; a lui affidò la guardia della città ; e a Castel Bolognese man dò il conte Rinuccio da Marciano, che il 25 era giunto da Firenze con 100 uomini d'arme e 50 cavalli leggieri. Perché il conte era stato capitan generale dei Fiorentini, la sua andata in Bologna fece dire al cancelliere Fileno dalle Tuate: "Se crede sia in nomine de Fiorentini, perché questo é el più fidato soldato che loro abino, e non poco ànno fatto questo per amore che ci portino, ma per lo interesse proprio. Che dicono come ano Faenza voleno mettere li Medici in Fiorenza e maxime che con lo figliolo del papa sono li Ursini parenti de' Medici." E il buon Fileno non era in errore.
     I Fiorentini, avendo perduta la grazia regia, fin dai primi di ottobre eransi impauriti di quell'esercito ai loro confini, nel quale vedevano tanti loro nemici ; e avevano scritto agli oratori in Francia che notificassero che se "altri" cercasse di offenderli con Orsini e Vitelli, essi ricercherebbero di difendersi. E inteso in che punto stavano le cose del Bentivogli. si valsero della doppia risposta data all'orator bolognese, e lasciarono partire il conte Rinuccio. Appare chiaramente tutto questo dai dispacci di N. Machiavelli oratore alla corte di Francia. Fu allora che il gran segretario, trovandosi ai primi di novembre in Nantes, ebbe a parlare col card. di Roano della politica francese in Italia ; del quale discorso, nel libro del Principe, rammentò due motti, belli, ma non interamente veri: "Dicendomi il cardinale che gl'Italiani non s'intendevano della guerra, io risposi che i Francesi non s' intendevano dello stato : perché intendendosene non lascerebbono venire la Chiesa in tanta grandezza."

       II Principe cap. 3. — 11 discorso del Machiavelli al card. di Rohan fu tenuto tra il 25 ottobre ed il 4 novembre 1501 data dei dispacci da Nantes.

    Per quell'andata del conte Rinuccio, Alessandro VI fece querele assai, dicendo che i Fiorentini lo avevano licenziato per disturbare l' impresa di Faenza, al cui signore (aggiungeva) avevano dato danari per difendersi ; ma a loro" per iscusarsi bastò dire che il conte era partito da Firenze di sua volontà, essendo la sua condotta finita fin da maggio. Essi poi con migliore ragione si dolsero delle minaccie degli Orsini e ottennero che il re mandasse a significare al duca, dispiacergli che nell'esercito suo si ragionasse di andare o con ribelli o con altri a danni de' Fiorentini, "il che sua Maestà non é per comportare in alcun modo." E per intrattenere il duca, gli mandarono in campo m. Pietro Del Bene suo conoscente ed amico.
     Da Pesaro intanto, dopo avervi lasciato un dottor forlivese suo luogotenente, il duca nella sera del 29 ottobre andò a Gradara. e di là a Rimini dove giunse ad ore 3 di notte del 30. Nel passare da S. Marino, i capitani di quella Comunità gli mandarono un presente di vino e di cibi con un' onorevole ambasciata per la protezione da lui promessa. In Rimini stette due di, nei quali attese a riordinare la città. I fuorusciti ed i ribelli dei Malatesti non erano stati ancora richiamati, perché si diceva che i Riminosi non volessero accettarli per paura di loro ; ma il duca restituendoli alla patria, operò che fra le parti fosse giurata una solenne pace, di cui fu fatto rogito dal notaio Giuseppe Catani.

       Fu letto dal Clementini che lo cita nel Raccolto istorico.

    Il 2 novembre andò quindi a Cesena, e vi stette altri due dì. I liberti, che gli avevano procurato il dominio della città, gli fecero la maggior festa; Achille Tiberti con 25 balestrieri a cavallo lo accompagnò, e Dario poeta laureato gli presentò un carme, in cui alle lodi della città volle unir quelle del nuovo signore: nel partir da Cesena, egli pubblicamente disse al vecchio Polidoro di volere essergli raccomandato.

       "Discessurus Polidoro Tiberto dixit : Commendattmi me tibi volo". Diar. Caesen.

    A Roberto Bencini confermò la donazione di Castel leale e di Caminate, che gli aveva fatto Pandolfo Malatesta quando trattò la resa di Rimini.
     L' autore del Diario dice che il duca quando entrò in Cesena, era aeger laborcmsque oculorum morbo ; ma certo il 4 novembre andando a Forli non era ammalato. Al passo del Montone, il cui ponte era rovinato, i soldati si affollavano alla riva, contrastandosi la piccola barca che sola vi era: ma al giungere di Cesare cessarono le grida. Il Justolo narra:


    Dat tibi turba locum, summa tu margine constans
    Sublimi descondis equo, nec velleris inde,
    Quamvis crura luto titubarent mersa profundo,
    Quam prius exigua numerosas puppe cohortes
    Agmine pacato transgressas videris omnes.


     E il panegirista aggiunge:


    Tum diffusa tui Liri te tecta receptant,
    Accensis facibus noctem pellentibus atram,
    Et populi pulsante poli cava sidera plausu.


     Non era ancora il campo sotto Faenza, che Vitellozzo Vitelli si spinse nella valle dell'Amone ad occupare Brisighella. che il 7 novembre fu sua; la rocca vecchia fu presa, e la nuova fu data per accordo. Erano con lui Vincenzo e Dionigi di Naldo, capi di parte nella valle, i quali per antiche inimicizie coi Manfredi fecero ribellare tutte le terre di loro dipendenza; nella rivolta i Buosi loro nemici ebbero bruciate le case, e alcuni furono inseguiti fino a Castrocaro dove si erano rifugiati. La perdita della valle fu di grave danno ai Faentini, ma non li fece disperare della difesa che avevano giurato al loro pupillo. Anzi dubitando della fedeltà del castellano Nicolo Castagnini, — poiché nelle fosse della rocca si disse trovato un trattato di resa che a lui con una balestra era stato gettato — gli Anziani lo fecero sostenere, e ne sequestrarono i beni. E misero nella rocca quattro dei loro con Giovanni fratel naturale di Astorre : questi vi era il di 13 novembre, avendolo ivi visitato Sebastiano di Zaccaria, il quale finalmente aveva potuto ritornare in Faenza per assistere a quella bella difesa da lui stesso narrata.
     Si accampò il duca dalla parte del borgo, fra i fiumi Amone e Marzano, e vi fece atterrare alcune case, affinché le artiglierie potessero batter meglio il bastione, per il quale egli voleva penetrare nella città. Il giorno 20, le artiglierie continuavano a battere, quando ad un tratto cadde la maggior parte di quel torrione ; onde alcuni soldati per il desiderio di esser primi ad entrarvi, creduto il momento dell'assalto, vi corsero disordinatamente, seguiti da moltissimi altri. Il duca che era a desinare, udito il rumore nel campo, corse subito a farli rientrare negli alloggiamenti, ed a grande fatica lo poté per "il lor grande ardore." Questo caso é narrato in una lettera a Guidobaldo d' Orbino, dallo stesso duca, il quale aggiunge che vi morirono solamente quattro dei suoi, fra i quali il signor Onorio Savello, percosso in principio da uno de' cannoni ducali che tiravano in quella parte;

       La lettera é nei Docum. al n. 21.

    ma come credette l'agente Calandra, forse la cosa fu con maggiore pericolo e detrimento del duca. Nelle cronache faentine si narra che in quell'assalto, respinto valorosa mente dai cittadini, una donzella, Diamante di Bartolomeo Torelli, prese l' asta ad un banderaio che piantata l' aveva sugli spaldi, e lui ricacciò giù dalle mura. In quella lettera il duca dice sperar prossima una battaglia ordinata ; ma non poté essere data. Le grandissime nevi cadute in quei giorni, la pe nuria delle vettovaglie, così disagiato fecero l'al loggiare in quei luoghi che senza far altro pochi dì dopo, il 26 novembre, l' esercito dovette abbando nare l'assedio. F. Guicciardini, narrata la resi stenza dei Faentini con particolari che mancano alle cronache romagnuole e toscane, termina di cendo che il duca "pieno di sommo dolore" che i Faentini avessero resistito ad un esercito forte come il suo, partì "giurando efficacemente, et con molti sospiri che come prima che la stagione lo comportasse tornerebbe alla medesima impresa, con animo deliberato di riportarne o la vittoria o la morte." l Ma i cronisti non fanno cenno di tutto ciò. Del resto il duca non abbandonò totalmente l'assedio, poiché egli ridusse l'esercito nei luoghi vicini per tenere stretta la città e continuamente molestarla. Mandò anche ai Sedici di Faenza Vin cenzo di Naldo con proposte di resa ; ma quegli intrepidi in un parlamento fatto all' Osservanza

     

    1 I cronisti ammettono tutti che l' assedio fu levato per i di sagi della neve e la mancanza delle provvigioni. 11 Buonaccorsi dice che "al duca era quasi impossibile potervi soprastare col campo". E Fileno che "per li mali tempi s'era livato da lo assedio". 10 — 146 — il 3 di dicembre risposero di volere esser fedeli al loro signore, perché "avevano concluso in un con siglio generale di difendere il dominio de' Man fredi sino alla morte." ' Levatosi da Faenza il duca, andò in Forlì dove era il 5 dicembre, quando vi giunse il card. di Santa Croce che andava legato in Ungheria: egli lo accompagnò con la sua corte e gli fece gli onori della sua nuova signoria. Viveva in questi anni in Forlì Andrea di Bernardo , l' autore della cronaca più volte nel rac conto citata, altrimenti detto Andrea Novacola dalla sua professione. Egli si era dato a scrivere le storie di Fórlì, delle quali lasciò due libri an cora inediti, pregevoli per la grande sincerità di giudizio che vi si nota, — narra i fatti che vide succedere sotto il dominio di Caterina Sforza o sotto quello del duca. Il suo dire non é elegante e vivace come quello di Leon Cobelli morto pochi mesi prima, dopo aver visto la ruina di colei che gli aveva fatto patire il carcere ; ma é molto pre ciso, perché egli si mostra solo curante della esattezza del fatto che narra. Non forlivese poté essere imparziale ; e se nel 2° libro glorifica il suo nuovo signore, nel 1° disse di Caterina il bene che seppe. E di pochi studi, ma gli é fatto merito della buona intenzione di illustrar le memorie della città adottiva. Nella sua Historia é notevole la descrizione dei segni astrologici, che egli fa pre ' Cronica civitatis Paventiae. — 147 — cedere ai fatti che narra, per farne giudicare la buona o la cattiva sorte. In Romagna l'astrologia aveva ancora seguaci. In questi anni Antioco Tiberti cesenate scriveva un trattato De Chiromantia , e Girolamo Salio faentino mandava a Domenico Maria Novara in Bologna un libro De nobilitate Astrologiae ; ma il dileggio che il Fico aveva fatto di Jeronimo Manfredi astrologo di Pino Ordelaffi si rinnovava: Antioco Tiberti prediceva l'esiglio a Pandolfo Malatesta, ma non prediceva a sé la morte, che il Malatesta gli avrebbe fatto subire. — Forse il Bernardi traeva i suoi dai Pro nastici che ogni anno il maestro del Copernico pubblicava nello Studio bolognese. Essendo il duca in Forlì. Andrea Bernardi do mandò di potergli presentare l'opera sua, non tanto per speranza di premio, quanto per desi derio di lode. E il duca compiacendolo, il 21 di cembre, fece mandare per lui, e lo ricevette in una sala del palazzo, alla presenza di molti si gnori e baroni e de' suoi cancellieri. Veduta l'o pera, Cesare volle che anche gli altri la vedes sero e la esaminassero ; dopo che determinò (come il Bernardi dice) di volere collegiarlo vero istorico, e gli fece rilasciare una patente di esenzione da ogni onere e gravame, affinché meglio avesse po tuto attendere al suo scrivere. Nel diploma re datto quel di stesso, con le lettere maiuscole fatte d'oro, sono notate le ragioni, per le quali il duca aveva fatto quella esenzione. ' Né fu cosa straor

     

    1 II diploma é rifer. nei Docum. al n. 22. — Il Bernardi dice: — 148 — dinaria. Pochi anni dopo, nel 1505, i Conservatori di Forlì insignivano il Novacola di un ben maggiore onore, perché dopo avergli commesso di continuare le sue storie, gli ingiungevano di astenersi dalle opere mercenarie, e lo incoronavano di alloro. Per quell'onoranza conceduta dal duca a maestro Andrea, Francesco Sperulo fece questo epigramma, disse in lode : Spernantur calami: studiorum gloria cesset, Postquam res gestas sola iiovacla notat. E in vero al Novacola non sarebbe toccato un tanto onore, se in Romagna al mancare delle splendide signorie degli Ordelaffi di Forlì e dei Malatesta di Rimini e di Cesena, non fosse an che mancata l'opera letteraria. Tutti i migliori, letterati giureconsulti medici, erano fuori; ben pochi ne erano rimasti, ma cercanti onore altrove, come Bario Tiberti incoronato poeta da Guidobaldo duca d'Urbino. Codro Urceo che tanti discepoli ed ammiratori aveva lasciato in tutta Romagna, alla morte di Pino si rifugge a Bologna. Nel 1498 Dario Tiberti, gli manda un libretto De legitimo amore che gli merita dal maestro l'elogio di "poeta peritissi mo ;" Francesco liberti scambia con lui qualche epi gramma: ma quando Nicolo Masini medico lo invi ta in Cesena, egli risponde con un carme di lodi a Bologna. l I cinque figli di Flavio Biondo forli "Egli era in carta caureata cum le litre majuscule fate de oro fine, e sigillata com el sigillo grande, cioé apostolico e regale, e qui ligate come se liga le bolle episcopali".

     

    1 Antonii Codri Urcei Opera, Bononiae 1502. — 149 — vese, dei quali egli nell'Italia illustrata tanto si compiaceva, perché "tutti per l' età loro pieni di lettere" erano a Roma, in cariche di corte. E a Roma nel dicembre del 1500 moriva Carlo Verardo cesenate, autore di varie rappresentazioni sceniche, stato segretario dei brevi da Paolo II ad Alessandro VI : gli erigevano il sepolcro i nipoti Camillo cavalier pontificio, Sigismondo e Ippolito: Marcellino stendeva in versi esametri il suo Fernandus servatus. ì Fausto Andrelino forlivese era poeta regio alla corte di Francia. Incoronato poeta in Roma per le sue Lima, fin dal 1486 abban donava la patria, e da Carlo VIII aveva una cat tedra di lettere nello Studio parigino: fece un poema per Carlo De viatoria Neapolitana, e un altro si disponeva a farne per Luigi. ~ Antonio Cittadini faentino era ritirato a Fer rara fin dal 1495, glorioso di aver insegnato me dicina e filosofia in Ferrara e in Pisa. "filosofo insigne" detto da Giovanni Fico nelle polemiche sul trattato De ente et uno. Per le università d'Ita lia, i suoi discepoli ne diffondono la dottrina, come quelli dell'imolese Alessandro Tartagni ne diffon dono la critica delle pandette : in Ferrara hanno cattedra di diritto Alessandro da Faenza, Gian Francesco Buti da Cesena, Nicolo da Faenza; e in Ferrara e in Padova hanno cattedra di filosofia

     

    1 Di Camillo Sigismondo e Lattanzio Verardi si conserva un codice ms. nella Biblioteca dell'Università di Bologna. 2 De Neapolitana victarla, Parisiis 1496. De secunda victorio, Neapolitana, Sylva Parisiis 1502. — 150 — e medicina Francesco da Forlì, Pier Nicolo Castel lani faentino e Antonio da Rimini, e in Roma Bartolomeo Tigrini imolese.
     E i partiti non più ritornavano, se non per pochi istanti, come l' imolese Giovanni Antonio Flaminio, che reversus in patriam dopo una lontananza di venticinque anni, ripartì subito per la sua Serravalle, dove nel 1497 gli era nato il figlio Marc' Antonio.

       Ioannis Antonii Flaminii Epistolae familiares. Fur. stampate nel 1744 in Bologna.

    I partiti dimenticavano tutti la loro Romagna. Pareva che un triste fato attendesse quelli che ritornavano: nel 1491 é mandato in Cesena Gaspare Biondo, figliuolo di Flavio, a comporre una lite del conte Guido Guerra da Bagno, ma é ammazzato alla Cattolica. Ritorna di Francia Antioco Tiberti, medico e chiromante onoratissimo, ma per trovare la morte ; Pandolfo Malatesta lo fece uccidere per suggestione, dicesi, dello suocero Giovan Bentivogli : il suo cadavere fu trovato nella rocca di Rimini dal commissario del duca che ne prese possesso.
     In tanta mancanza, non é meraviglia se la nuova signoria di Cesare parve dar cenno di nuove speranze. A lui, appena é entrato in Romagna, il Flaminio dirige una epistola lodatoria in cui lo saluta Cesare vincitore, Dario Tiberti ne celebra la magnificenza in un carme, e Francesco liberti negli epigrammi decanta la clemenza di lui, "pio e benigno Cesare."

       Nella Biblioteca malatestiana di Cesena si conservano vari Libelli Epigrammatum dell' Uherti. II 6° ha questa intestazione: "Ad Illustriss. et excellentiss. Ducem Valentinum Dominum nostrum Caesarem Borgia de Francia, ac S. R. E. Confalonerium — De ipsius laudibus, miraque in capiendis Civitatibus facilitate — Francisci Uberti poetae caesenatis bona cum venia — Libellus Epigrammatum". Contiene 117 epigrammi, dei quali solo 20 in onore del duca; gli altri sono per Codro, Pier Francesco Justolo, Oddantonio Dandino, ed altri amici o nemici del poeta.

    Gian Filoteo Achillino, che fin dall'agosto di quest'anno 1500 si era dato a raccogliere da diverse provincie versi in lode del divino Aquilano, in Romagna ne ebbe italiani e latini da Pier Andrea Gammarino, Jeronimo Archita e Giambattista Cattaneo da Imola, da Andrea da Solarolo, da Domenico Fusco riminese; e ancora da Gio. Antonio Torello, Grazio Bicardo, Lodovico Speranza, Giambattista Stato, Paolo Palliolo e Jacopo Costanzo tutti di Fano, e da Venturino Venturini e Guido Postumo Silvestro da Pesaro.

       Collettanee grece — latine — e vulgari per Giovanne Philoteo Achillino in uno corpo redutte, Bologna 1504.

    E altri ancora erano i poeti di Romagna, come Valerio Superchio fisico pesarese, Bernardino di Serugo dottor forlivese, dei quali pure si hanno versi fatti in lode del duca, Antonio Costantino da Fano e Pier Faustino da Tredozio. Ma fra tutti loro Guido Postumo Silvestro non si inchinò davanti al nuovo signore, e preferì di andare povero in esiglio con Giovanni Sforza, che lo aveva beneficato: onde in una elegia dice:


           Nam patriae quatiens monumenta Valentius heros,
           Abstulit antiqui jura paterna soli....

       Una lettera del Postumo all'Achillino, che la stampa in detta raccolta, fa credere che egli non partisse subito da Pesaro, poiché vi si legge: "Tanta me tui visendi cupido caepit ut nisi me tumultus isti bellici qui nunc et in Italia fervent et in Flaminiae Urbibus praecipue saeviunt a proposito meo deterruissent etc."

     Ai 12 di dicembre mandò il duca ad avvisare i Cesenati che egli intendeva di passar le feste di Natale nella loro città, sopra ogni altra di Romagna amata, da lui designata a diventare capitale del nuovo suo dominio; e vi andò a mezzo il mese. Pose la corte nel bel palazzo di Malatesta Novello magnificamente apparato, a dipingere il quale forse chiamò il Pinturicchio nuovamente assunto al proprio servigio. Nella vigilia convitò a cena gli Anziani ed altri primi cittadini. Nel domani, festa del Natale, si recò alla messa nella chiesa di san Giovanni Evangelista, accompagnato da gran seguito, ornato della clamide ducale ; per tutto il giorno il palazzo fu lasciato aperto ai cittadini che vi andarono a vedere gli splendidi apparati delle sale e della stessa camera dove egli dormiva. Nella piazza furono dati spettacoli e giochi. Negli altri giorni, il 26 fu fatta la corsa dell' annello. ed il 27 il gioco della statua e la lotta.
     11 4 gennaio il duca andò al Porto Cesenatico, donde pubblicò un editto contro quanti avevan pratiche con i fuorusciti ed i nemici dello stato suo, sotto pena della vita e della confisca dei beni.

       L'editto 4 gennaio 1501 é nei Docum. al n. 23.

    Ma il 13 era già ritornato in Cesena. Ha la data di questa città un suo decreto con cui rimette e dona alla Comunità di Forlì alcuni redditi dovuti alla Camera ducale, onde possa sod disfare i debiti che essa altrimenti, senza l'aiuto di lui, non poteva soddisfare : in quel decreto, diretto in forma di lettera agli Anziani, il duca dice che la sua liberalità é meritata dagli osse qui di indefessa fedeltà e devozione de' Forlivesi verso di lui. l Ritornando dal Cesenatico . dove aveva comprato una gran quantità di ostriche, mandò a regalarne alcuni cesti a Guidobaldo di Urbino, che in contraccambio gli fece poco dopo un presente di selvaggina ; il duca donò al messo una ricca veste di broccato intessuto di oro e di argento. Questi scambievoli regali erano fatti per provare che i due duchi "buoni fratelli" si vole vano un gran bene ; anzi in quella occasione — donata la veste al messo — fu trovato affisso ai muri di Cesena un cartello in cui si leggeva: Non libi sed Petro, hoc est Urbini ducatui. Un poeta cesenate Francesco liberti, compo neva bene epigrammi per esortare Astor Manfredi a render la città : Vide hejus Pneritiae pepercuit hactenus tuao Ducis benigni Caesaris clementia; ma il giovane principe, benché i Bolognesi ed i Fiorentini avessero da abbandonarlo, non era per rinunciare alla difesa della città ed aprire le porte

     

    1 È riferita nei Cocum. al n. 24. — Fu pub. da S. Marchesi nel Supplemento isterico, Forlì 1678, ma con molte ommissioni che ne guastano il senso. al duca, come il retore lo consigliava, Anzi il duca ebbe il dolore di udire che una sorpresa ten tata da suoi era mal riuscita. Nella notte del 21 gennaio, avendo segreti accordi con alcuni citta dini, i fanti che erano attorno Faenza si accosta rono al borgo con molte scale per darvi l'assalto; ma la vigilanza dei difensori lo fece fallire, e dieci fanti che eran saliti fin sopra i terrapieni furono presi e impiccati. Aspettando che la stagione gli consentisse di riprendere l'assedio, lasciò che i suoi consumas sero il mese ad espugnare i castelli di Russi e di Solarolo che ancor si tenevano per Astorre, ed egli si intrattenne in Cesena, ne' diverti menti del carnevale assieme a' suoi gentiluomini. Era una bella compaagnia di cento e più giovani, che sotto di lui incomiciavano la milizia, alcuni dei quali ebbero ad acquistarvi gran nome : fra i romagnuoli vi erano Dionigi da Brisighella e Taddeo dalla Volpe imolese, poi capitani de' Veneziani, e fra gli spagnuoli don Giovanni di Cardona e don Ugo di Moncada, poi capitani di Carlo V. Quei gio vani erano con lui a incominciare la milizia, come erano con lui a finirla Ercole Bentivogli già ca pitano de' Fiorentini, il commentator Marrades vecchio avanzo degli eserciti di Granata, Cesare Spadari da Modena conestabile di fanti che aveva servito molti signori, Vitellozzo Vitelli e gli Or sini. Principe piacevole nelle feste come fiero nelle armi, parve all' autore del Diario cesenate che egli prendesse troppa parte ai divertimenti del carne — 155 — vale e che vi commettesse atti non convenienti alla sua dignità, come quando, il 15 ed il 17 gen naio, percorse mascherato la città con due suoi famigliari, che con le bacchette agitavano il fango delle vie e ne imbrattavano tutti quelli che in contravano. Tolto questo brutto scherzo, che appena poté esser consentito dall'uso della maschera, di nes sun' al tra soperchieria é parola nel Diario, nel quale pure si fa cenno di uno strano caso av venuto appunto in questi giorni: "Puella quaedam nomine Bona, Severi Pasolini filia ne Borgianae militiae Praecursori nubere cogeretur, e maenibus civitatis dejecit sese, ac Ravennam aufugit. " Un principe che voleva conservare lo stato, non doveva ignorare esser necessarie tre cose, se condo il motto del Collenuccio: "Justitia a corte, dovitia in piaza et nodo alla bracha." 1 Ma il diariista é molto più scandolizzato quando racconta che il duca sotto altre vesti soleva an dare sui colli circostanti, dove egli ed i suoi si compiacevano a far la lotta, la corsa e il salto con que' villici e quelli asinari ; ma é da credere che il senso di scandalo che si nota nel Diario sia piuttosto del traduttore, che dell' autor vero. Allora comune era l' uso di quelle lotte anche con ignobili compagni, cosi che Francesco Liberti

     

    1 Messer Pandolfo.... usava dire che chi vuoi reggersi in istato bisogna facci tre cose: Justizia a corte, dovizia in piaza et nodo alla bracha." Facezie e motti dei secoli XV e XVI, pub. fra le Curiosità letterarìe inedite o rare, Bologna 1874. — 156 — poté fare oggetto di un epigramma Ad viclorem rusticum, la vittoria riportata da un villico che atterrò uno dei famigliari del duca; si aggiunge anche che questi volle che il vinto cedesse la propria veste al vincitore con ordine che la potesse portar dovunque. In un dialogo del Cortegiano di B. Castiglione é data la ragione di questo uso non sconveniente. Parlandosi degli esercizi degni di nobili cavalieri, Ottavian Fregoso vi dice che non vuole che certi giochi si abbiano a fare con inferiori ; ma gli risponde Gaspare Pallavicini che altro era l' uso di Lombardia, dicendo: "Io non credo che sia male: perché ivi (in quei giochi) non si fa paragone della nobiltà, ma della forza e destrezza, nelle quali cose spesso gli uomini della villa non vaglion meno che i nobili : e par che quella domestichezza abbia in sé una certa liberalità amabile."
     Ma il duca, se per questa "amabile liberalità" si compiaceva di esercizi, nei quali poteva dar prova della stragrande sua forza — egli che con le mani sapeva infrangere un'asta o troncare una fune e spezzar un ferro di cavallo,

       "Manibus vel astam infringere, vel funem recidere, vel digitis ferreas soleas comminuere familiare ei fuit." Diar. Caesen.

    — delle opere di cavalleria mostrava di astenersi dalle giostre e dai torneamenti, che pure nelle corti di Urbino, di Bologna, di Ferrara e di Mantova. erano ancor molto stimate. Ed é notevole questa astensione in lui valente nel maneggiare ogni sorta di armi. In Roma, quando nell'aprile dell'anno prima avvenne la disfida fra due de' suoi soldati un borgognone ed un francese, egli cercò di impedire il combattimento. Altra volta egli stesso ne provoca uno fra Taddeo della Volpe suo gentiluomo e il Fracassa; ma poi che li vede pari nella bravura, con gran plauso vuole che interrompano il combattimento, perché ciascuno per quella volta serbi il medesimo grado di onore.

       "Utriusque servandi honoris grada, certamen magno plausu dirimente" Tadaei Vulpiensis gesta militarla. MS. nella Biblioteca Marciarla di Venezia.

    E forse gli spiacevano quei tornei per il pericolo troppo grande e il nessun giovamento che recavano ai combattenti, che quasi sempre ne uscivano sconciati come l'anno dopo in Ferrara accadde ad Alessandro Piatesi avversario di Guido Vaini altro suo gentiluomo. Il quale rotta la lancia combatté il bolognese con lo stocco e malamente 10 ferì. Alle giostre ed ai tornei preferiva la caccia dei tori, 'forse perché meglio e con minor pericolo faceva apparire la valentia nel cavalcare e nel tirar di lancia o di spada. Anche il 27 gennaio fece dare in Cesena lo spettacolo della caccia di un toro furioso.
     Ma ad un tratto, lasciate le feste, il duca partì il 2 di febbraio da Cesena e si recò ad Imola, dove ben più gravi negozi lo chiamavano. Dopo il mal esito dell'assedio di Faenza, per trovar cagione di dolersi, il papa aveva preferito di attribuirlo non alla stagione, ma agli aiuti forniti al Manfredi dai Fiorentini e dai Bolognesi, onde ne aveva fatto assai querele col re che li aveva in protezione. Ai Fiorentini era stato facile dire che il conte Rinuccio da Marciano era andato a trovare il Bentivogli di sua volontà essendo fino dal maggio terminata la condotta che aveva con loro, e il Bentivogli per togliere al papa ogni ragione di dolersi aveva subito ai primi di dicembre richiamati i fanti che aveva in Faenza ed a Castel Bolognese. Ma non per questo il papa cessò dalle querele. L'11 novembre 1500 si firmava in Granata il trattato di divisione del Regno di Napoli, all'eseguimento del quale a Luigi di Francia ed a Ferdinando di Spagna era necessario il consenso di papa Alessandro, al quale spettava la investitura. Luigi pertanto non poté più oltre rifiutarsi a far ragione alle sue querele contro i Bolognesi ed i Fiorentini, sebbene, mandando la compagnia di mons. d'Allegra in Romagna, continuasse a dire che gli era data commissione di non offender loro. Anzi il 24 novembre il re in persona replicava al Machiavelli : "E' si é scritto per duplicato a quelli nostri luogotenenti d' Italia, che volendo il Valentinese tentare alcuna cosa in pregiudizio o de' Fiorentini o di Bologna, che subito muovino, e senza differire vadino ai danni di detto Valentinese." E il Machiavelli, troppo fìdente della parola regia, concludeva: "Sicché di questo potete vivere sicuri."

       Disp. Machiavelli, 24 novembre 1500 da Tours.

     Ma ben diversa fu l' istruzione data dal re il 18 dicembre a mons. di Trans suo oratore. Egli 10 fece andare a Bologna a dire a Giovan Bentivogli di avere udito con dispiacere, che egli aveva aiutato e favorito il signor di Faenza, in modo che il duca era stato costretto a ritirarsi dall' assedio. Gli faceva inoltre sapere che il papa domandava di restituire al dominio della Chiesa anche Bologna, e lo avvertiva che sebbene lo avesse in protezione, egli non avrebbe potuto negare al papa le sue genti per andare contro di lui. Lo consigliava quindi a desistere dal soccorrere Faenza, e ad assicurarsi di Bologna con qualche buon accordo.

       "Per megio de qualche bon apunctamento". Una copia di questa istruzione tradotta é nell'Archivio di Bologna.

    Questa istruzione recata dall' ambasciatore fece comprendere al Bentivogli il pericolo in cui era, e ancor più l'annunzio di truppe Francesi che erano per giungere in Romagna ; ma egli non se ne mostrò Impaurito. Il 3 di gennaio due mandatari, uno del re ed uno del papa, si presentarono al Reggimento a domandare che le truppe fossero messe a svernare in Castel Bolognese, Casalfiuminese e Castel Guelfo, luoghi adatti per la loro vicinanza a Faenza ; ma non ostante che promettessero sicurtà di restituzione, ebbero in risposta che tali richieste non erano nei capitoli che 11 Comune aveva col papa, e che non si poteva dar tanta gravezza agli uomini di quei castelli.

       Fileno dalle Tuate narra che tutti e tre quei castelli furono chiesti ; ma solo di uno, di Castel Bolognese, fanno cenno le let tere del re e del papa.

    Ma in tanto mons. d'Allegra giungeva a Modena il 24 gennaio con 500 cavalli, mentre molti fanti discendevano dal Ferrarese, e brevi del papa e lettere del re continuavano a giungere ai Bolognesi ed al Bentivogli, ai quali non solo erano domandati alloggiamenti, ma viveri, artiglierie e munizioni. Un breve del papa del 28 gennaio dà tempo sei di al Reggimento ad ubbidire, trascorsi i quali, minaccia di porre la città sotto interdetto : più benevola é la lettera del re del 30, ma la minaccia é contenuta nell'invio degli uomini d'arme che annunzia.

       La lettera 30 gennaio 1501, é nei Docum. al n. 26.

     Il duca era ad Imola il di 4 febbraio, dove ricevette Giovanni Marsili che il Bentivogli gli aveva inviato a "dargli parole." E il dì 9 erano per andare a lui altri oratori, ma trovati per via i messi del papa del re e del duca, con loro ritornarono in Bologna ; avuta tosto udienza dal Reggimento, presentarono le nuove lettere e richiesero di nuovo Castel Bolognese per farvi svernare le truppe. Quella notte Bologna fu piena di paure. Giovan Bentivogli ordinò di fare grandi guardie, avendo sospetto che i Malvezzi ed i Marescotti . essendo l' esercito del duca ai confini, avessero con lui qualche trattato di dargli la città. Fileno nota in proposito : "Se ha qualche sospecto di tratato e maxime de' Marescotti, perché sono nomini assai e valenti sì d'ingegno e de forza, e ano gran familiarità con lo campo del duca Valentino e sono de mal stomacho." E già ai primi rumori erano stati sostenuti in palazzo quattro dei principali Marescotti, frai quali Agamennone stato senatore di Roma, contro cui in questi giorni si era aggiunta alle antiche un'altra ragione di sospetto. Fino dal settembre del 1500 era andato in Nonantola il card. della Rovere, che aveva quella Badia in commenda, e poi si era recato in Cento, castello del suo vescovato di Bologna; vi si trovava ancora il 10 gennaio di quest'anno, quando improvvisamente e a tre ore di notte parti e passò al Finale, perché, si disse, era stato avvisato da Agamennone Marescotti che il Bentivogli aveva ordinato di farlo prendere.

       II Ghirardacci nell' Historia di Bologna aggiunge che "era convenuto con Giovanni di darlo nelle mani del duca Valentino"!

     Ma il Beativogli, passati i sei giorni concessi per la risposta, il 19 febbraio mandò oratori ad Imola a dare al duca altre parole. Offerse alloggiamenti per gli uomini d'arme, promise ancora vettovaglie, artiglierie e munizioni ; ma non dié Castel Bolognese, troppo necessario a lui per fronteggiare il duca in Romagna, fra Imola e Faenza. Forse il Bentivogli fece il rifiuto, ben sicuro che allora il duca nulla avrebbe tentato contro di lui protetto di Francia. Per il momento il re non chiese altro, e il papa mostrò di contentarsi del poco ottenuto ; in un breve del 26 febbraio loda i Bolognesi dell' ubbidienza loro, e li ringrazia degli aiuti offerti al duca per l' impresa di Faenza.
     Durante questa dimora di Cesare in Imola, una notte, sul territorio veneziano presso Cervia, da alcuni a cavallo fu assalito il corteo di una donzella della duchessa di Urbino, che andava sposa al capitano delle fanterie in Ravenna. Giambattista Caracciolo; quelli che la accompagnavano furono feriti, ed ella fu rapita. Il caso avvenne nella notte del 15 febbraio. L'imolese G. B. Pascoli, che era uno de'segretarì del luogotenente generale di Romagna, scrivendo da Cesena alla moglie, di non potere recarsi a trovar la famiglia per la mala sicurezza delle vie corse da soldati predoni, le raccontava: "Io non sto in altro pensiero se non di venire, ma bisogna andar col pié di piombo a questi tempi. Questa nocte é stata tolta una gentildonna da Urbino mogliera giovane e bella del capitaneo de la fantaria de Venetiani che andava da lui in suolo in fra Cervia et Ravenna, et feriti li soi che l'accompagnavano. Tu intendi né altro. Adi 15 febbraro 1501."

       La lettera é contenuta nel carteggio del Pascoli, conser. nell'Archivio d' Imola.

    I rapitori furono forse soldati sbandati del campo che era sotto Russi e Granarolo. Onde i Veneziani e Guidobaldo di Urbino mandarono subito loro segretarì al duca a dolersi di quella ingiuria che riputavano lor fatta ; e ne fecero lagnanze anche con mons. di Trans oratore del re nella corte ducale, essendo il capitano Caracciolo un nobile napoletano di fazione francese. Il segretario veneto Luigi Manenti trovò il duca in Forlì, dove: da Imola a mezzo il mese si era recato. Alle querele Cesare rispose dolergli quel fatto ed essere per fare diligente inchiesta per trovarne i rei, e promise che, trovati i rei, egli avrebbe fatto in modo che il re il duca di Urbino ed i Veneziani, conoscerebbero quanto egli avesse avuto a male, che ne' confini del suo stato si fosse commessa quella scellerata violenza. Questa risposta si raccoglie dalle storie di P. Bembo, il quale ebbe a leggere probabilmente le lettere di querela e di scusa.
     Ma P. Bembo che scriveva i fatti delle sue Historiae come le fole degli Asolani, di questo rapimento compose un piccolo romanzo. Egli narra adunque, che la donzella fu rapita per ordine del duca. Anni prima (racconta), Cesare ancora adolescente aveva conosciuto quella fanciulla di maravigliosa bellezza, e ne era stato cosi preso d'amore, che conoscendo di nulla poterne ottenere né per prezzo né per preghiere, preso ardire dal nuovo regno, volle averla per forza ;

       "Ea erat puella mirae pulchritudinis; itaque amore incensus adolescens, cum praetio aut praecibus assequi sese posse nihil videret, sumptis a novo regno animis, ad vim faciendam se convertit etc." Histor. lib. 5 — Nelle Istorie tradotte l'adolescens acquista il solo senso di giovane.

    onde appena seppe che la donzella aveva da passare per gli stati suoi, fra Rimini e Ravenna dove andavasposa, egli da Cesena mandò suoi cavalieri a farla rapire. E aggiunge che quando il Manenti andò a ridomandargli la fanciulla, egli apertamente negò che di suo ordine quelli l'avessero rapita, e disse che a sé fanciulle non mancavano, le quali aver potea facilmente, senza bisogno di desiderare colei e averla per forza, con tanta onta della Signoria veneta e con tanta sua vergogna. E conclude che i Padri vedendo che erano loro date parole, la vendetta di questo misfatto riserbarono ad altro tempo.
     In tutto questo racconto non é parte alcuna di vero, fuori di questa, che i Veneziani non vollero mai dimenticare quella ingiuria lor fatta. E in prima il rapimento non avvenne negli stati del duca, come fa credere il Bembo, ma nel territorio di Cervia dentro i confini de' Veneziani ; e quando avvenne, il duca non era in Cesena, ma assai più lontano, in Imola. Né di quelì' innamoramento altri parla. Il Bembo che prima di scrivere le sue storie fu alla corte di Urbino, non poté udirne parlare in una di quelle galanti conversazioni, perché Cesare non fu mai a quella corte e la donzella era di Crema; ma forse lo inventò di sua fantasia per rendere più probabile il ratto. Ma é strano, che egli in Urbino non sapesse quel che Bernardino Baldi racconta, cioé che la donzella fu restituita al marito. Lo scrittore della vita di Guidobaldo, dopo avere raccontato il rapimento come lo racconta il Bembo, ommesso però l' innamoramento, perché assurdo, fa questa annotazione : "E noi troviamo in alcuni antichi registri in Urbino che la giovane fosse poi, non so come restituita al marito ; da cui guadagnasse quattro figliuoli, e rimasta vedova si ritirasse poi a vivere appresso la duchessa, di cui com' é detto, ell'era stata donzella."

       Della vita e de' fatti di Guidobaldo, di B. Baldi . Milano 1821.

    E forse quando il Bembo fu alla corte di Urbino, nel 1506, la donna vi era già ritornata.
     Vuole il caso, che a quell'atto di violenza che lo storico veneto attribuisce a Cesare, subito dopo dall'autore del Diario cesenate, ne venga opposto uno di gentilezza. Era il duca per ritornare a Cesena (29 marzo), quando a Porto Cesenatico per mare giunse una gentildonna, che per due volte aveva cinto la corona di regina di Ungheria, e che allora povera e infelice ritornava alla corte del fratello, ad assistere ad altre miserie, alla ruina della Casa d' Aragona ; era Beatrice, sorella di Federico di Napoli, la quale vedova del re Mattia, pochi mesi prima era stata ripudiata dal re Ladislao suo secondo marito. Ma in tanta sventura, Cesare, onorando sempre in lei una figlia ed una moglie di re, come ne seppe l' arrivo al Cesenatico, mandò a riverirla ed a presentarle un "regio dono" — affinché ella, passando per gli stati di lui, ne conoscesse la gentilezza e la liberalità grande per tutta Italia celebrata. E la fece onorare da' suoi luogotenenti in ogni città della Romagna e della Marca, per dove ella fece via ritornando a Napoli.
     Venuti i Francesi, il duca poteva essere omai sicuro che né i Bolognesi, né i Fiorentini gli avrebbero più disturbato l' impresa di Faenza ; ma non ne poté subito riprendere l' assedio, per i tumulti avvenuti nell'Umbria, le cui città erano corse dai fuorusciti ghibellini nell' autunno prima cacciati. In febbraio Giulio Cesare Varano signor di Camerino aveva dato ricetto a molti di que' ribelli di Todi Ascoli e Viterbo, i quali per tradimento del castellano di Gualdo Filippo degli Arcioni, che dal papa era stato messo a guardia di quel passo, erano andati sopra Nocera e l' avevano presa e saccheggiata. Alessandro VI, che già altra volta aveva fatto citare davanti alla Camera quel vicario per aver cessato il pagamento del censo, e l'aveva assolto per l'intercessione dei Veneziani,— udita la perdita di Nocera, contro di lui rivolse tutte le sue ire. Così il 1° marzo fece pubblicare un monitorio del Vicecamerlengo, in cui era detto che Giulio Varano "figliuolo della iniquità" per aver dato ricetto ed assistenza ai ribelli della Chiesa, era incorso nel delitto di lesa maestà ; fra le altre imputazioni fatte al Varano, era pure accennata questa, che egli si era bruttato nel sangue del proprio fratello Ridolfo, i cui figliuoli aveva cacciato in esiglio.

       Historia di Camerino, di Camillo Lilii. — E notevole é che in questa bolla 1° marzo 1501 il papa priva dello stato Giulioi suoi figli et etiam 'ex dieta Rodulpho nepotes.

    Contro lui ed i ribelli, il duca lasciò che partisse Gian Paolo Baglioni con i fanti e le artiglierie della Comunità di Perugia, che aveva condotto in Romagna, e dopo mandò anche m. Bandino da Castel della Pieve con 80 cavalli leggeri e m. Ercole Denti vogli con 100 uomini d'arme. Vi mandò pure suoi commissari a fare uomini ed a condurre le artiglierie.

       Il card. Serra legato di Perugia raccomanda con lettera 3 marzo 1501 ai Priori di Todi "el magnifico m. Artes oratore et charissimo dell'Ill.mo Sig. Duca Valentinoys ' et nostro commissario" per condurre le artiglierie di Alviano, e loro raccomanda di onorarlo, perché il duca "baverà piacere che li suoi charissimi siano da voi bene et humanamente tractati". È pub. dal Leonij nella Vita di Bartolomeo.

    Ma tutta la guerra si ridusse a piccoli fatti contro i ribelli, così che in maggio il Baglioni era ancora a campo sotto Gualdo e Nocera. Il duca che per questi preparativi e la pubblicazione della bolla contro i Varano pareva volesse, espugnata Faenza, andare con tutto l'esercito a scacciare quei vicari da Camerino, fu distratto da altre imprese, nelle quali lo trascinavano le istigazioni dei suoi capitani, le avare accondiscendenze dei ministri del re, le gelosie dei Veneziani e il desiderio della vendetta degli aiuti dai Fiorentini e dai Bolognesi prestati ad Astor Manfredi.
     Avuta Faenza, il duca decise di andare contro Jacopo d' Appiano signor di Piombino, che per antichi diritti della Chiesa su quel feudo il papa aveva pure dichiarato decaduto. I Fiorentini che vedendo attorno al duca Orsini e Vitelli loro nemici, ogni di più si impauri vano della grandezza di lui, come avevano fatto col Manfredi in Romagna, cercavano di difendere quel loro confederato presso il re ed il papa, disposti ancora ad aiutarlo di uomini e di danari, per non avere il duca anche ai confini di Toscana ; ma le loro opposizioni non ebbero altro effetto, ohe di incitarlo ad offenderli. Perciò, avendo essi nemici, il duca per rendere più facile la impresa, si rivolse ai Senesi ai Lucchesi ed ai Pisani, i quali per desiderio di far danni ai Fiorentini di buon grado si disposero a servirlo ed a fare confederazione con lui. A metà di marzo pertanto lasciò che partisse dal suo campo Oliverotto da Fermo con un 500 fanti e cavalli della compagnia di Vitellozzo. Il cronista Jacopino de' Bianchi che li vide il 23 alloggiati presso Modena, e ne conobbe il capo de' balestrieri che era un modenese Mixin dal Forno, dice che il "ducha Valentin mandò diti soldati per dita via per mandareli a Pistola centra diti Fiorentini per removerli da la impresa de dita Faienza."

       II Lancillotti dice che di quei soldati era capo "uno romano per nome Vitulozo". I cronisti fiorentini nominano invece solo Oliverotto.

    La cacciata che dei Panciatichi pochi dì prima avevano fatto i Cancellieri, con gli aiuti (dicesi) di Giovanni Bentivogli, dié credito al sospetto ; ma pare che quei soldati fossero spediti non a Pistoia, ma a Pisa, dove infatti entrarono. Delle pratiche con Siena si ha indizio da una deliberazione della Balìa in data 2 aprile, per la quale fu accordata facoltà a Pandolfo Petrucci di poter convenire col duca a nome proprio e far patti e confederazione.

       Memorìe storico-critiche di Siena rac. da Q. A. Peeci, Siena 1755.

     E i timori dei Fiorentini, al vedere il duca macchinare accordi con tanti loro nemici, sempre più erano accresciuti dai sinistri discorsi che il re faceva a Pier Francesco Tosinghi loro oratore in Francia per le rotte convenzioni, dopo la fallita guerra di Pisa ; onde dubitavano che Luigi non fosse per abbandonarli ad un assalto del duca e dei loro nemici. Il Buonaccorsi nota pure che allora si intese "i Veneziani havere concluso in Pregai di rimettere Piero de' Medici in Firenze, et haverlo persuaso al papa et al duca con allegargli che havendo in Firenze uno stato in proposito era la sicurtà degli stati loro di Romagna." Ma fra tanti sospetti essi non vollero assicurarsi. Il papa li fece ricercare, che il duca fosse fatto loro capitan generale : ma essi "conoscendo l'animo suo" se ne scusarono dicendo di avere già condotto il prefetto di Sinigallia loro proposto dal re. Irresoluti, aspettavano di essere nel pericolo per prendere una deliberazione, come il Bentlvogli, al quale pure il papa andava facendo proposte di fare un qualche accordo col duca.
     Cesare intanto, essendogli giunti molti fanti dalla Lombardia, dopo essere stato il 29 marzo a Cesena, si recò al campo sotto Faenza. Nell'inverno, per meglio difendere la città, i Faentini avevano costrutto un bastione al convento dell'Osservanza, fuori delle mura ; a questo prima fu dato l'assalto e il 12 aprile fu preso, e vi furono piantate le artiglierie per battere la rocca. Bisogna leggere la descrizione che dell' assedio fa il canonico Sebastiano di Zaccaria per restare ammirati della bella difesa dei Faentini. Durante . il verno erano usciti qualche volta a raccogliere biade ed armenti, ma la città cominciava a difettare di provvigioni ; i ricchi diedero vino e frumento a vi1 prezzo al popolo, e denari a Astorre, che ne obbligò le gabelle : e quando mancarono i denari da pagare i soldati, preti e frati acconsentirono che fossero tolti dalle chiese i vasi sacri per batterne moneta. Ricominciato l'assedio, anche le donne presero parte alla difesa, o portando sassi sulle torri da gettare sugli assalitori, o riempiendo di terra i graticci che addossavano assidue indefesse alle mura crollanti ; altre più audaci, cinto l'elmetto e impugnata l'asta o la balestra, facevano la scolta sulle torri e sulle mura, mentre gli uomini dormivano. E quando più rimbombavano le artiglierie contro la città, le matrone si raccoglievano a pregare Iddio davanti agli altari, ed i fanciulli e le fanciulle, a piedi nudi e co' capelli sciolti, erravano per le vie invocando il divino aiuto ai padri loro, ai difensori.

       Sebastiani Zachariae Epistolae familiares. Faventiae, 1507. — Epist. 14 e 31 maggio e 10 settembre 1501.

     Dopo sei giorni, la sera del 18 aprile, fu dato l'assalto. L'aveva il duca annunziato ai vicini signori, onde per vederlo, appositamente vennero da Ferrara il signor Alfonso primogenito di Ercole ed il cardinale Ippolito suo fratello.

       Diario ferrarese. In questo e nell'altro del Lancillotti si trovano alcune notizie dell'assedio di Faenza, e delle provvigioni che l'estense lasciò prendere all'esercito in Lugo.

    Erano allora molto strette le pratiche di maritare Lucrezia ad Alfonso ; e il card. Giambattista Ferrari modenese, datario di Alessandro VI, scrivendo pochi giorni dopo ad Ercole, al quale fin dal febbraio aveva proposto il matrimonio, gliene raccomandava la grande utilità (sebbene vi fossero altre promesse) particolarmente per il grande stato che il duca di Valenza aveva in Romagna.

       "Praesertim per lo grande stato ha Io Ill.mo Duca de Valentia suo bono figliolo in la Romagna contiguo al suo: del quale sempre se ne poteva valere como del suo proprio". Let. 1 maggio 1501. — V. Vita del card. G. B. Ferrari del conte G. Ferrari Moreni, Modena 1875.

    L'assalto durò tre ore, dalle 20 alle 24. I Faentini sulle fumanti macerie della breccia pugnarono intrepidamente. Vi morirono molti degli assalitori, o colpiti dalle balestre o dalle spade, o abbruciati dalla pece infuocata, o travolti sotto una grandine di sassi ; i difensori combatterono con le pietre istesse delle cadenti mura. Né meno valore dimostrarono i soldati del duca. Un conestabile di fanti, Cesare Spadari da Modena, nel condurre i suoi alla battaglia, colpito in una coscia da una palla di spingarda che tutta gliela schiantò mori da "grande valent' uomo," come il Lancellotti suo concittadino lo chiama. Taddeo dalla Volpe imolese ferito malamente in un occhio da una freccia se la strappò per continuare a combattere, contento di non aver più da vedere i pericoli che per metà. Fra i molti che morirono nell' assalto si nomina anche Ferdinando Farnese, gentiluomo del duca.
     Cesare prese tale ammirazione de' Faentini, che dopo tanti mesi di stenti avevano fatto si bella difesa, che di loro fece i maggiori elogi . cosi che si racconta aver detto che "ove egli avesse avuto un esercito di Faentini avrebbe fi datamente intrapreso il conquisto di tutta Italia." La gentil marchesana di Mantova, se queste pa role avesse udito, assai grata se ne sarebbe di mostrata al duca, ella che compiacendosi della fedeltà e della costanza dei Faentini nel difen dere il loro signore, per cui ricuperavano l'onore degli italiani, pregava loro da Dio la grazia di perseverare, "non per augurar male al duca Valentino, ma perché quel povero signore né il suo fedele popolo, non meritano tanta ruina!" l Ed i Faentini, sebbene ormai mancassero i difensori delle mura per le tante morti avvenute, perse verarono ancora per alcuni di. Il 21 aprile ripre sero le artiglierie a battere la rocca e durarono più di sette ore; l'avevano omai ridotta un muc chio di ruine. In quel giorno il duca perdette uno de' migliori suoi condottieri, Achille Tiberti cesenate. Fra i cannoni ducali uno era notabile per la sua grandezza, forse quello che descrisse l'agente mantovano S. Calandra, quando a Fossombrone nel l'ottobre dell' anno prima passarono le artiglierie, e che si caricava solo a palle di pietra. Essendo il Tiberti con altri capitani andato quel di a ve

     

    1 "Recuperano l'honore de Italiani". Let. di Isabella d'Este 20 aprile 1501 da Mantova. — 173 — derlo tirare, avvenne che o per imperizia del bombardiere o per difetto della munizione, il cannone scoppiò : il Tiberti e il bombardiere ne restarono morti nel colpo, e gli altri malconci. Cesare addoloratissimo ne fece portare il cadavere in Cesena, ed ivi onorevolmente seppellire.

       La cronaca faentina dello Zuccolo narra che il Tiberti mori in una zuffa, avvenuta in una sortita, con alcuni balestrieri. Ma in ciò il Diario cesenate noe lascia dubbio.

    Questo triste caso conturbò la gioia dell' esercito di veder finalmente prossima la resa di Faenza. Ogni notte, o per fame o per stanchezza, fuggivano alcuni dalla città lasciandosi calare dalle mura. Nella notte del 22 fuggì pure da una torre dov' era a guardia un Bartolomeo Grammante tintore, e si presentò al duca a narrargli la grande penuria di viveri e di munizioni che era in Faenza, e ad indicargli il momento favorevole all'assalto. Ma il duca, che "aveva più cari i Faentini quanto più eran fermi nella difesa," diede a quel fellone il premio che meritava, e lo fece impiccare quasi sotto le mura della città ; supplizio degno di chi aveva voluto disonorare una difesa così gloriosa.

       Annali di Faenza, di B. Righi, Faenza 1841.

     Dopo tre giorni, senza che più fosse ritentato l'assalto, gli Anziani convocarono un Consiglio generale per consultare se possibile era ancora la difesa; ma unanimemente si decise di mandare ambasciatori al duca, ad offrirgli la città, salve la vita e le robe del principe e dei cittadini. Il duca accolse onoratamente gli ambasciatori, e li rimandò con promessa che le loro domande sarebbero state esaudite; e il dì 25 nel campo furono firmati da lui i capitoli della resa.

       V. l'atto nei Documenti al n. 27.

    Fu convenuto che il signor Astorre ed i suoi fossero liberi di andare ove volessero : che i loro beni immobili fossero salvi, e gli immobili si rimettessero alla clemenza del papa, presso il quale Paolo Orsini prometteva di adoperarsi affinché ne fosse fatto buon trattamento ; e che i creditori del Manfredi sulle gabelle ne fossero pagati con i dazi, e le monete di lui si continuassero a spendere nella città e nel contado. Ai Faentini poi fu accordato che tutte le consuetudini del Comune fossero confermate, e che tutti gli uffizi suoi fossero distribuiti agli originarì, come pure i benefizi delle chiese, per i quali il duca promise di dare opera col: papa. L'ultimo dei capitoli fu questo: "II popolo di Faentia havendo patito i danni che ha patito per la guerra dimanda grazia a sua Eccell.za di quella immunità de praeteritis et essenzione che li parerà." E anche a questo capitolo il duca mise un placet. Cosi salvo il principe, il di 26 ad ore 12 gli Anziani si recarono al convento dell' Osservanza dove Cesare aveva la corte, e nelle mani di .lui presta rono il giuramento di fedeltà. Avendo acconsentito che l' esercito non fosse entrato in Faenza per risparmiare altri danni alla desolata città, egli pure non vi volle entrare.
     Nella sera stessa ad ore 21, accompagnato dai fratelli e dai cugini, il signor Astorre usci da Faenza e andò a trovare il duca.

       "In quel medesimo giorno a ore 21 partì dalla città il signor Astorre, e andò a trovare il duca Valentino ch'era alloggiato all'Osservanza". Cronica civitatis Faventiae.

    Era ben sventurato quel povero giovane! Ancora infante un delitto gli aveva fatto perdere il padre e la madre, poiché dopo la morte di Galeotto, i Faentini anche Francesca avevano cacciato dalla città per sospetto di Giovanni Bentivogli e per odio di lei che aveva fatto ammazzare il loro signore. Pupillo dei proprì sudditi, passò l'infanzia fra mille pericoli, minacciato da' suoi stessi parenti, dai figli di Carlo Manfredi, cui il padre suo aveva tolto la signoria, — timoroso de' suoi stessi protettori Fiorentini o Veneziani che ne aspettavano l'eredità. Tutti i suoi amici egli aveva visto rovinare miseramente, Pier de' Medici che gli aveva promesso una figliuola in moglie, e Caterina Sforza che lo aveva sposato alla piccola Bianca. Nel pericolo Francesca sua madre si era ricordata di lui, benché moglie di un altro, e Giovanni Bentivogli aveva cercato di salvarlo; ma anch'egli era per, rovinare. Aveva allora non più di venti anni. Un diariista veneto nel 1496 dice che era un "puto mal san ;" ma bello, biondo, roseo appare nel ritratto che di lui si conserva nel palazzo dei conti Zauli Naldi in Faenza, fatto forse nei primi anni della protezione fiorentina. È un bel giovinetto, di corpo ben fatto ; ha il capo scoperto, e gli scendono giù sulla fronte i capelli a frangia; sopra una veste turchina ha steso un manto giallognolo, tagli e colori non molto eleganti; ma dal mite sguardo degli occhi, da1 sorriso cui sembrano atteggiate le labbra spira una grand' aria di malinconia. A lui ed al fratel suo naturale Giovanni Evangelista che era stato castellano nella rocca, il duca fece le più onorevoli accoglienze. Per patto convenuto era libero di andare ove volesse, ma il duca fu con lui tanto gentile, che egli ne accettò l' invito di restare alla sua corte. Povero sventurato!
     Il giorno dopo, il 27 aprile, Cesare improvvisamente levava il campo da Faenza e, accompagnato da Astorre, per la via di Solarolo si recava a Imola, senza nemmeno aver provveduto, tanta era la fretta, al governo della città, che soltanto quattro giorni dopo affidava a Jacopo Pasi da lui costituito suo vicario.

       La patente 1 maggio 1501 é nei Docum. al n. 31.

    II duca portava il campo contro Bologna. Né le istanze del papa, né i consigli del re avevano potuto indurre il Bentivogli ad accordarsi col duca, al quale per la sicurezza de' suoi stati di Romagna era necessario di avere amici e confederati a' confini. Più volte egli aveva fatto intendere al Bentivogli. che se gli era amico, come diceva, doveva cedergli Castel Bolognese che per essere tra Imola e Faenza era molto adatto al suo dominio; ma il Bentivogli che aveva prima negato di prestarlo per gli alloggiamenti delle truppe, con più ragione allora negava di cederlo. Desiderando pure un accordo, il duca fece ancora sapere, che alcuni del castello erano andati a profferirglielo, ma che egli non lo aveva voluto, perché desiderava di averlo dalla Comunità di Bologna.

       "La famiglia de Zani da Castello Bolognese andono a proferire el castelo al duca, ma lui non lo volse, perché lo voleva da la Comunità di Bologna". Cron. Le Tuate.

    Riuscite vane tutte le pratiche, il dì 26 si presentava davanti al Reggimento un frate (che sotto la tonaca faceva sacra la persona dell'ambasciatore) a domandare per parte del duca Castel Bolognese. Gli fu risposto che gli si sarebbero mandati ambasciatori. Furono questi Giovanni Marsili e Angelo Ranuzzi, ambedue del Reggimento, i quali subito cavalcarono verso Imola; ma giunti a Castel S. Pietro furono presi da Vitellozzo, che con la compagnia de' suoi cavalli veniva avanti, ed aveva occupata quella terra e la rocca, di cui il castellano per sorpresa gli aveva aperto le porte. Un cavallaro giunto il dì 27 al Reggimento portò la nuova che oltre Castel S. Pietro, erano stati presi Casalfiuminese, Castel Guelfo e Medicina. Sega! Sega fu gridato per le vie, e uscirono in armi i cittadini assoldati per "liberare la patria dalle mani dei preti e dei marani."

       Sabadino degli Arienti, descrivendo "la strenue e potente invasione nel nostro Felsineo agro fatta dall'alto duca di Valenza Cesare Borgia", nota che "il nostro valoroso popolo fino agli uomini di decrepita etade si pose in armi per tuitione della gloriosa e metuenda casa de' Bentivogli". Let. premes. alla Descrizione del Giardino della Viola, Bologna 1836.

     In tanto pericolo, Giovanni Bentivogli, convocati i Sedici del Reggimento, il di 28 aprile, fece subito dare procura a Francesco Aldrovandi e ad Alessandro Butrigari per una confederazione, da proporre al duca. In quest' atto i Sedici del Reggimento danno facoltà ai detti ambasciatori di consegnare al duca Castel Bolognese, per soddisfare al desiderio del papa che ne li aveva richiesti, e di obbligarsi a nome de' Sedici e particolarmente a nome di Giovanni Bentivogli in quella convenzione che crederanno, con pieno libero generale ed assoluto mandato, per aiuti da dare al duca contro coloro che nomineranno, eccettuato solo il servizio personale di Giovanni, e riservati i capitoli della protezione francese.

       La procura del 28 aprile 1501 leggesi trascritta nel libro n. 22 Mandatorum del Comune. Archivio di Bologna.

    Gli ambasciatori partirono subitamente per Castel S. Pietro dove credevano di trovare il duca, ma egli invece era a Villafontana presso Medicina, dove aveva ridotto il campo. Egli alloggiava nel convento dei frati osservanti.
     Il dì 29 Cesare mandò a Bologna Paolo Orsino a fare la capitolazione. Quando entrò, dalla porta fino al palazzo, erano schierati lungo le vie 12,000 soldati, de' quali il Bentivogli aveva fatto la mostra, affinché il capitano del duca e quelli che lo seguivano, vedendoli, si accorgessero che la città non era senza difesa; ma quello sfoggio d'armati non valse al Bentivogli migliori 'patti. Nella capitolazione che fu fatta l'ultimo di aprile il Reggimento convenne di rilasciare al duca Castel Bolognese e le sue giurisdizioni, e di concedergli stipendio per tre anni di 100 uomini d'arme a tre cavalli per uomo, da tenere a benefizio dei comuni stati, obbligandosi inoltre a dargli ogni aiuto e favore per ogni impresa da farsi da lui entro un anno contro qualunque signore o signoria, salvo il re di Francia. Dal suo canto il duca promise di restituire i castelli occupati e di liberare i prigioni, e di levar subito il campo ; e si impegnò a far riconfermare dal papa al Comune ed al Bentivogli gli antichi privilegi.

       Una copia della capitolazione 30 aprile 1501 estratta dalla Cron. ms. di Fileno dalle Tuate é nei Docum. al n. 29.

    Nel giorno stesso fu fatta la procura ad Alessandro Butrigari e a Francesco Aldrovandi, ai quali fu commesso di portare a Villafontana la capitolazione per farla ratificare dal duca, da

    Caesar che hoggi vincendo Italia atterra

    come lo chiama Diomede Guidalotto in un sonetto a Giovanni Bentivogli, per il tumulto pacificato.

       Tirocinio de le cose vulgari de Diomede Guidalotto, Bologna 1504.

     Benché questi patti fossero assai gravi, il Bentivogli però aveva ottenuto un singolare vantaggio, quello che gli Orsini ed il Vitelli avessero a promettere per le parti l'osservanza della convenzione. È una differenza importante, la quale chiaramente si rileva dalla prima procura incondizionata del 28 aprile e dalla seconda del 30 condizionata alla promessa di Giulio e Paolo Orsini e di Vitellozzo Vitelli, non soldati del duca, ma con lui contraenti e firmanti. Per questo patto può dirsi che tutta la capitolazione, tolto il castello e la condotta, fu fatta nell' interesse del Bentivogli e degli Orsini, i soli che se ne potessero valere ; perché così gli Orsini ed il Vitelli poterono trascinare il duca e tentar di rimettere i Medici in Firenze, ed il Bentivogli si assicurò col mezzo loro di non essere più mai molestato. Anzi, perché tutti i patti non furono scritti, fu data la fede con un parentado. Onde Jeronimo Casio non aveva poi tutto il torto di ascriversi a merito di avere egli solo pacificato l'esercito della Chiesa con quello di Bologna, mediante il matrimonio da lui fatto di Giacoma figliuola di Giulio Orsini con Ermes Bentivogli.

       "Io solo pacificai lo essercito di S. Madre Ghiesia (Capitano e Confaloniero lo Illustr. Don Cesare Borgia duca di Valenza) con quello della inclita dotta e opulenta Bologna, ben però col mezzo del parentado ch'io feci della Illustr. M. Jacoma Orsina col S. Hermes Bentivoglio.... et unito ch'io hebbi li dui esserciti gli condussi alle mure di Firenze". V. la pref. alla Clementina rac. di versi dedicata dal Casio a Clemente VII, più volte ristampata nel 1523.

    È vero, che egli non fu che l' agente di Giuliano de' Medici seco alloggiato in Bologna, il quale essendo in gennaio stato in Francia alla corte del re, dalle dimostrazioni ricevutevi aveva preso animo a tentare il ritorno della propria famiglia. Ma non pensavano gli Orsini che un breve del papa poteva far mal riuscire quella loro impresa tanto arrischiata, benché tanto sicura. Il duca aveva ratificato la capitolazione, ma con la riserva che il pontefice l' avesse dovuta confermare, e anche "mutare in alcuna parte :" pare da questo che mancasse ancora il consenso d' Alessandro.
     Negli atti di questi giorni il duca non si dice più signore dalle singole città di Romagna ; di un nuovo titolo egli appare insignito. Nel decreto del 1° maggio per Giacomo Pasi suo vicario in Faenza egli si intitola : Dux Valentinus, Comes Diensis, Romaniaeque Dominus. E quando il 2 maggio dalla ringhiera degli Anziani in Bologna si pubblica la pace, Cesare é chiamato "Duca Valentino Signore di Romagna et de la santa Romana Chiesia confaloniero et capitaneo generale." Sembra che la nuova dignità fosse conferita a Cesare, dopo la resa di Faenza, poiché in un breve papale del 1° maggio diretto ai Pesaresi, Alessandro loro partecipa che, avendo il duca ottenuta Faenza, ultimamente (nuper) in un Concistoro col consenso dei cardinali fu deciso di costituirlo ancora vicario di Pesaro, propter vicinitatem et propinquitatem delle altre città di Romagna, delle quali era già stato fatto vicario perpetuo.

       V. il breve 1° maggio 1501 neì Docum. al n. 32.

     Intanto i Fiorentini, udendo sempre minacciare i loro nemici, avevano subito fatto munire Firenzuola, forte castello dell'Apennino dai loro antichi costrutto per fronteggiare i Bolognesi, contro i quali si avevano pure da difendere —, dopo la capitolazione di Villafontana, e la fuga del conte Rinuccio da Marciano che già da loro era stato mandato in soccorso al Bentivogli. Il conte era fuggito da Bologna per timore di non esser dato nelle mani di Vitellozzo, il quale avendo trovato suo fratello Pietro a Medicina, dove era con alcune bande di fanti bolognesi, lo aveva ammazzato in vendetta del supplizio di Paolo Vitelli. Già confederato dei Fiorentini, il Bentivogli si credeva lecito di dover andar contro loro, dopo che essi ultimamente — per quanto egli avesse domandato un qualche aiuto — non gliel' avevano voluto dare, dissero per non irritare più oltre il papa, sebbene conoscessero il pericolo che pur loro per il negato favore soprastava. I Fiorentini però, per conoscere le intenzioni del duca, gli mandarono m. Galeotto de' Pazzi a congratularsi con lui per l' acquisto di Faenza, e gli diedero commissione di fargli intendere che avevan munito Firenzuola non per sospetto di lui, ma per mostrare ai suoi capitani che li minacciavano, che la città era per trovarsi pronta ad ogni evento. Gli rispose il duca che egli voleva sapere "come haveva a vivere con la città" e che avendo da tornare a Roma, voleva passo e vettovaglie per il suo esercito lungo il dominio fiorentino, aggiungendo che "non si dubitassi di alcuna cosa."

       V. le cronache di B. Buonaccorsi e di G. Cambi.

    E con l'oratore mandò m. Romolino suo uomo.
     Né facendo questa assicurazione all' oratore, il duca voleva ingannare i Fiorentini. All' ultimo momento, appena capitolato con Bologna, gli era giunto in campo un messo del papa con un breve che gli commetteva di ritornare a Roma senza molestare i Fiorentini, perché questa era la sua volontà ; il breve gli fu forse portato da m. Romolino che accompagnò il Pazzi in Firenze. Alessandro VI . assai più prudente del duca, mal volentieri lo vedeva andare ad un' impresa di cui tutta l' utilità sarebbe stata degli Orsini che ve lo trascinavano, e tutto il danno di casa Borgia; poiché egli ben sapeva, che rientrati i Medici in Firenze, quei baroni sarebbero venuti in tanta grandezza, che né egli né il duca avrebbero mai potuto abbatterla. Ricevuto il breve, Cesare fu per ubbidire, quando (come raccontò poi) "gli Orsini e Vitelli gli furono addosso, persuadendolo a volere ritornarsene a Roma per la via di Firenze; il che ricusato da lui, perché il papa gli commetteva altrimenti, Vitellozzo piangendo gli si gittò a' piedi a pregarlo facesse codesta via, promettendogli che non farebbono al paese né alla città violenza alcuna." E gli promisero che dei Medici non avrebbero ragionato ; ma solo avrebbero chiesto qualche soddisfazione ai Fiorentini che essi, amici del re, trattavano come nemici e ribelli, e ritenevano ancora in carcere dopo l'iniquo supplizio di Paolo Vitelli, m. Cerbone suo cancelliere. E Cesare si lasciò vincere dalle preghiere de' suoi capitani, che da tanti mesi aveva tenuto in isperanza. Lo incitava inoltre il desiderio di andar subito a Piombino, onde osservare la convenzione fatta col Bentivogli e compiacere i ministri del re che lo sollecitavano a molestare i Fiorentini, per indur1i a pagare i denari promessi. Ma é notevole questa circostanza, che il 2 maggio egli diede licenza alla compagnia di mons. d'Allegra che il giorno seguente, passando per S. Agata nel Bolognese, ritornò ai quartieri di Lombardia ad incontrare l'esercito che si preparava per la guerra di Napoli: ma probabilmente questa partenza, avvenuta al momento della calata in Toscana, era fatta perché il re, non molestando i Fiorentini con suoi soldati, potesse loro vender più cara la regia protezione. Del resto che il duca avesse il consenso di Francia, si ricava anche da un patto della lega da lui conchiusa pochi dì dopo co' Fiorentini, nella quale questi si riserbarono di poter mandare i 300 uomini d'arme della condotta data a Cesare al servizio del re per l' impresa del Regno.
     Ma il duca non considerava di quanto pericolo gli poteva essere quell'assalto in Toscana, perché i Fiorentini gli sarebbero divenuti nemicissimi per la disonorevole capitolazione loro imposta, e l' acquisto suo di Piombino. E non considerava di quanta difficoltà era. perché mentre il papa gli commetteva di non offenderli o il re voleva che solo li spaventasse, egli aveva con se tali pericolosi amici, per contenere i quali sarebbe stato costretto ad accettare più che ad imporre la capitolazione.
     Ma intanto si compiva in Bologna una strage crudele. Il di 27 aprile, all'annunzio dell'avanzarsi del duca nel territorio bolognese, erano stati chiamati al Reggimento e sostenuti in palazzo quattro dei principali Marescotti Agamennone, Giasone, Agesilao e Lodovico ; la presenza nel campo ducale dei Malvezzi loro congiunti, la parte presa da alcuni nella congiura del 1488, onde solo in grazia del padre avevan avuto salva la vita, il favore che presso il papa godeva Agamennone, stato tre volte senatore di Roma, bastavano a far sospettare ai Bentivogli che avessero accordi con i nemici. Altra volta, nel febbraio, erano stati sostenuti. Ai 2 maggio dalla ringhiera del palazzo fu bandita la pace, ma le grida di gioia, gli allegri squilli delle trombe che salutarono il bando, fecero rinnovare la paura del passato pericolo. Era a guardia del palazzo Ermete Bentivogli, il minore figliuolo di Giovanni, con altri giovani delle famiglie dei Sedici ;

       Nel libro Partitorum n. 22 del Comune di Bologna alla data ultimo maggio é segnato un conto di lire 447 "prò expensis factis M.co D.no Hermeti de Bentivoliis ac ejus sociis et eorum comitiva illis diebus quibus steterunt ad custodiam Palatii, quando exercitus et gentes armigerae erant in Romandiola et in confinibus hujus civitatis". Archivio di Bologna.

    quella sera per uno scalco egli li chiamò in una stanza a far festa della pace, riacquistata e li esortò ad andare con lui ad uccidere i prigioni che la pace avevano tentato di turbare : e cosi incitati nella notte del 3, li condusse nelle stanze dove erano racchiusi i quattro Marescotti, e con loro perfidamente li ammazzò. Gli sventurati scontavano col loro sangue il sospetto di aver voluto mutare lo stato, sospetto di cui i Bentivogli avevano avuto quasi le prove, vedendo presso mons. d'Allegra nel campo francese Diomede figliuol di Giasone.

       "Haveva con lui Diomede figliolo de Sasone Marescoto, e questo é stato la ruina de Marescotti per essere stato molto honorato da loro che a messo giolosia in lo stado de' Bentivogli". Cron. Le Tuate.

     La presenza di Ermete al palazzo dove era n guardia — circostanza ignorata da molti cronisti — e il racconto di Fileno cancelliere del Reggimento che primo di tutti ne udì la nuova, fanno credere che il feroce giovane compisse la strage per mal suo animo, e non per volere del padre od istigazione della madre, come da altri si disse. Ma pure andò fuori la voce che vi avesse una parte anche Cesare. Dei cronisti bolognesi Gaspare Nadi e Giacomo Zili. di fazione bentivogliesca, non fanno nemmen cenno del delitto; dei forestieri, i modenesi ed i fiorentini, ne danno colpa al Reggimento. Ma l' autore del Diario ferrarese, non sapendo spiegarsi quell'eccidio dopo la pace, ebbe a scrivere: "Et facto dicto acordo, parse che dicto Duca scoperse a messer Zoanne come li fioli del magnifico messer Galeazzo dei Marescotti, ipso inscio, ghe haveano promesso de dare Bologna in le mani." Ma il dubbio, una volta fatto, diventò subito certezza ; onde, fra Cherubino Ghirardacci racconta: "Conclusi dunque li capitoli, il signor Paolo Orsino tirò da parte il signor Giovanni Bentivogli, e prima da parte del duca li mostrò le littore d' alcuni cittadini che secretamente chiamarono il duca a Bologna contro di lui, e di voler dargli la città, e cacciare lui fuori, e li domandò di dare a Hermes m. Jacoma."
     Vi sono adunque due versioni del fatto, quella di Fileno che ne ammette il modo improvviso per il mal animo di Ermes, e che ne fu quasi spettatore, e quella di fra Cherubino che ne fa complice il duca, e che scrisse soltanto assai anni dopo gli annali. "Ne é tanta la diversità, che F. Guicciardini é incerto quale delle due accettare, ma perché gli pareva improbabile che il duca avesse dato le lettere dopo l'accordo, e non prima — quando poteva trame miglior partito — é obbligato ad ammettere una maggiore perfidia nel duca che, cioé egli con quella rivelazione volesse spingere il signor di Bologna ad ammazzare i Marescotti "per concitargli maggior odio in quella città."

       II Guicciardini nella Storia fiorentina dice soltanto che il Bentivogli uccise i Marescotti per la pratica tenuta col duca "o perché in fatto fussi vero, o pure perché sotto questo colore volesse levarsegli dinanzi."

    Ma il racconto del Fileno é troppo sicuro ne' suoi minuti particolari, perché se ne abbia a dubitare. Cosi fu tenuta occulta la strage, che il duca non ne ebbe notizia che quando era già in Toscana ;

       I cronisti modenesi e ferraresi, i più vicini, non ne ebbero notizia che dieci o dodici dì dopo che fu compiuta.

    ma saputala ne mostrò così vivo rammarico, che nella convenzione fatta, coi Fiorentini — affinché il caso non si rinnovasse —, volle formale promessa che si perdonasse a tutti coloro che avevano fatto contro la Signoria. Anzi nel luglio del 1502, quando fu a comporre la ribellione di Arazzo, disse al vescovo de' Soderini espressamente di volere il perdono ad ognuno, affinché la Signoria non facesse come Giovan Bentivogli, che l'anno prima "sotto la sua fede" aveva fatto mal capitare i Marescotti. perché egli altrimenti le "diventerebbe nemico capitale."

       "Dixe che bisogna perdoniate a ognuno, et non facciate come fece messer Giovanni Bentivogli l'anno passato che sotto la fede sua fece mal capitare molti etc. perché lui vi diventerebbe inimico capitale, dove pensa de havervi ad defendere sempre." Disp. Soderini 9 luglio 1502 da Urbino.

     II duca per tanto, presa la via di Bisano, si recò con l'esercito in Toscana, mentre il di 8 per la valle del Reno lo seguitava il protonotario Galeazzo Bentivogli con 300 cavalli e 2000 fanti. Da Bologna gli andò dietro m. Giuliano de' Medici con proposito di stare nel suo campo; ma egli lo fece fermare a Lojano, per non mostrare ai Fiorentini il contrario di quel che aveva detto, quando aveva assicurato l'oratore che da lui nulla avevano da temere.

       II Guicciardini dice che fu Pier de' Medici, ma per certo fu Giuliano.

    Né tanto meno, pochi giorni dopo, volle ricevere Pier de' Medici, che alle prime notizie era partito da Roma col vescovo de' Petrucci, e si era presentato ai confini del Senese. Nel suo campo aveva in vece fra i suoi famigliari Raffaele de' Pazzi e Marco Salviati delle famiglie che ebbero tanta parte nella congiura del 1478. Ma per quante proteste egli facesse, che non era per mutare lo stato di Firenze, ben pochi furono quelli che gli credettero, tanti erano i sospetti forniti da quell'assalto improvviso, con Orsini e Vitelli capitani. Fra i giudizi di molti, basta citar questo di Filippo Decio, che fu professore di Cesare nello Studio pisano: egli allora trovavasi in Firenze, dove era stata trasportata l'Università, a dettare l'opera De bonorum possessionibus, ma non poté restarvi a finirla per la calata del duca (adventum Caesaris Borgiae Valentini Ducis) che ostilmente Florentinos oppugnare conabatur. Ma pare che il grande giurista prima di aspettare la venuta del già suo discepolo, andasse ad insegnare a Pavia dove era stato chiamato; anche perché nell'anno 1500 non si erano fatte lezioni all' Università, non avendo i Fiorentini trovato i denari da pagare i professori.

       Historiae Academiae Pisanae, aut. A. Fabroaio. Pisis 1791.

     Giunti il di 7 maggio in Firenze m. Galeotto de' Pazzi e m. Remolino a domandare il passo, la Signoria il di 9 deliberò di mandare al duca tre oratori Pier Soderini, Alamanno Salviati e Jacopo Nerli per concedergli il passo alla sfilata, per diverse vie, senza entrare in terre murate, discosto dalla città, né menar seco Orsini e Vitelli od altri nemici e ribelli. Ma Cesare era già arrivato ai confini della Toscana. E già Ramazzotto capitano della montagna si era spinto sotto Firenzuola con molti partigiani . e per un tamburino aveva domandato quel castello "per parte del duca di Pier de' Medici e sua." Agli ambasciatori il duca diede in risposta che dai Fiorentini era stato offeso l' anno avanti nell' impresa di Forli e ultimamente in quella di Faenza, e che per potere giustificare quello che avevano in animo di fare, direbbe l'animo suo a Barberino. E quivi giunto, il 12, fece intendere agli ambasciatori che egli voleva buoni accordi con la città, una onorevole condotta e nessun impedimento all' impresa di Piombino, ma con buone cauzioni dei patti che assieme erano per fare, dubitando del presente governo: non parlo di rimettere i Medici, ma aggiunse che bisognava dare qualche soddisfazione agli Orsini ed ai Vitelli.

       II racconto del Buonaccorsi non discorda dal discorso del duca al Machiavelli: "Et così si pensassi per gli Orsini et Vitegli a qualche soddisfazione, e' quali domandavano per loro et per e Medici qualche cosa a loro proposito." Diar. di B. Buonaccorsi.
     "Il che testifica non avere mai, in ogni pratica tenuta, parlato, o poco o nulla, dei Medici, come sanno quei commissari che trattarono seco, né aver mai voluto che Piero venisse in campo suo." Disp. Machiavelli 7 ott. 1502.

    E tardando la città a prendere una deliberazione, discese a Campi, quasi alle mura di Firenze.
     Per queste minaccie la città fu nel più grande tumulto. La Signoria, non potendo vietare il passo e non volendo concederlo, si era lasciato precipitare addosso l'esercito senza prendere alcuna deliberazione ; e mentre raccoglieva in Firenze i pochi fanti che aveva e dal Borgo chiamava l' abate Basilio con 2000 comandati, a Giuliano da Sangallo che èra. commissario ad Empoli ordinava di sotterrare od anche gettare nell' Arno le artiglierie perché non voleva, se il duca gliele domandava in prestito "havergliele ad concedere né denegare."

       La lettera della Balìa 10 maggio 1501 é nel Carteggio di artisti pub. da G. Gaye, Firenze.

    Ma J. Nardi, allora giovane, biasimava la "pazienza asinina" di quei magistrati che con tanto vitupero della republica lasciavano quell'esercito alle porte della città, senza cacciarlo, e anzi sopportavano che i mandati del duca vi entrassero a cavar i danari delle offerte dalla cassa del giubileo, che si celebrava nella chiesa dei Francescani a Monte. Li biasimava pure N. Machiavelli, ma per tutt' altra ragione, per non avere essi conceduto subito il passo, "perché (come egli scrisse) sendo il duca armatissimo ed i Fiorentini in modo disarmati, che non gli potevano vietare il passare, era molto più onore loro, che paresse che passasse con permissione di quelli, che a forza."

       Discorsi su la prima deca di T. Livio, lib. 1 38.

    Ma allora non si trattava più di concedere il passo, ma di accettare la capitolazione : e la Signoria aveva da curare la salvezza della repubblica prima dell'onor proprio". Ond' ella non badò che a levarsi di dosso quelI' esercito, disposta a non mantener poi nessuno de' patti promessi.
     Del resto quelle minaccia erano fatte dal duca per il desiderio di concludere la capitolazione, e di levarsi tosto dallo stato di Firenze, perché il papa gli aveva mandato m. Trocces con un altro breve.

       "Supragionse Troces mandato da Alessandro VI in diligentia, et subito fece levare ambedoi gli eserciti". Pref. al. Clementìna del Casio.

    e perché egli restandovi più oltre non avrebbe potuto più rattenere gli Orsini ed il Vitelli, che agitati gli chiedevano continuamente licenza di presentarsi o a Firenze o a Pistoia, dentro le quali dicevan di aver buoni trattati ; ma égli non volle acconsentire, "anzi con mille proteste fece loro intendere che li avrebbe combattuti." In tale condizione, non insistette più oltre nelle cauzioni domandate, e accettò i patti che gli furono offerti. Come la capitolazione di Bologna fu tutta a profitto de' suoi capitani, così questa fu tutta a suo. Fu conclusa in Campi il dì 15 dal duca, "in proprio nome" e dai procuratori Cosimo de' Pazzi vescovo di Arezzo, Francesco dei Nerli e Alessandro Acciaiuoli. Promessa "buona ferma perpetua amici tia et legha" fra le parti, la Signoria convenne di dare al duca una condotta di 300 uomini d'arme per tre anni, con soldo di ducati 36,000 l'anno: da usare in aiuto e servizio di essa. Nella confederazione furono compresi anche gli aderenti, da nominarsi fra quattro mesi, fatta però eccezione dei nemici e dei ribelli ; il qual patto era a manifesto segno introdotto contro gli Orsini ed il Vitelli, come pure l'altro che faceva promettere al duca, che ni uno al soldo suo offenderebbe lo stato e le terre della Signoria.

       L'atto é nell'Append. al n. 36. — Fu già pub. nei Documenti per servire alla storia della milizia italiana rac. da G. Canestrini, Firenze 1851.

    Strana condizione di capitano e di soldati ! L' unica soddisfazione avuta da Vitellozzo, fu che fosse liberato m. Cerbone da Castello, cancelliere di Paolo.

       "Fu anche liberato per procaccio e opera del duca Valentino." Istor. fior. di J. Nardi, lib. 3.

     Fatta la capitolazione, il duca andò il 17 a Signa e l' altro dì ad Empoli, donde inviò un suo uomo alla Signoria a domandare l'imprestanza della condotta, cioé la quarta parte del soldo annuo prima di uscire dal territorio, e alcune artiglierie per l' espugnazione di Piombino ; ma la Signoria gli fece rispondere che nei patti mancava l'obbligo di pagare l'imprestanza, e delle artiglierie lo tenne in parola differendo di giorno in giorno la cosa. Da queste risposte poté intendere che la Signoria aveva fatta quella capitolazione solo per levarselo di dosso, e che non era per favorirlo in alcuna richiesta. Ond'egli non cercando ragioni di dolersi, pensò di provvedersi altrove, e trattenendosi per alcuni altri dì fra Castel Fiorentino e Poggibonsi, lasciò che i soldati suoi scorressero per tutto il paese, per dar tempo a Vitellozzo che era andato a Pisa a richiedere artiglierie a quei signori "per parte del duca Valentino e sua."

       "In questi di Vitellosso Vitelli venne in Pisa una notte e sino a dì con molti cavalli; e in Pisa li fu fatto grande onore, ed essendo al parlamento colla Signoria, rechiesse a' Signori Pisani, da parte del duca Valentino e sua, l' artigliarle de' Pisani per andare alla espugnazione di Piombino; e così fu concedute graziosamente". Memoriale di G. Portoveneri.

    Intanto egli fece una confederazione con Pandolfo Petrucci, che il 15 maggio ne aveva avuto mandato dalla Balia, e ne fu provveduto di munizioni e di vettovaglie.
     Il di 25 pertanto, presa la via di Val di Cecina, andò contro il signor Giacomo d'Appiano, il quale disposto a difendersi per quanto glielo consentivano gli aiuti a lui dati dai genovesi e dai fiorentini suoi confederati, dopo avere guastato il suo proprio territorio, con pochi fedeli soldati còrsi si era ridotto in Piombino. Fu facile al duca prendere alcune terre del littorale, sguernite ; ma prima di assalire la città, egli badò a prendere l'isola d'Elba, dalla quale solo poteva l'Appiano avere soccorso : e questo ebbe a notare Simone del Pollaiuolo, più assai accorto dei politici della sua repubblica, i quali andavano spacciando che il Valentino fuggiva i francesi.

       La lettera 8 giugno 1501 é nei Docum. al n. 38.

    Per ciò al finire del mese Lodovico Mosca capitano delle navi papali era partito da Civitavecchia con sei galee, tre brigantini e due galeoni, sui quali il duca montò con parte dell' esercito, lasciata l' altra a Sughereto ed a Porto Barato ; altre navi gli avevano mandato i Pisani con otto bocche da fuoco tra cortali e passavolanti. Preso il castello dell' Elba e poi quello della Pianosa, dopo pòchi di metteva l' assedio a Piombino, ma non poteva continuarlo in persona, essendo già arrivati in Toscana l'esercito francese che andava nel Regno. Egli quindi per la maremma si recava a Roma dove giungeva il 13 giugno ad aspettarvi il signor d'Aubigny, capitano generale, al quale si aveva ad unire.
     B. Buonaccorsi, uno dei cancellieri della Balia, é il solo dei cronisti fiorentini che lodi i suoi magistrati, perché fermi e pronti impedirono al duca di rimettere i ribelli o di alterare lo stato, e gli fecero concludere una lega che egli "non potendo cavar altro" accettò, sebbene sapesse che la città non la poteva né la voleva osservare. Veramente questo buon giudizio fu ben meritato da questi uomini che poi furon giudicati degni del "limbo dei bambini." Ma il Buonaccorsi ed i suoi s'ingannarono, quando credettero che le minaccie del re fossero la principal cagione a far partire il duca dalla Toscana ; e sperando di essere ritornati nella grazia regia, mandarono a far querele di lui al card. di Rohan che ai primi di luglio giungeva in Milano. E se ne accorsero subito dall'esito delle loro pratiche in favore del signor d'Appiano : nell'istruzione data ai loro ambasciatori, si affrettarono a raccomandarlo per l'onor loro, dicendo che quegli era stato lor soldato e confederato, e mostrando il pericolo in cui erano se quello stato veniva nelle mani del duca, cui essi negavano l' osservanza della fatta capitolazione.

       "Raccomandate le cose del signor di Piombino per honor nostro, lo Stato del quale sapete quanto importi al nostro, e di che pericolo quando venisse in mano d' altri". L' istruz. é cit. nella memoria di S. Ammirato, Della Famiglia Appiana.

    Ma il cardinale era troppo amico del papa, che gli dava la legazione di Francia, per tener conto delle loro raccomandazioni. Né migliore effetto ebbero le preghiere che il povero signore fece al re in persona. Alla fine del mese, egli con un suo figliuolo fuggiva per mare a Livorno, lasciata la rocca a' suoi fedeli, e andava a Lione alla corte del re per rammentargli i servigi prestati alla parte francese ; ma il re gli fece rispondere che non l'avrebbe ricevuto, se prima non si accordava con la Chiesa. Disperato, egli domandò altri aiuti ai Fiorentini, ai Genovesi ai quali perfino fece promessa di vendere lo stato ; ma da tutti fu abbandonato. Dopo due mesi di assedio i cittadini di Piombino si diedero liberamente ai capitani del duca, e gli consegnarono la terra ; la fortezza si sostenne ancora per alcuni dì, ma poi anch'essa dovette arrendersi.

    III.

     Cesare entrò in Roma la sera del 13 giugno, con pochi de' suoi, senza alcuna pompa, e stette sempre segretamente nel Palazzo, come per isfuggire i fastidì della Corte. Il cerimoniere Burcardo notò questa segretezza, parendogli quasi sconveniente in lui che dalla Santa Sede era stato ricolmo di tanti favori. Giammai figliuolo di papa aveva avuto come lui tanti stati della Chiesa, ma secondo Alessandro VI assai più ne meritava per "i doni della esimia fedeltà circospezione e prudenza e gli altri che il Signore gli aveva elargito," e anche per "la provata esperienza abilità e devozione sua verso se e la Chiesa." Onde gli aveva dato Pesaro, Rimini e Faenza, e ultimamente il 1° giugno gli dava anche Castel Bolognese, perché considerando quanto egli aveva fatto per ricuperare alla Chiesa quelle città, scacciandone i vicarî ribelli. nullis expensis, nullis laboribus, nullisve periculis parcendo, non aveva altro modo, onde rimunerarlo de' tanti meriti suoi.

       Dei particolari brevi si ha cenno nella bolla 1° giugno 1501 che é riport. nei Docum. al n. 35.

    Né gli bastava averlo fatto signore di Romagna : di un nuovo titolo lo volle insignito, e in concistoro lo proclamò duca: il 15 maggio Cesare, quando fece la lega a' Campi, portava già quel titolo di duca di Romagna. E prima di partire per l'esercito, gli donò anche Fano.
     In questi giorni che rimase in Roma, il duca attese a dar ordine al suo stato come richiedevano e il nuovo titolo e le nuove città che gli erano state concesse. Vi lasciò luogotenente generale il vescovo d'Isernia Giovanni Olivieri; ma forse per non distrarlo dalle cure del governo, come l'altra volta, non diede a lui la procura per la presa di possesso di Pesaro e Fano: il papa ne diede incarico al card. Giovanni Vera legato di Macerata, e il duca al suo segretario ser Agapito da Amelia. E perché anche le vecchie città del dominio avevano da prestar nuovo giuramento, forse per la perpetuità del vicariato, andò in Romagna uno dei card. Borgia, o Francesco o Lodovico, il quale il dì 4 luglio ricevette quello dei Cesenati. Gli eruditi non concordano nell' assegnare i confini della Flaminia o della Romagna: da Giovanni Nannio si vuole che si estendano da Bologna a Rimini, e secondo Flavio Biondo da Pesaro ad Imola od anche che li costituiscano la Foglia ed il Panaro.

       "Flaminiae vulgo Romandiola.... Durai hujus regionis longitudo a Bononiae usque pot. Ariminum in Rubicone fluente". Com. Sempronî De Italia.
     "Sed nos consuetudini adhaerentes jam inveleratae fines Romandiolae intra Foliam et Panarum.... constituemue". Italia il lustrata.

    Ma Alessandro VI che aveva unito Pesaro al ducato, non perché fosse compresa nella regione della Flaminia o della Romagna, ma affinché per la sua vicinanza alle altre città potesse esser meglio governata, — come sembra — non tenne molto conto delle opinioni degli eruditi e dei geografi, quando donò a Cesare anche Fano. L' 11 luglio, avuto il breve, i Fanesi si adunarono nel Consiglio e ordinarono falò e spari per celebrare quel primo di dello stato e del dominio di Cesare:

       Il cancelliere della Comunità intesta cosi il libro consigliare : "Primo die felicissimi status et devotissimi domini Ill.mi et potentissimi D. N. D. Caesaris Borgiae Romandiolae Valentiaeque Ducis et S. R. E. confalonerì et capitanei generalis etc. Plumbini Domini, Faventiae, Imolae, Caesenae, Arimini, Pisauri, Fani etc." Arch. com. di Fano.

    poi il 21 nel duomo dove erano stati convocati per pubblico editto gli Anziani il Consiglio ed il popolo, davanti al card. di Salerno e a ser Agabito, gli Anziani toto populo adstante et nomine totius populi giurarono sul messale aperto sull' altare fedeltà obbedienza e servitù perpetua al duca per sé figli e nipoti. Il cancelliere della Comunità, frammettendo ai suoi resoconti inni di lode, così scrisse del nuovo signore:


    Pro decus immensum: prò seclis gloria nostris
    Gloria plns nnquam nulli quae contigit aevo.
    Fata dabunt annos Caesar quot in orbe moretur
    Nullus eum aequabit: sua nec regalia gesta
    Caesaris imperiimi nostri dncis ecce per omnem
    Italiam jam jam colitur, procedit, amatur.

     Di questa città, l' ultima del suo stato, Cesare volle che fosse governatore e vicario perpetuo il card. di Salerno, dei consigli del quale egli più volte ebbe a valersi nel governo della Romagna, scegliendo lui arbitro in questioni che al vescovo Olivieri non era dato di sciogliere. Con quell'onore il duca intendeva rimunerare il precettore suo. del quale nome, egli —che era salutato il principe più potente d' Italia — assai si compiaceva di chiamarlo. Anche il.Justolo, dedicando un suo carme al card. Vera, lo appella: Caesaris praeceptorem.

       Nel carme "Ad Io. Verham cardinalem Salernitanum Caesaris praeceptorem" il Juatolo ne fa quest'elogio:
    Nec minus ipse tuus Cassar tibi debet alumnus,
    Verha pater : iuvenum quem nulla ex parte mineorem
    Eacide, licet ille dea sit matre superbus,
    Aetati eduxit nostrae tua provida cura
    Artibus instructum belli pacisque decoris.

     Nel confermare al duca la donazione di Castel Bolognese, il papa con la bolla concistoriale del 1° giugno gliene aveva ampliata la giurisdi zione, cedendogli ogni diritto o dominio che potesse competere o alla Camera apostolica od alla stessa Comunità. I cronisti romagnuoli e bolognesi di quel castello decantano la bellezza, e Fileno non esita a dirlo il "più bello castello de Romagna" con rocca ben munita, circondato tutto attorno da mura e da profonde fosse; ma tanta bellezza non gli valse : il duca ordinò che la rocca e le mura fossero atterrate, e appianate le fosse. Il 16 luglio don Remiro di Lorqua, andato a Castel Bolognese, fe' convocare quel Consiglio e gli partecipò l'ordine ricevuto: quegli uomini gli chiesero tempo per mandare alcun di loro con una supplica al papa e al duca, ma egli mostrò la commissione avuta, dicendo che era inutile l'invio dell'oratore.

       "Allora dito m. Ramiro respose dicendo si vostre nobiltà non ave altre facende a Roma che queste, non fa bisogno che per questo voi ce andate, dicendo io sciò come el papa e 'l duca commise". Cron. ms. di A. Bernardi.

    E il 21 mandativi mille guastatori, il castello fu distrutto. Il buon Bernardi confessa di non aver mai potuto intendere il perché di quell' ordine, solo udì dire per un epitaffio che vi era. il quale lo diceva murato dai Bolognesi. Ma, ammessa anche questa, altre dovettero essere le ragioni di quella distruzione, se anche altri castelli di Romagna ebbero da patirla. Il mese dopo, in agosto, il castello di S. Arcangelo fu guastato dal commissario ducale Pirro Visconti cesenate, salve le mura: quella Comunità nel supplemento dei capitoli ad essa in novembre accordati volle promessa che le mura della terra non fossero rovinate.

       "Qui S. Arcangelo oppidum incenderet; abstinet is direptionibus tamen mulctat". Diar. Caesen. — V. il decimo dei capitoli del Supplemento al n. 44 dei Docum.

    E la stessa sorte era minacciata alla rocca di Solarolo, per conservare la quale quegli uomini si obbligarono a pagare lo stipendio del castellano.

       Se ne trova questo cenno in un conto delle entrate e delle spese di Russi Granarolo e Solarolo fatto dagli agenti ferraresi nel dicembre del 1501. "Al castellano de Solarolo lire sexanta, et era notato che li homini pagavano dicte lire sexanta et mi exprimer la causa per chè lo Ilmo. Duca de Romagna volea spianare la rocha, et però li homini se obligarono a pagare il castellano." Arch. di Stato in Modena.

     Altre dunque dovettero essere le ragioni di queste distruzioni. Nell'arte della difesa degli stati due opinioni erano in contrasto, di quelli che sostenevano la necessità che ogni più piccola terra fosse munita, e di quelli che credevano che tante fortezze fossero di danno, perché in pace importavano una inutile spesa e in guerra ben a poco servivano. E in quel momento appunto il contrasto era evidente. Negli stessi giorni, ne' quali i pericolosi castelli di Romagna erano atterrati, le innumerevoli rocche del duca d'Urbino e del signor di Sinigallia erano visitate dallo stesso ingegnere che ne aveva fondato alcune, perché cosi munite dovessero fra pochi mesi arrendersi con tanta facilità : erano di fronte l'un contro l'altro due dei più grandi ingegneri militari del secolo, Francesco Martini

       Il Martini visitava le rocche dello stato di Sinigallia nel giugno 1501. V. la Vita di Francesco di Giorgio Martini di Carlo Promis, Torino 1841.

    e Leonardo da Vinci.
     Da alcuni mesi Leonardo era architetto ed ingegnere generale del duca di Romagna. Egli era stato in Lombardia fin dopo la presa del duca Lodovico suo signore in Novara, come appar da una nota lasciata in un codice di suoi disegni: "Il duca ha perso lo stato e la roba e la libertà, e nessuna opera si finì per lui." Poi con fra Luca Pacioli da Borgo S. Sepolcro partendo da Milano nel maggio o nel giugno del 1500 ritornava in Firenze, e per sei mesi abitava in casa dello scultore Gianfrancesco Rustichi, quasi inoperoso. Fatto gonfaloniere della repubblica per il bimestre di marzo ed aprile del 1501, Pier Soderini, si provò di favorire il grande artista, e parlo di commettergli qualche lavoro; si dice anzi che volle fargli allogare il marmo dell'Opera di S. Maria del Fiore, donde poi Michelangelo cavò il David :

       Il Vasari, confondendo in uno i due gonfalonierati del Soderini, nella Vita di Michelangelo, scrive : "Pier Soderini fatto gonfaloniere a vita di quella città, aveva avuto ragionamento molte volte di farlo condurre a Leonardo da Vinci". De' favori avuti dal Soderini, parla anche fra Luca Paciolo nel cap. 6 dell' Architettura. — L'errore del Vasari é indubitato. Gli atti che allogano il David a Michelangelo sono dei 2 luglio e 16 agosto 1501, e la nomina di Pier Soderini a gonfaloniere perpetuo é del 22 settembre 1502, più di un anno dopo.

    ma la brevità del governo e la miseria di quei "falliti mercanti" glielo impedirono. Allora il Vinci partì da Firenze, e richiedente o richiesto andò ad offrire i proprì servigi al duca in Romagna, la cui liberalità e splendidezza non era principe d'Italia che sorpassasse: forse arrivava al campo ducale poco prima della resa di Faenza, nell'aprile di quest'anno 1501. E il duca, accettatolo a' suoi stipendi, andando egli in Toscana all' assalto di Piombino, lo lasciò in Romagna, dove forse era anche il Bramante. Dei lavori che il Vinci vi condusse, solo di alcuni trovasi cenno, o in qualche memoria di vecchie storie romagnuole o anche nella tradizione che rimane ancor viva in Imola ed in Cesena. Suo fu probabilmente il consiglio di diroccare Castel Bolognese e di farne una terra aperta. Certo é che quel fortilizio fu distrutto, perché — essendo tra Faenza e Imola — era di troppo pericolo a conservarsi da un assalto dei Bolognesi — come da un assalto dei Feltresi era il castello di Sant'Arcangelo. È detto pure che opera di Leonardo fu rono le fabbriche erette per l'alloggiamento degli uomini d'arme nel luogo del distrutto Castel Bolognese, il quale — affinché dei suoi fondatori non restasse più alcuna memoria in Romagna — il duca ordinò che dal proprio nome di lui fosse chiamato : Terra Cesarina.

       Il Cerchiari nel Compendio della storia d'Imola afferma positivamente clle al Vinci fu commesso di costrurre Terra Cesarina. Quali documenti vide? — E quindi erroneo quanto scrive nella Descrizione d'Italia frà L. Alberti, allorché narra che il Valentino atterrate le mura di Castel Bolognese, ne scacciò gli abitanti, volendo che fosse albergo de' suoi soldati.

    Forse di altri ingegneri furono il ponte ad un sol arco sul fiume Ronco, e la nuova cortina della fortezza di Forlì finita in questi mesi, come appare dall'iscrizione che ancor si legge sotto l'arma che vi é murata, nella quale é fatta memoria di Cesare già duca di Romagna. Ma probabilmente é il Vinci quell' architetto ducale che in agosto fece il disegno di un canale navigabile dalle mura di Cesena al Porto Cesenatico, dove pure oggidì si dicono di lui i lavori che vi si eseguirono, onde quel porto anche molti anni dopo fu detto il più commodo ed il più bello della costa adriatica. eccetto quel di Ancona. Praeclarum opus (nota lo scrittore del Diario cesenate) summaque dignum laude illud piane fuisset.

       "Augusti mense (1501) Borgia Architecto suo id negoci dedit, ut a Caesenatico Porta usque Urbis moenia quemadmodum alveus duci posset, lineamentis estenderei". Diar. Caesen.

     Ma il Vinci non si trattenne molto in Romagna, e ai primi di settembre ritornava a Roma a ritrovarvi il duca, poiché in alcuni lavori ivi compiuti dopo agosto, si vuole riconoscere la mano di lui. E fa credere alla sua partenza una lettera che appunto ai 19 di settembre del 1501 Ercole d'Este scrisse al suo oratore a Milano. Egli fece domandare al card. di Rohan la forma del cavallo che il duca Lodovico aveva fatto modellare per la grande statua in bronzo di Francesco Sforza, primo duca di Milano di sua casa, volendo l' estense farvi gittare il cavallo del monumento che voleva erigere a se stesso; ma il cardinale gli fece rispondere di non potere dargliela, perché il re — quando era stato in Milano, l' aveva veduta ed ammirata. — In quella lettera il duca Ercole dice che quella forma "fu facta per uno m.ro Leonardo, quale é bono maestro in simile cosa."

       V. la memoria su Leonardo da Vinci del march. G. Campori inser. nel vol. 3° Atti e Memorie della Dep. di star. patr. Modena 1865.

    E in bocca a un duca non era questo un piccolo elogio di un' opera che fra Luca Pacioli descrive "admiranda et stupenda." Quali grazie si concedessero alle nuove città aggiunte al dominio si ignorano, eccetto alcune a Faenza. In una lettera in cui descrive la difesa il Zaccaria ebbe a credere, che Cesare avrebbe tenuto i Faentini tanto più cari, quanto più sarebbero stati fermi nell' assedio ; né si ingannò. Il duca costituendo vicario per un trimestre in Faenza Giacomo Pasi esimio cittadino, della sua fedeltà, nel diploma del 1° maggio, dice di confidare — come se, essendo egli stato uno dei Sedici sopra la difesa, avesse meritato la fiducia sua, per la fedeltà mantenuta ad Astor Manfredi. I cittadini ebbero la esenzione dimandata nei capitoli, ed ai contadini fu fatta grazia di 2,000 ducati per ristorarli de' danni patiti durante la guerra.

       La grazia si rileva dalle Petitiones dei Faentini alla Signo rìa veneta del 22 maggio 1504, nelle quali si chiedono risarcimenti a' contadini "acciò non sentano minor dolcezza et gratia della Serenità vostra di quella li fece il duca Valentino il qual ducati duoi milla havuta la Terra quodammodo per forza ecc." Bibl. comunale di Faenza.

    In questi giorni gli Anziani supplicarono il papa, affinché alle suore camaldolesi fosse conceduto di costrurre in città un monastero, essendo stato distrutto nell'assedio dai cittadini quello che prima avevano sulle fossa a porta Clavacina o dell'Ospedale: il papa in un breve del 12 luglio al vescovo di Faenza commette di compiacere gli Anziani, alle preghiere dei quali anche quelle del duca dice essersi aggiunte.

       Il breve 12 luglio 1501 é nei Docum. al n. 39.

     Mentre però i Faentini erano ricolmi di tanti favori, il loro amato Astorre correva pericolo di perdere la libertà. Caterina Sforza, condotta dal duca a Roma, prima era stata messa in alcune stanze del Belvedere di Innocenzo VIII, ed ivi era rimasta per alcuni mesi custodita, poi — perché, come si disse, aveva tentato di fuggire — era stata rinchiusa in Castel S. Angelo, in una "clemente prigionia". Poche notizie si conoscono del processo intentato contro di lei, per la credenziale attossicata che di suo ordine si volle spedita al papa per farlo morire ; l' unica notizia che ne rimane é questa di A. Bernardi, il quale nella sua Historia racconta, che il papa ordinò il paragone fra Caterina e quel Tommasino Cospi forlivese, musico, il quale stando al Burcardo, appena arrestato, confessò il delitto da commettere, dicendo di avere tentato di far morire Alessandro per liberar dall' assedio Imola e Forli ; ma che ne avvenisse si ignora : il cronista conclude il suo racconto con queste parole : "Tamen ogni suo paragone alli piedi di sua Santità io mai per alcun tempo il potei intendere." Per certo il processo mancò. E Caterina il 26 giugno fu liberata, forse perché mons. d'Allegra allora giunto in Roma ebbe a ricordare al duca la promessa a lui fatta di tenere e di far tenere madonna a richiesta del re di Francia. Ma le porte del castello appena si apersero davanti ad un prigioniero, che tosto si rinchiusero dietro un altro. Ritenuto dal duca con tante buone dimostrazioni, Astorre lo aveva accompagnato a Roma ; ma poiché il duca fu par tito per la guerra di Napoli, egli fu chiuso nel castello per quale pretesto si ignora,

       "La Madonna di Forlì é stata licentiata da Roma, et sé reducta a Fiorenza. El signor di Faenza, é sta messo in castello Santo Angelo, et lo teneno serato li cum buona custodia". Disp. Calandra 20 luglio 1501 da Urbino.

    non certo per quelle ragionevoli cause (ex cerlis rationabilibus causis) per le quali il papa scrisse ai Fiorentini di aver tenuto Caterina in una clemente prigionia di alcuni mesi, e loro la raccomandò.
     Intanto, il 25 giugno, gli ambasciatori francesi e spagnuoli, ammessi in conci storo, notificavano il trattato che Luigi e Ferdinando avevano fatto assieme per la divisione del Regno. E il papa immediatamente pubblicava la bolla in data di quel di, nella quale si dichiarava Federico privato del Regno per avere disubbidito alla Chiesa e chiamato il Turco in Italia, e se ne dichiaravano infeudati i Reali di Francia e di Spagna, in modo che Napoli la Terra di Lavoro e gli Abbruzzi toccassero a Luigi con titolo di regno, e la Calabria e la Puglia a Ferdinando con titolo di ducato. Dopo questo il signor d'Aubigny partiva con i francesi da Roma, e Consalvo sbarcava con gli spagnuoli in Calabria. Il duca conduceva seco 1,000 fanti che il papa aveva assoldato in Roma e 100 lance di Morgante Baglioni, oltre i suoi e la compagnia di mons. d'Allegra.

       Non é dunque vero che il d uca seguitasse l'esercito "non con altre genti che co' suoi gentiluomini e la sua guardia" come narra il Guicciardini. Vedi anche il Docum. n. 40.

    Egli certamente non partiva prima del 10 luglio della qual data é un suo editto contro gli offensori dei suoi ufficiali in Romagna.
     Mandato il figliuolo a Taranto, Federico aveva raccolta la maggior parte del suo esercito con Fabrizio Colonna e Rinuccio da Marciano a Capua, dove sperava di sostenere l'impeto dei francesi, mentre egli dopo essere stato qualche giorno ad Aversa si ritirò a Napoli con Prospero Colonna. Gli Orsini incominciarono la guerra prendendo le terre e lo stato di Tagliacozzo già di Virginio, che l'aragonese aveva dato ai Colonnesi. Alla metà di luglio tutto T esercito fu sotto Capua, e il 24 si diede l' assalto : respinti dalle mura, i francesi, rotta una porta, penetrarono nella città, e nelle strade e nelle case continuarono una orribile battaglia, nella quale si disser morti più di 400. I capitani dovettero cavalcare per le vie, gridando che non si ammazzasse più ma che si facessero prigionieri. Degli abitanti molti erano usciti prima dell' assedio, i pochi rimasti assistettero ad un orribile sacco.
     In questa presa di Capua dicono alcuni che il duca ebbe gran parte, per far cadere su lui alcune delle tante enormezze che vi furono com messe: il Burcardo nel suo diario nota assolutamente che Papa habuit nova de Capua capta per ducem Valentinum. Si racconta adunque che i soldati tolsero dalle case e dai monasteri le più belle donne "molte delle quali furono poi per minimo prezzo vendute in Roma" e che avendone trovate molte altre in una torre dove si eran rifuggite, il duca "le volle vedere tutte e con sideratele diligentemente ne ritenne quaranta delle più belle." Questo almeno racconta il Guicciar dini. Ma nessuno dei cronisti ne fa parola. Anzi é da notarsi che uno storico capuano, il quale ebbe a leggere le descrizioni che di quel sacco fecero Niccolo Pellegrino ed altri cittadini che lo videro, nel riferire la scelta delle quaranta fanciulle, si rimette non a questi testimoni, ma al Guicciardini istesso. l Ma di altre crudeltà é accusato. Fra i molti prigionieri di conto che furono presi, i principali erano Fabrizio Colonna e Rinuccio conte di Mar ciano, al quale da Federico era stato donato il ducato di Gravina: su loro si dice che il duca volle esercitare le sue vendette. Il Roseo pertanto narra che egli propose una grossa taglia, perché a lui come ribelle della Chiesa fosse consegnato Fabrizio Colonna "con animo di farlo morire ;" e il Guicciardini racconta che Rinuccio ferito il dì dell' assalto da una freccia di balestra "es sendo in mano d' uomini del Valentino, sopra visse duoi giorni, non senza sospetto di morte i Storia civile di Capua di F. Granata, Napoli 1752. — Per conto suo il Granata fa precedere il racconto della strage da una lunga fola, nella quale confondendo tempi e persone vuoì dire, che la prima moglie di Federico "fu la principessa della Valle Bertanica dell'illustre famiglia di Alibret di sangue reale dalla quale n'ebbe una figliuola già detta Carlotta," che il Valentino domandò questa figliuola al re Federico con il ducato di Capua, e che allora con quel sacco prese vendetta del rifiuto della città stessa ecc. procurata." Ma neppure di questa crudeltà i cro nisti parlano. Il Colonna fu rilasciato subito, aven do Gian Giordano Orsini generosamente promesso per lui al capitano francese che chiedeva 15,000 ducati di taglia, e andò a Napoli. E il Marciano o mori delle sue ferite, o fu finito da Vitellozzo ; il Giovio ritiene che questi gli facesse avvelenare le ferite, per vendicare su lui la morte di Paolo suo fratello. Non di meno il Matarazzo che tante lodi fa di questo suo grande perugino, né Vitellozzo né il Valentino incolpa, ed egli era tale, che se avesse soltanto udita l' accusa, non l' avrebbe per certo taciuta nella sua cronaca. Perduta Capua, e poco dopo anche Gaeta, Federico non poté più sostenersi . e prima che i francesi fossero alle porte di Napoli, con i suoi e con Prospero e Fabrizio Colonna, il 3 agosto si ritirò nell'isola d'Ischìa. Nel giorno stesso en trò in Napoli il duca accompagnato da molti ba roni e gentiluomini napoletani fuorusciti, con i quali egli precedette il capitan generale. A ve derlo entrare in quel modo, si intende la indi gnazione da cui fu preso Tristano Caracciolo, quan do narrando i fatti della sua città ebbe ad im precare ad Alessandro VI, perché quello stesso figlio che legato aveva spedito ad incoronare il re Federico, egli volle rimandare condottiero di pre doni a rovinarlo. ' Ma Federico ritirato ad Ischia do i "Et quem Praesulem ad firmandum Regem Pontifex miserat, eumdem fllium latronum Ducem ad perdendum redire vo- Juit". De regibus neapolit. inandò subito un salvacondotto per potere restare sei mesi nell' isola, con patto di ritirare dai ca stelli napoletani le sue robe e le artiglierie, gran parte delle quali vendette poi al papa; e nell'ac cordo si obbligò di cedere ai francesi tutte le for tezze che ancora si tenevano per lui nella parte che per la divisione era toccata al re di Francia. Egli preferiva di capitolare con il vecchio nemico della casa d'Aragona, piuttosto che col parente che l'a veva assalito, simulando di dargli aiuto. Pochi giorni dopo il salvacondotto, giunse al duca un valletto del re con lettera dell' 8 agosto da consegnargli, e con una istruzione particolare. Il messo gli notificava che il re lo ringraziava di gran cuore dei servigi a lui prestati nel conquisto del Regno, e lo assicurava che fra breve ne avrebbe visto gli effetti negli affari suoi : gli commetteva poscia che, lasciata la sua compagnia nel Regno, alle altre genti da pié e da cavallo che seco ave va condotto, desse alloggiamenti oltre i confini, in luogo tale che potessero esser pronte al bisogno; e aggiungeva che questo provvedimento era ne cessario per dar sollievo al paese che tant' armati avrebbero dovuto sostenere durante i sei mesi del salvacondotto accordato al re Federico. In fine gli raccomandava di dare tali ordini a quelle trup pe da farle vivere senza ruberie. l Era il duca ancora in Napoli quando ebbe no

     

    1 Una copia dell'istruzione 8 agosto 1501 é nei Docum. al 11. 40, tratta dalla Biblioteca nazionale di Parigi. tizia che il matrimonio di Lucrezia con Alfonso d'Este era concluso. Prima della sua partenza da Roma, le pratiche erano così avviate che il duca Ercole cercava solo di ottenere dal Papa una grossa dote, ostentando il sacrificio che faceva con la rinunzia di una principessa francese, pro postagli dal re : domandava la remissione del ca none del vicariato per sé, il vescovato di Ferrara per il card. Ippolito che anni prima da Alessan dro era stato conferito ad un nipote, e 200,000 ducati di dote per Alfonso. Alla fine di giugno Ecole, per assicurarsi della grazia regia, aveva fatto rappresentare al re dal suo oratore, che il papa — se egli non accondiscendeva alle nozze — lo mi nacciava di togliergli lo stato;1 e Luigi gli aveva risposto che vivesse sicuro della sua protezione, aggiungendo anche, che quando il matrimonio non si fosse fatto, egli sarebbe stato sempre pron to a dare ad Alfonso la principessa che gli avesse domandato. Ma il card. di Roano, che meglio sapeva l'intenzione del suo re gli fece comprendere che da Luigi era desideratissimo quel matrimonio, perché con esso compiaceva il papa, del quale fa ceva la maggiore stima di qualunque altro poten tato d' Italia. E il card. Ferrari datario, suo sud dito, gliene faceva conoscere continuamente il comune vantaggio. In luglio pertanto, giunto il

      * Una lettera di don Remiro ad Ercole, in data 10 luglio 1501, fa conoscere che il duca Cesare aveva dato ricetto in Romagna ad alcuni della famiglia Dal Ferro da Lugo banditi dall'estense. V. il n. 41 dei Documenti.

    card. d' Amboise in Milano, Cesare gli mandò un suo segretario m. Agostino Huet, e le pratiche furono condotte a termine col mezzo anche della buona interposizione del card. della Rovere che pure in quei giorni era a Milano: il contratto fu stipulato in Roma da procuratori il 29 agosto. Il papa avrebbe voluto che Alfonso fosse andato subito a prendere la sposa ; ma Ercole che rinunciava alle nozze francesi solo per i grandi benefìci che gli si promettevano, volle aspettar di averli prima di mandare il figliuolo.
     Cesare ritornava a Roma il 15 settembre, dopo aver rioccupato il feudo di Corata che apparteneva alla sorella Lucrezia. Si calcolo che il re di Francia per gli aiuti prestati nella guerra, gli avrebbe dato più di 20.000 ducati in tante entrate nel Regno, e altri 20,000 ducati in altrettante entrate il re di Spagna: forse furon quelle del principato di Andria, del quale poco dopo nei diplomi appare insignito, appartenuto già a Federico prima di essere fatto re. Si dice che Luigi e Ferdinando gli dovettero dare tante rendite per esentarsi dal tributo di Napoli, che pur non consisteva che in una sola ghinea. Egli in buon punto giungeva in Roma ad assistere alle deliberazioni che il papa prendeva per la sua famiglia. Il dì 20 agosto era stata pubblicata una bolla, nella quale, accennando a quanto i Colonna ed i Savelli dal pontificato di Sisto IV in poi avevano operato contro la Chiesa, Alessandro li dichiarava incorsi nella scomunica e rei di lesa maestà, non eccettuato il vecchio card. Colonna, e ordinava la confisca dei loro beni, già occupati.

       Memorie colonnesi di A. Coppi, Roma 1855.

    Poco prima egli stesso era andato ad espugnar Sermoneta dei Castani : fu allora, nei cinque giorni che stette assente da Roma, che si disse affidasse a Lucrezia rimasta sola in palazzo il governo dello Stato e della Chiesa, anche con facoltà di aprire le lettere apostoliche; almeno così il Burcardo sarcasticamente racconta. Di tutte queste terre tolte ai Colonna Savelli e Caetani, con altre bolle del 1° e del 17 settembre il papa fece due parti, e ne diede una all'infante Rodrigo col titolo di ducato di Sermoneta, e l'altra col titolo di ducato di Nepi e di Palestrina ad un infante di casa Borgia, di nome Giovanni, da lui pochi giorni prima riconosciuto e legittimato.

       V. i Documenti borgiani dell'Archivio di Stato in Parma; ilì. dal cav. A. Ronchini. Atti e Mem. delle Rii. Deputazioni di storia patria dell'Emilia, Modena 1877.

    Con altre lettere furono deputati curatores dei due infanti i card. Alessandrino e Cosentino ed altre quattro persone. Nello stesso concistoro del 17 fu pure letta la bolla, sottoscritta da ventitré cardinali, con la quale il papa confermava agli Estensi l' investitura di Ferrara e degli altri luoghi posseduti in Romagna, estendendola in perpetuo e riducendo di un terzo il censo dei 4,000 ducati, cui da Sisto IV erano stati obbligati: il papa esplicitamente dice di conceder queste grazie per i discendenti di Alfonso e di Lucrezia.

       La bolla é in parte riportata nelle Antichità estensi.

    Quell'infante Giovanni che in quel momento apparve nella famiglia Borgia, e ne fu oggetto del più grande amore, era figliuolo di Cesare ? In un breve del 1° settembre il papa, legittimando quel bambino dell'età di circa tre anni, afferma che Cesare lo ebbe da una non disposata ; ma in un altro breve dello stesso giorno dichiara che il difetto della sua nascita per buon rispetto ta ciuto nel primo . non viene da Cesare ma da lui stesso, e lo mette negli stessi diritti degli altri suoi figli. Questo breve però dovette non essere pubblicato, perché in altri di data posteriore il papa continua a chiamare Giovanni o figliuolo di Cesare o proprio nipote : sembrerebbe quindi che il primo fosse fatto per il pubblico ed il secondo per la sola famiglia. Ma di chi era figliuolo? Se era suo, perché Alessandro doveva ricorrere all'artificio di farlo passare sotto il nome di Ce sare, per aver subito da dichiarare che era di lui stesso e di quella donna nubile? E se era di Ce sare, perché tale dichiarazione ? La cosa non é facile a spiegarsi. Ad ogni modo delle due con getture é più probabile la seconda, cioé che fosse del duca. Infatti si nota che nei due brevi il fan ciullo é indicato in modo diverso, poiché, mentre nel primo é detto Caesare soluto genitus et sa luta, nel secondo é appellato Caesare coniugato genitus et saluta, forse per rispetto al tempo pre sente e non a quello in cui egli nacque, perché nell'agosto o nel settembre del 1498 Cesare era ancor libero. Ora figliuolo di Cesare ammogliato, — 217 — l'infante non aveva alcun diritto a' suoi beni, né a quelli di casa Borgia. Onde é improbabile che il papa per compiacere a Cesare, mettesse que st'unico fanciullo di lui nei diritti degli altri suoi propri figliuoli ? Se non é improbabile, é spiegata la dichiarazione fatta dal papa nel secondo breve, appunto — come egli dice — per togliere all'infante ogni impedimento al possesso dell'eredità. Per il matrimonio di Lucrezia, nel palazzo fu rono date alcune feste dal papa e dal duca. Gli oratori ferraresi andati il 23 settembre a visitare Cesare, perché li ricevette sdrajato sul letto, ben ché vestito, lo credettero ammalato, avendolo vi sto la sera prima ballare continuamente, senza posa; ma poi seppero che quella notte stessa ballò di nuovo nelle stanze del papa, dal quale Lucrezia era stata invitata a cena. Altra volta, il 6 ottobre, gli oratori ebbero occasione di parlare con lui. Presentata la lista del corteo che aveva da an dare a prendere la sposa in Roma, il papa fece chiamare i suoi consiglieri il card. Orsini e il duca, il quale "particolarmente la commendò di mostrando di conoscere parecchie delle persone nominate" e si mostrò "gratissimo" a G. Sa raceni che gliela lasciò. Gli oratori fecero gran conto della visita loro accordata, perché — come scrissero — era una grazia che solo i cardinali potevano ottenere. Questa difficoltà di avere udien za da lui é accennata in seguito anche da altri ambasciatori ; il Burcardo aveva già detto in giu gno di lui, mansit in palatio scerete: e forse — 218 — veniva dalla ripugnanza che egli aveva alle noje del cerimoniale, e dal modo di vita che amava di condurre in quella corte di preti. E in fatti gli oratori ferraresi ritornati da lui l'8 ottobre, non furono ricevuti, onde avendone parlato al papa, Alessandro se ne mostrò dispiacentissimo, dicendo che era quello un suo vizio per far di notte gior no e di giorno notte, e che anche gli ambascia tori di Rimini erano in Roma da due mesi, sen z'aver mai potuto aver udienza da lui; onde quel suo modo di vivere gli dispiaceva sino al cuore, perché "non sa se sua Sig.ia riuscirà a conser vare il conquistato. '" Ma forse il duca aveva un'altra ragione di non ricevere i riminesi. Le feste furono interrotte, essendo il papa e Cesare andati a Civitacastellana ed a Nepi per alcuni giorni, durante i quali Lucrezia come l'al tra volta fu — secondo il Burcardo — lasciata reggente nel palazzo. In quella andata Alessandro vide i lavori che il duca faceva fare nella rocca di Nepi, ed il disegno della fortezza che Antonio da Sangallo gli doveva costrurre a Civitacastellana; al Raimberti aveva dato credito grande col duca l' opera della mole Adriana che egli nel 1494 aveva rifondato con le difese ad uso di castello. 2 Un ambasciatore nota in proposito, che quei la

     

    1 Disp. di E. Berlinghieri e G. Saraceni 8 ottobre 1501.

     

    2 "La quale opera gli die credito grande appresso il papa e col duca Valentino suo figliuolo, e fu cagione cb' egli facesse la rocca che si vede oggi a Civita Castellana." Vita di Antonio S. Gallo. — 219 — vori erano stati ordinati a propria difesa dal papa, affinché la rocca servisse a lui ed ai cardinali in caso di qualche pericolo, e dopo la sua morte vi si potesse salvare il duca contro i baroni che lo avessero da assalire. Frattanto il corteo, che aveva da andare a pren der la sposa, era di giorno in giorno annunziato; e si preparava quello che doveva accompagnarla. Di donne vi sarebbero state le parenti sue, oltre le molte donzelle, e di uomini alcuni degli Orsini che erano in Roma, e se il duca non andava in campo contro i Varano, tutti i suoi gentiluomini ; la strada da farsi era quella di Romagna. Ad Urbino la duchessa Elisabetta avrebbe seguito la sposa in Ferrara. La mantovana duchessa che per la "frigida natura" del marito non poteva dare un erede ai Montefeltro, approfittava volontieri del passaggio di Lucrezia per andare a rivedere i suoi parenti, e Guidobaldo la lasciava partire, sebbene non gli fossero ancora cessate le paure di essere egli pure assalito durante la guerra di Camerino. ' Udendo che anche Annibale Bentivogli, il fìgliuol maggiore di Giovanni, sarebbe andato col corteo ferrarese a Roma, il papa ri spose che aveva cara la sua venuta per rispetto al padre ma più per amor di Ercole (del quale

     

    1 Di queste paure parla l'agente mantovano in Urbino, S. Ca landra in un dispaccio del luglio 1501. Anche nella lettera a Silvio Savelli comparsa il 15 novembre 1501 si dice apertamente: < Inte rini majora moliens bellum Camertibus et Urbinatibua machinatnr ". — 220 — aveva una figlia in moglie), aggiungendo che quando anche l' estense gli avesse mandato turchi da lui sarebbero stati ben visti. Questo scherzo di mal' augurio ai Bentivogli. che non avevano ancora ottenuta la conferma della convenzione di maggio,1 forse fece restare Annibale a Bologna, ad aspettarvi l' arrivo di Lucrezia per poi accom pagnarla a Ferrara. Il papa insisté che il corteo passasse per Bologna, per aver ragione di ordi nare a Giovanni Bentivogli di accommiatare Pandolfo Malatesta che in casa di lui alloggiava ; - e altre lagnanze fece al marchese di Mantova, per la dimora accordata a Giovanni Sforza. Ma il corteo sempre annunziato, alla fine di ottobre non era ancor giunto ; finalmente Ercole fece sapere che per l'invernata ne aveva sospeso l'in vio, e domandò intanto che gli fosse pagata la dote non ancor ricevuta. Ma un' altra ben più grave causa l' aveva in dotto a quel ritardo. Mentre il re Luigi gli aveva scritto una lettera di suo pugno per congratularsi con lui del parentado . l' imperatore Massimiliano gli aveva fatto intendere che assai gli dispiaceva per l'alleanza cui egli si obbligava col papa. L'im peratore allora aveva mandato più messi in Italia

     

    1 Fileno dalle Tuate ai 13 dicembre nota il ritorno in Bo logna di m. Galeazzo Buttrigari che era stato a Roma a far se gnare i capitoli: "El papa non ne volse far nulla". s "Addì 25 venne uno breve del papa al S. Pandolfo da Ri mini se dovesse partire da Bologna eco. e così parlino e andono a Padoa." Cron. ms. Le Tuate. ad annunziare che sarebbe andato a Roma a pren der la corona, ed a fare pratiche, nelle quali te neva mano il marchese di Mantova, per cacciare i Francesi; almeno cosi si diceva. I politici del secolo non fecero molto conto di quelì' impera tore "senza denari" che di tante imprese incomin ciate neppur una seppe condurre a termine ; ma pure il card. di Rohan, ad impedire una sua ca lata in Lombardia, concluse con lui una lega in Trento, il 13 ottobre, nella quale il re promise di prendere dall' imperatore la investitura del ducato di Milano e di dare l'unica sua figlia Claudia in moglie alla figliuola dell' arciduca Filippo marito di Giovanna di Castiglia. Cosi se il trattato si fosse mantenuto, il piccolo Carlo V avrebbe ereditato le tre corone più grandi d'Europa. Fatta la lega, — nella quale il marchese di Mantova il duca di Ferrara ed i Fiorentini furon posti "sotto l'om bra dell' impero" — Massimiliano si mostrò nemi cissimo dei Veneziani e del papa, contro il quale parlando con l' ambasciator ferrarese si espresse in termini di vivissimo biasimo, riprovando il pa rentado che l' estense stava per concludere con lui. Saputo questo, Ercole mandò a far vedere al papa la lettera del suo ambasciatore, aggiungendo che non le dava gran peso ; ma però fece sospen dere l' invio del corteo. Intanto le feste del Vaticano per gli spon sali di Lucrezia facevano spargere in Roma le più sconce novelle. La prima é di una cena che il duca fece l'ultima sera di ottobre, finita la quale — 222 — — Papa, Duce et Lucretia sorore sua praesentibus et aspicientibus — ballarono coi servitori cinquanta cortigiane (meretrices honestae) prima vestite e poi nude; il Burcardo descrive il ballo ed il gioco delle castagne che lo seguì, come se aneh' egli vi fosse stato presente. Nella seconda " hanno parte solo il papa e Lucrezia, ed é questa. L' 1 1 novembre i soldati del palazzo presero due giumente ad un contadino che le menava in città cariche di legna, e condottele in un piccolo piaz zale presso il palazzo, le mollarono addosso quat tro cavalli corridori che a furia di calci e di morsi se le contrastarono, Papa in fenestra camerae super portam palali et Domina Lucretia cum eo existente, cum magno risu et delectatione praemissa videntibus. Anche il Matarazzo, nella cronaca a lui attribuita, racconta i due bei casi : "El Papa.... menò madonna Lucrezia sua figlia nella stalla, dove erano molte cavalle e quà erano montate da li cavalli ; e così le dette molto pia cere. Et non bastando, tornando, in sala, fece ispignere tutti li lume, e poi tutte le donne che v'erano, cum altre tante homine, despogliare ignude ; e lì ferono festa e gioco." I racconti sono il compendio di qualche li bello che si lesse per Roma, a vituperio dei Borgia , del padre di colei che per la terza volta andava a marito? Certo un riscóntro se ne trova in un libello comparso appunto in quei di, in forma di una lettera a Silvio Savelli allor ricoverato in Germania presso l' imperatore : ha la data finta — 223 — del lo novembre, dal campo spagnuolo di Con salvo che assediava il figliuolo del re Federico, in Taranto, e ad onta della giurata fede lo manda va poi a morire prigione in un castello di Spagna. È il più violento scritto che contro i Borgia sia mai stato pubblicato. L'autore prima si con gratula con Silvio Savelli, che per lettere di amici sa essere scampato dalle mani dei ladroni che tutti i beni suoi hanno confiscato, nulla tuo sed Pontificis scelere atque perfidia, ed aver trovato ri fugio alla corte dell'imperatore. Poi, perché in tende che egli ha scritto lettere al papa supplican dolo a restituirgli i beni, l' anonimo si maraviglia che Silvio sia di tanta credulità e leggerezza da supporre, che il papa traditore del genere umano, che consumò la vita negli inganni, possa mai o voglia far qualche cosa giusta, se non per paura o per forza. Fra il Savelli tradito e proscritto e il papa dev' essere eterna guerra d' eterno odio. Fatta questa premessa, l'autor della lettera ag giunge che uopo é tentare altre vie, e far co noscere all'imperatore ed a tutti i principi di Ger mania i delitti da quella belva infame compiuti in onta di Dio e della religione. E quando inco mincia a raccontarli, se ne astiene, nam caedes, rapinas, stupra et incestus referre, innumeri et infiniti prope operis foret. Alessandro, Cesare, Lucrezia, tutti i Borgia, ne hanno la loro parte, tutti ne restano contaminati ; del papa si narrano le simonie le perfidie e gli stupri, e di Lucrezia il ballo delle cinquanta meretrici, la scena delle puledre e l'incesto; di Cesare la morte di Alfonso di Bisceglie e di Perotto, la ruina della Romagna dalla quale cacciò i veri signori, il timore universale che "i ha di lui : timent tamen omnes et maxime formidant cjus filium fratricidam ex cardinale sicarium effectum. La lettera insomma compendia tutte le accuse che di anno in anno, in Milano Venezia e Napoli si vennero propalando da tutti i nemici dei Borgia, e unite a quelle di Roma raccolte dal Burcardo, le determina, le riafferma e le denunzia al mondo, perché i Borgia giudichi e condanni. È un' opera d'ira e di vendetta, cosi violenta da dire perfino a carico del duca : Notam jam esse omnibus provinotele Flaminiae ruinam.

       La lettera al Savelli trovasi riferita nel Diario del Burcardo e in quelli del Sanuto. — La conoscenza che ne ebbe il diarista veneto, farebbe supporre che egli se ne valesse nel sommario della relazione di P. Cappello al Senato, 28 sett. 1500. Nei due scritti si trovano alcuni curiosi riscontri: il timent omnes corrisponde al tutta Rama trema di esso duca, e il Perottus in ejus gremio trucidatus sembra tradotto nell'ammazzò di sua mano, sotto il manto del papa, messer Pierotto ecc.

     Il cerimoniere narra che il papa volle vedere il libello atroce. Alessandro VI che per i tanti anni di cardinalato vissuto in Roma poteva dirsi romano, sapeva che conto fare delle satire e con piacere mostrava di leggere quelle che erano fatte contro di lui e ne rideva assieme a' suoi camerieri. Ma quelle satire irritavano Cesare, che ne prese aspre vendette. Il Burcardo racconta nel diario che alcuni giorni dopo la pubblicazione di quella lettera, agli ultimi di novembre, uno mascherato nel Borgo ebbe ad inveire contro il duca e che arrestato, ne ebbe tronca una mano e la lingua, appese a pubblico ludibrio. Era un retore napoletano Jeronimo Mancioni. Il nome del disgraziato si fa conoscere da Agostino Nifo, il quale nel trattato De re aulica narra il fatto diversamente, dicendo che quel retore ebbe la lingua mozzata in pena de' mordaci ditterì contro il duca ;

       "De salibus autem et dicteriis mordacibus praetermittendum esse puto, quoniam cum sermones sint aculeati ac mordaces, magis attinent ad maledicos, quam ad aulicares viros ; quia praeterea provocant ad odium vel ultionem quae a bono aulico omnino fugienda esse iudicamus. Cum Hieronimus Mancionus Neapolitanus, adversus Caesarem Borgiam usus esset talibus aculeatis sermonibus, et a Caesare linguae mutila lioue in Silum animaci versimi est". De re aulica lib. I cap. 87.

    onde, da quanto appare, il Mancioni forse fu l' autore della lettera al Savelli. E datosi a punire i maledici, il duca punì un fratello di Gian Lorenzo bibliotecario del palazzo, autore di un altro libello. Nella notte del 28 gennaio dell' anno seguente fu preso il veneziano, che come si disse, aveva dal greco tradotto in latino e mandato a Venezia uno scritto contro il papa e il duca ; andò l'ambasciatore veneto ad intercedere per lui, ma il disgraziato nella notte stessa fu giustiziato. L'ambasciatore ferrarese B. Constabili, parlando col papa di questi risentimenti del duca, gli udì dire : II duca é buono, ma non sa tollerare le offese. E aggiunse che avendogli ancor detto che prendesse esempio da lui, e lasciasse far quante satire si volevano, egli irritato gli aveva risposto che avrebbe saputo insegnar la creanza agli scrittori. Ed é notevole quella spieiata giustizia contro i due letterati, nei giorni appunto nei quali Alessandro VI aveva invitato a Roma per segretario del duca Girolamo Aleandro della Motta di Treviso: l' Aleandro aveva 22 anni, ma a lui Aldo Manuzio dedicava i poemi di Omero, esaltandone l'ingegno la cognizione delle lingue e la molteplice erudizione. Il giovine abitava in casa del vescovo Leonini nunzio in Venezia, che forse lo raccomandò al papa; ma sua l'andata a Roma non ebbe effetto . per la infermità da cui fu colpito nell'inverno del 1502.

       Ne parla fra gli altri il Pallavicino nella Storia del concilio di Trento.

     Intanto Ercole d'Este, non potendo più oltre differire l'invio del corteo, aveva sollecitato di avere la dote promessa, con una insistenza che al papa era parsa propria di un "mercatante:" a mezzo novembre tutto pareva già concluso. In conto della dote Ercole domandò i castelli di Cento e di Pieve nel Bolognese, i quali avvantaggiavano assai i suoi domini ; ma non poteva il papa concederli senza il consenso del card. della Rovere. vescovo di Bologna, al quale appartenevano. Forse il card. Giuliano, che aveva tanto favorito il matrimonio, era per accondiscendere alla cessione; ma perché quei castelli per le belle tenute che loro erano annesse formavano la miglior parte del patrimonio vescovile, non era disposto a farla, se non gli era dato un compenso, oppure se non trovava altri con cui permutare il vescovato. Ma gli fece affrettare la decisione, la morte del fratel suo Giovanni prefetto di Roma e signore di Sinigallia, avvenuta il 6 novembre di quest'anno 1501; perché, volendo far ottenere al nipote Francesco la conferma .della signoria e della prefettura da Sisto IV dichiarata ereditaria nella famiglia della Rovere, al cardinale fu necessario di ingraziarsi il papa. Ercole pur di concludere era contentò che il vescovato di Bologna fosse dato al figliuol suo card. Ippolito, che avrebbe resa più facile la cessione ; ma né Giuliano né Alessandro desideravano questo accomodamento, il primo perché aveva un parente da favorire ed il secondo perché non voleva in Bologna presso Giovan Bentivogli un estense suo congiunto. Ma intanto che si proseguivano le pratiche, affinché Ercole avesse sicurtà della dote promessa, Cesare acconsentì che fossero dati in pegno alcuni suoi castelli di Romagna, ai confini ferraresi.
     Continuava la Romagna ad essere retta in pace dal vescovo d' Isernia Giovanni Olivieri, luogotenente generale. Del suo governo non restano molti atti, né i cronisti si occupano molto di lui, se bene gli si debba il merito di avere riordinata l'amministrazione del ducato. Della sua solerzia si ha un indizio dalle non poche lettere rimaste, di luogotenenti che a lui scrivono per pubbliche faccende, di Comuni e di privati che a lui ricorrono per averne consiglio, per ottenere giustizia.

       Resta una parte del suo carteggio nell'Archivio com. d'Imola. Anche nella Biblioteca Gambalunga di Rimini, Collezione Zanotti, si conserva qualche altra lettera di lui.

    Uomo mite ma rigoroso osservatore delle leggi, a' suoi luogotenenti impose il maggiore rispetto ai privilegi de' sudditi, da' quali avevano da essere ubbiditi: un decreto ducale del 10 luglio era contro quelli che offendevano gli officiali di sua Eccellenza, particolarmente nella sua ducal città di Cesena.

       II Braschi così lo rammenta nelle Memoriae Caesenates: "Adhuc asservantur decreta ejusdem principis, tamquam Ducis Romandiolae, condita Romae die 10 juli 1501, contra offendentes officiales Excellnntiae suae, praesertim in sua Ducali Civitate Caesenae". Forse é ancora nell'Archivio della città.

    I luogotenenti delle città, i vicarì delle terre dovevano curare la maggiore osservanza dei capitoli che dal duca erano stati concessi ai Comuni : essendo da fare L'officiale della Fogara in Pesaro, alcuni di Gabicce e di Castel di mezzo si presentarono al luogotenente domandando di essere eletti a quell'ufficio ; ma perché secondo gli Statuti la elezione apparteneva al Consiglio di credenza, il luogotenente acconsenti che da questo il 17 agosto fosse fatta. Se non facevano osservare o non osservavano i bandi del principe ed i capitoli dei Comuni, dovevano sottostare a multe. Il vescovo Olivieri aveva scritto al vicario di Savignano di fare che i macellai della terra non vendessero le carni oltre il prezzo consentito dagli Anziani ; ma avendo disobbedito, il 27 settembre gli intimò di presentarsi a lui davanti per udirsi condannare in 25 ducati di ammenda. ' Egli ebbe pure a ricu perare per il duca alcune delle ricche commende dell' Ordine camaldolese, che da tempo si solevano conferire a' grandi prelati col solo onere della tassa dei comuni servigi. La badia di S. Benedetto di Savignano era stata data da Innocenzo VIII al ve scovo Usodimare genovese, e quella di Urano da quarant' anni era posseduta dal card. Zeno vene ziano. Alla morte del cardinale, nel maggio la ricca badia di Urano era vacante. Il generale del l'Ordine la fece subito occupare da uno de' monaci suoi, che già vi era stato amministratore pel de funto, e facilmente ottenne che gli Anziani di Bertinoro gliene dessero il possesso, per la speranza che avevano che quella storica badìa ritornando all'Ordine fosse ristaurata. 2 Ma i Camaldolesi su bito la perdettero, perché il duca — quando era in Romagna all'assedio di Faenza — l'aveva doman data al papa per uno de' vescovi che erano nel campo suo. Un altro priorato camaldolese ebbe pure il card. Cosentino, Francesco Borgia. Il duca faceva avere queste commende ai parenti, perché non poteva in altro modo arricchirli, avendo ne'capitoli promesso alle Comunità del dominio che i benefizi tutti chiesastici fossero solo conferiti a

     

    1 L'atto dell'elezione 17 agosto 1501 é nei Docum. al D. 42, e la lettera 27 settembre 1501 al n. 43. 8 "Cupit praeterea mirum in modum populus Britonorii ut beneficium vetustissimum ac undique niinans ruinam, tandem a commendis liberetur,et per abbatem Ordinis reformetur". Epìst. P. Detphini. Lib. XXIV, 69. — 230 — preti cittadini. Del resto i vescovi di Romagna, erano già per Innocen/o VIII nominati, quasi tutti viventi alla Corte papale, come Tommaso dall'Aste forlivese e fra Pietro da Vicenza cesenate. Ma se quella concessione tornava a profitto delle città, — perché i preti erano da nominarsi dal duca e dagli Anziani, egli se ne valeva per ricompensare quelli che più gli erano devoti. È di questo mese una petizione che gli Anziani di Faenza diressero al papa per ottenere che il clero di quella diocesi, secolare e claustrale, non avesse a pagar la de cima dell' anno scorso, per i danni della guerra e per le grandi spese fatte a mantenere e curare gli infermi ed i feriti ; la petizione fu scritta il 10 settembre (prò honorando Antianorum Col legio) da Sebastiano Zaccaria.
     Ma di tutte le terre del dominio una sola aveva tumultuato, quella di S. Arcangelo, dopoché in agosto vi era stato mandato Pirro Visconti con ordini di incendio, come dice il Diario cesenate, o meglio dopo distrutta la rocca ; né era stato possibile quietarla. Donde venisse il tumulto appare da un supplemento di capitoli che furono accordati alla Comunità dal card. Vera legato di Macerata, al quale il duca commise di comporre la questione;

       Sotto i capitoli, nella copia che esiste nell'Archivio di S. Arcangelo, trovasi un breve del legato, 1° ottobre 1501 da Macerata, che concede una fiera. V. il n. 44 dei Docum.

    fra le principali grazie che ottennero fu questa, che la terra non fosse soggetta ai Cesenati né ai Riminesi, coi quali ultimi anche dopo ebbero differenze per alcune tasse che loro facevano pagare. In una lettera del gennaio 1502 gli Anziani ed il Consiglio di S. Arcangelo dicono "che al duca non sono meno fedeli dei Riminesi, ben ché non abbiano tanta stima come loro." Per questi litigi erano in Roma gli oratori riminesi, che dopo due mesi dalla loro venuta, il duca ai primi d' ottobre non aveva ancora voluto ricevere, forse aspettando che il card. Vera avesse dato il lodo.
     Ma il vescovo d'Isernia aveva da continuare per poco tempo ancora il suo governo. Fin dal principio della signoria il duca aveva lasciato in Romagna don Remiro di Lorqua suo maggiordomo, occupandolo in vari uffici, con autorità quasi eguale a quella dell' Olivieri, avendo l'uno il titolo di "luogotenente generale" per le cose della giustizia, e l'altro quello di "governatore" per le cose dell'amministrazione. Il Collenuccio quando lo vide nell' ottobre dell' anno prima in Pesaro, disse di lui: "Questo fa tutto." II Diario cesenate pone che ai 30 di settembre don Remiro fu praeses in Cesena, e ne accusa i modi tirannici, perché diminuì il numero degli Anziani e fe' giustizia di un Tiberti. Bandi severissimi erano stati fatti per la delazione delle armi ; uno é sotto la pena di 25 ducati d' oro e due tratti di corda per il giorno, e di 50 ducati con quattro tratti di corda per la notte ; ma fu fatto in circostanza straordinaria, "non obstante privilegio o licentia ad alcuno concesso" dal duca.

       V. il bando di Rimini 18 gennaio 1501 nei Docum. al n. 27.

    Ad onta dell'editto una notte fu trovato con altri giovani Pandolfaccio Tiberti, uno della famiglia che tanto era parziale al Borgia ; ma don Remiro inesorabile il dì 10 novembre a lui ed agli altri fece subire la pena. I Tiberti ne furono indignati ; anzi l' autor del Diario aggiunge che cacciarono (expellunt) don Remiro dalla città. Invece il Bernardi meglio informato, dice che il governatore andò a Roma a metà di novembre.
     Mentre don Remiro di Lorqua procedeva così spietato contro gli amici del duca, questi in Roma era per onorarne altri. Ha la data del 5 novembre una patente di esenzioni concessa a Carlo de' Maschi dottor riminese, per molti anni fuoruscito di Pandolfo Malatesta. Già insignito dell'ordine equestre che — come il diploma dice — egli ornava con lo splendore delle virtù sue e la sciènza delle lettere, il duca vuole concedere a lui ed agli eredi suoi quelle altre grazie che meritavano la sua devozione e la sua fedeltà. Perciò gli conferma in posterum le esenzioni, le immunità e le prerogative avute per privilegio papale, quando lo fece nominare governatore di Terni e di Amelia.

       II diploma 5 novembre 1501 é al n. 45. V. le Memorie storiche di Rimini del conte F. G. Battaglini, Bologna 1789.

    Anche Oddantonio Dandini cesenate ebbe il governo di Rieti, finito il quale, portò al duca in dono un cervo bellissimo.

       "Borgiae pulcherrimum cervum dono attulit". Diar. Caesen.

    E pure in questo mese ebbe privilegio di nobiltà Cesare Viarano, un giovane faentino, che poi sotto il dominio borgiano occupo un alto ufficio in Romagna. Sebastiano Zaccaria in una lettera che gli dirige, si congratula con lui della dignità di cavaliere che la mano del Borgia (bargia manuj gli aveva conferito, e gli descrive la festa che gli sarà fatta in Faenza, quando all' entrare nella propria casa gli correrà incontro la pudica consorte, e l'unico suo bam bino se gli stringerà alle ginocchja, mentre at torno gli saranno affollati gli amici ed i clienti. l Don Remiro era andato a Roma a prendere dal duca il "bastone della giustizia," avendo da succe dere al vescovo d' Isernia ; il titolo che usò poi nelle sue lettere fu quello di gubernator generalis e anche di gubernator et locumtenens generalis, probabilmente per indicare le due alte cariche, delle quali la fiducia del duca lo voleva onorato. Egli ripartì da Roma il 2 dicembre, latore di lettere ducali del 28 novembre che ingiungevano agli Anziani di Faenza di lasciar prender possesso ai mandatari ferraresi dei castelli di Russi, Solarolo e Granarolo che erano nella giurisdizione faentina, pregevoli per le belle rocche e per le ricche te nute annesse. 2 Cesare dava in pegno ad Ercole quei tre suoi castelli fino alla conclusione delle pratiche per la cession di Cento e di Pieve. L'e stense frettoloso il 3 dicembre faceva subito sten dere l' atto di procura ai due suoi mandatari, E. Berlinghieri che era stato oratore a Roma e R. Sa

     

    1 V. l'epistola in data 21 dicembre 1501 nei Docum. al n. 47.

     

    2 La lettera del 28 novembre 1501 é cit. dal Tonduzzi. Egli pe rò e gli altri storici faentini credono trattarsi di una alienazione. crato, commissario della Romagnola ferrarese, i quali ne avevano da prendere possesso. ' E per contentare Ercole, perché nella bolla del 17 set tembre era stata dimenticata la conferma del pos sesso di Argenta, il papa il 1° dicembre aveva di moto proprio approvata la cessione di quel castello che fin dal 1421 gli Estensi avevano comprato dagli arcivescovi di Ravenna. Cosi assicurato, il di 7 dicembre Ecole fece partire da Ferrara il corteo, che giunse in Roma il di 23 : vi era il card. Ippolito e don Fernando fratelli dello sposo, con un seguito di più che 500 persone. Il duca accompagnato dall' ambascia tor di Francia mons. di Trans . preceduto da' suoi 100 gentiluomini, a cavallo, andò incontro ai principi sin fuori della porta del popolo; fu visto ab bracciare e baciare il cardinale con grande dimostra zione d'affetto. Rientrando in città il duca cavalcò alla sinistra di Ippolito. Alla porta li aspettavano diecinove cardinali con le loro famiglie. Il papa li ricevette al Vaticano contornato da altri do dici cardinali. Poi, Cesare condusse i principi alle stanze della sorella che li aspettava in cima alla scala appoggiata al braccio di un vecchio cava liere. I regali di oro e di perle fatti alla sposa dai parenti e dai signori amici furono preziosis simi: quello dei Fiorentini fu il minore, di 3 mila ducati in drappi d'oro e d'argento. Dopo alcuni giorni, lasciate passare le solennità del Natale, il

     

    1 II mandato estense é riport. al n. 46 dei Documenti. 28 fu stipulato l' atto di nozze, l e il 30 fu com piuta la cerimonia dell'anello. Ogni sera fu fatta festa in palazzo. Il 26, all' apertura del carnevale, Cesare ed i principi fu rono in maschera per la città, prima di recarsi al ballo nelle stanze di Lucrezia ; in una danza alla moresca con tamburini e maschere al volto, Cesare più pomposo si conobbe fra gli altri. Il papa, il duca, i cardinali diedero rappresentazioni in onore degli ospiti — di quelle egloghe o pastorali che al lora alla corte di Spagna erano in gran voga, — migliore di tutte la Celestina di Rodrigo da Gota che nel 1505 tradotta in italiano fu dedicata ad una nipote di Giulio II ; le allusioni agli sponsali, ai nomi di Alessandro, di Cesare, di Ercole le rendevano più accette. Nell'egloga data dal duca la sera del 31 dicembre alcuni pastori cantarono le lodi della giovane coppia, e magnificarono Er cole ed Alessandro come protettori di Ferrara. In quella data la sera del 2 gennaio nella camera del papa, fra le lodi per la congiunzione delle due case di Borgia e d'Este, il poeta introdusse manifeste allusioni ad una guerra contro i Ve neziani. z Anche nella recita dei Menecmi di Plauto, dal Collenuccio già tradotti in verso eroi co, un attore trovò modo di invocare il "divo J Nell'atto Lucrezia di Borgia, duchessa di Bisceglie, é in dicata per * soror germana ili.ra1 et exell.mi D.ni Caesaris Borgiae de Francia Romaadiolae ac Valeutiae ducis S. R. E. confalonerì et capitane! generalis". 2 Disp. di G. Pozzi 1° genn. e di G. Saraceni 2 di genn. 1502. Cesare" ed il "votivo Ercole." Nel pomeriggio di quel giorno, 2, davanti al palazzo il duca aveva ordinato una gran caccia di tori. Egli scese nello steccato con nove de' suoi, a cavallo, armati solo di giannette: dieci erano i tori da lanciare; egli si mise dietro al primo "molto feroce" e con qualche pericolo lo ammazzò, gli altri furono finiti dai suoi compagni, due o tre dei quali però ebbero il cavallo ferito. Poi tutti e dieci, a piedi, diedero la caccia ad un bufalo.
     Finalmente il 6 gennaio 1502 avvenne la partenza. Cesare andò a prendere la sposa nella camera del papa, dov'erano tutti i suoi parenti, anche donna Sancia moglie di Jofré del quale in questi giorni mancano notizie. Avevano da accompagnare Lucrezia tre gentildonne della sua casa, m. Jeronima Borgia, una Orsini moglie di Francesco signor di Palestrina e m. Adriana Mila la vecchia parente del papa, vedova di Lodovico Orsini signor di Eassanello: la seguiva in Ferrara anche donna Angela, promessa sposa al prefettino di Sinigallia, la cui bellezza doveva esser così funesta alla Corte estense. Quattro vecchi romani, Stefano del Buffalo Menico de' Massimi Jacopo Frangipane ed Antonio Paleozzo, furono richiesti dal papa per ambasciatori della città, i quali avevano da consegnare la sposa: e con loro molti giovani di nobili famiglie di Roma. Il duca le mandò dietro quasi tutti i suoi gentiluomini, con staffieri e trombetti. Egli stesso aveva poi da andare a Ferrara a prendervi la propria moglie Carlotta che gli aveva annunziato di venire in Italia alla sua corte con la piccola Luigia loro figliuola. Cesare dopo avere sin fuori della porta del popolo accompagnata la sorella ed i cognati, rientrò col card. Ippolito. In tutte le città della Chiesa per le quali ebbe a passare il corteo, Lucrezia ricevette onori : a Foligno i Baglioni andarono ad incontrarla per invitarla in Perugia; presso Urbino fu ricevuta prima da Elisabetta e poi da Guidobaldo. Ma i maggiori onori le erano riserbati al suo passaggio per le città di Romagna.
     Don Remigio di Lorqua, nuovo governator ge nerale, ordinò che in tutte le città fossero fatti i maggiori onori alla sorella del suo signore. Le spese furono sostenute dalla Camera ducale, come appare dalle lettere di don Remiro ai luogote nenti e tesorieri, e dalla provista da lui fatta in Venezia di candele di cera, di dolci e di vino in grande quantità ; a carico della Camera fu pure la spesa per vestire di panno i fanciulli, cento per città, a divisa di giallo e di paonazzo — colori del duca — i quali agitando rami di ulivo dovevano correre incontro alla sposa : di questa commissione di vestire "cento mammoli" per l' arrivo della "cometiva" parlano più lettere, e particolar mente una di Giulio degli Albizzi fiorentino che era al servizio del duca in Romagna. l In altre

     

    1 "la questa terra et a Terra Cesarina trovo di questa sorte pavouazzo".... Let. di G. Albizzi. 14 gennaio 1502. — Queste e le altre lettere cit. si conservano nell'Archivio d'ìmola. — 238 — lettere si ha pure notizie delle pratiche fatte dai luogotenenti per la scelta delle dame che dove vano fare onore alla duchessa. Don Remiro man dando agli Anziani di Forlì la lista e gli ordina menti del corteo fa intendere loro, che "al duca ed a sé sarà gratissima ed accetta ogni grata di mostrazione carezza ed accoglienza che possano fare per onor della sposa;" e il luogotenente Galeotto Gualdi riminese, gli risponde il 6 gen naio che, fatto radunare il Consiglio aveva otte nuto che la città di Forlì farebbe fra le altre di mostrazioni d' allegrezza un "bello presente di cose magnative." l Ma in mezzo ai preparativi di queste feste, alcuni romagnuoli venendo da Ravenna riferirono che i Veneziani radunavano colà gran numero di soldati, che vi era Carlo Giorgi con 800 cavalli e che il 7 gennaio vi erano aspettati altri capitani della repubblica Paolo Manfrone e Filippo Alba nese con altri 400 cavalli, e che per questi a Ra venna ed a Cervia erano preparati gli alloggia menti : e riferirono anche di aver udito che vi ave vano ad andare il signor Pandolfo ed il signor Giovanni, il Malatesta e lo Sforza cacciati da Ri mini e da Pesaro. Il luogotenente di Forlì comunicò subito queste notizie al governator generale allora in Rimini, perché (come ebbe a scrivere) vere o false fossero, gli era parso bene darne avviso a lui per sapere se aveva a far qualche provvedimento ;

     

    1 V. le lettere 6 gennaio e 11 gennaio 1502 nei Docum. ai n. 49 e 51. intanto egli credeva non essere "mal a far buona guardia." Tali notizie accrebbero i sospetti che già aveva don Remiro, il quale in quei giorni era ap punto in Rimini per sventare un trattato, che si diceva avevano i parziali del Malatesta per dare la città ai Veneziani ; onde egli ne fece prendere alcuni e mandare a Roma, constrictos vinculis, come nel Diario cesenate é narrato. E raccolse in Rimini 1,000 fanti e 150 cavalli, e ne mandò ad ordinare altri in tutte le città di Romagna. l Intanto il corteo giunse il 21 gennaio in Pesaro. A Lucrezia accompagnata dalla duchessa di Urbino andarono incontro alla porta, gli Anziani ed il Luogotenente, le fecero corona le dame, e cento fanciulli con rami d'ulivo la salutarono gri dando: Duca, Duca! Duchessa, Duchessa! Al loggiò nel palazzo degli Sforza. Chi sa quanti tristi pensieri la assalsero rivedendo quelle stanze, che già altra volta l'avevano accolta sposa di un si gnore, ora ramingo, in esiglio! Il 22 entrò in Ri mini e il 24 in Cesena, dove solennemente don Remiro la ricevette. Gli Anziani presentandole le chiavi della città a lei le offersero "come ad pa trona et signora alla quale se faccia partecipa zione del stato de sua Ex.tia;" e la accompagna rono al palazzo, seguita dalle dame, fra i gridi giulivi dei putti vestiti alla divisa di Cesare, che correvano davanti al corteggio, agitando le palme. Il dimane andando a Forlì, lungo la strada trovò

     

    1 V. le due lettere di don Remiro 24 gennaio 1502 nei Docum. n. 51 e 52. 700 fanti della città, che le fecero scorta d'ono re ; fu ricevuta alla porta dal luogotenente e dagli Anziani che pur le offersero le chiavi, dalle dame e dai putti ; come negli altri luoghi, quelli del se guito furono alloggiati nel vescovato, nei conventi e nelle case dei principali cittadini. l Di Faenza mancano notizie. Il 27 fu ad Imola, ed il 28 ripartì per Bologna dove fra le festose accoglienze dei Bentivogli stette fino al 30 gennaio. E il 2 feb braio per il canal navile arrivò in Ferrara. Come il papa aveva promesso, prima che Lucrezia entrasse in Ferrara, fu spedita la bolla con cui era dato alla casa d'Este il dominio di Cento e Pieve. Il 24 gennaio in concistoro fu presen tato l'atto della permuta del vescovato di Bolo gna, che il card. della Rovere aveva fatto con mons. Ferreri — consenziente alla cessione dei ca stelli, con promessa di un compenso, — ed il 28 fu pubblicata la bolla. Alessandro non vi dice che la cessione fosse fatta per conto della dote di Lu- I "E non fu casa, che non si sforzasse per fare il possibile onde tanti signori restassero honorati, sapendo di fare cosa grata a sua Ex.tia" Cron. ms. Il cronista Bernardi che a lungo descrive le feste di Forlì per l'arrivo di Lucrezia, aggiunge "C'era la comitiva de la Ex.tia del nostro S.e duca de Valentia e duca de Romagna. Erano mons. Alegri spagnol, dom Zoan Cardona spagnol, dom Ugo de Moncada, e dom Jouane de Monpolize, don Zoane Castiano, don Fran cesco de Vintomiglia, cavalier Orsino, Pietro da Santa Croce, don Menico Sanguignes, Zoanne Batista Mancino, Mario Cuerzilio Cresentio, Julio e Marcelle Albarino, Raffaello de' Pazi, signor Commendator Marades, Piero Pauolo e Remolino Remolino, Ottaviano Fregoso ecc." crezia: ma adduce altre ragioni che la potevano far credere necessaria, come quella che il duca di Fer rara poteva meglio provvedere alle incursioni delle acque del Reno, e quella che il vescovo di Bo logna non poteva comodamente reggere i castelli, come pochi anni prima si era visto, quando in un tumulto fu ammazzato il vescovo di Brugneto che vi era vicario. ' Così adunque dopo tante incertezze, l'alleanza fra i Borgia e gli Este era compiuta. Ma forse in Ercole poterono più le paure del papa (se non accondiscendeva) e dei Veneziani, che le persuasioni del re e la gran dote portatagli dalla sposa. I Veneziani, quando attribuirono il pa rentado alla ambizione di Cesare, mostrarono subi to di comprendere che il proposito suo era di procu rarsi un signore amico ai confini e di unirsi ad un vecchio nemico di loro, — continuamente incitati dal desiderio di avere stati in terra ferma, in Ferrara e in tutta la Romagna. Le allusioni fatte nelle feste romane ad una guerra contro i Ve neziani spiegavano chiaramente quale era il fine di quel parentado. Anche nelle feste ferraresi il duca, sebbene as sente, ebbe la sua parte ; e i poeti nei canti nuziali ne esaltarono il nome. Fantasticando nella latinità, Lodovico Ariosto, nel suo epitalamio, canta solo la bellezza di Lucrezia, mirabile fra le ruine che coprono Roma. E alla diva Lucrezia da Diomede i La bolla é riportata quasi per esteso nella Storia di Pieve di G. Landi, Bologna 1855. 16 Guidalotto si invoca la gloria della antica e nuova età. Ma nel suo carme, Celio Calcagnini fa da Euterpe cantare le lodi di Ercole, da Tersicore encomiare Alfonso, e da Calliope fa celebrare il trionfo di Cesare in Romagna. E Sabbadino degli Arienti in un discorso alla città di Ferrara esulta della sua "eccessiva leticia" per il matrimonio della "sorella de Cesare Borgia altissimo duca de Francia et de Valenza, Confaloniero de Santa Chiesa, et de quella generale Imperatore de armati magno et excelso, e glorioso exemplo de liberalità et magnificentia et ducal splendore alli principi del Mondo."

       Ha per titolo: "Colloquiimi ad Ferrarien. Plebem prò coniugio Lucretiae Borgiae Alexandri VI P. P. filiae in Alphonsum primogenitum Ducalem Estensem". MS. nella Biblioteca nazionale di Parigi.

     Le tre gentildonne di casa Borgia, con il seguito dei gentiluomini del duca, avevano da andare incontro in Lombardia alla duchessa di Romagna, Carlotta d'Albret, per poi condurla a Roma alle feste di Pasqua ; ma il di 7 febbraio giunse il fratel suo cardinale ad avvisare che la moglie di Cesare indisposta aveva dovuto rimandare il viaggio ad altro tempo. Ercole allora, dopo altri sette giorni, dié licenza ai gentiluomini del duca, perché gli gravava la spesa di essi, e perché li trovò "essere impertinenti."
     Il 17 febbraio, il papa e Cesare partivano da Roma per andare a Piombino ; li seguivano alcuni cardinali. Passata la prima notte a Palo castello degli Orsini, giunsero la sera dopo in Civitavecchia, dove erano pronte sei galeone con altre navi minori per i cavalli e le masserizie, comandate da Lodovico Mosca un de' capitani della marina pontificia. A Piombino ebbero un solenne ricevimento; vi approdarono la mattina del 21, e vi stettero quattro dì. Il duca dié feste e conviti, ai quali papa e cardinali mondanamente presero parte, e Alessandro consacrò la chiesa degli Agostiniani. Il 25 andarono all'isola d'Elba per vedere i disegni di due fortezze che il duca intendeva di far costrurre da' suoi ingegneri. In Piombino fece pure disegnar un fosso larghissimo per mettervi l' acqua del mare, onde richiudere la chiesa di san Francesco nella città. Poi, la domenica del 27, fece cavalieri due de' Saccardi e ad un prelato di loro famiglia promise un vescovato vacante ; e, come narra un cronista "in schambio di processione" fece ordinare al papa fuori della città un ballo con tre "honori" da donna e da uomini di valuta di cento scudi d' oro. E quel di andò a spasso su un bel muletto, andandogli innanzi a piedi sei cardinali.

       Nell'Istoria di G. Cambi si leggono molte curiose notizie delle feste di Piombino. — Se ne leggono altre nel Diario del Burcardo. V. La guerra dei pirati e la marina pontificia per il p. A. Guglielmotti, Fireuze 1876.

    Nel ritorno (1 marzo) il mare grosso li tenne per cinque di in nave e fu tanta la burrasca che molti dei prelati, che accompagnavano il papa, per gli spaventosi patimenti ne ammalarono. Alessandro co' cardinali era nella nave capitana, ed il duca nella padrona. Il Burcardo narra che durante la burrasca il papa fu intrepido. Vicino a Corte, non potendo la galea entrare in porto, Cesare con alcuni de' suoi discese in una piccola barca e poté toccar terra; gli altri soltanto la sera del 6 approdarono a Port'Ercole. E l'1l erano di ritorno in Roma.
     Le fortezze che il duca fece fare all' Elba ed a Piombino, forse non furono di Antonio Raimberti da Sangallo, che in gennaio era ancora a condurre i lavori di Civita Castellana, ma probabilmente furono di Leonardo, che partito da Cesena dopo il settembre del 1501 era andato a trovare il duca in Roma. Di quella sua dimora in Piombino e della strada che fece ritornando a Roma egli lasciò nota in uno dei codicetti, che viaggiando soleva portare appesi alla cintola, e nei quali scriveva le osservazioni e le memorie che gli occorrevano, ed abbozzava anche qualche disegno.

       I codici, tolti alla Biblioteca ambrosiana di Milano nel 1796, si conservano nella Biblioteca dell' Istituto in Parigi. Di questo anticamente segnato B. R. si legge una breve descrizione nelle Memorie storiche di C. Amoretti, Milano 1804.

    Ora al foglio 6 di quel libretto egli scrisse l'osservazione fatta a Piombino di un' onda del mare che ne sospinge un'altra e va a spianarsi sul lido — una delle tante osservazioni che gli doveva far ricercare la nuova teorica del moto ondoso del mare a lui dovuta. E facendo nel ritorno la via di terra, continua a descrivervi una singolare campana di Siena e la snodatura del suo batocchio. Novera fra i paesi che vide Orvieto ed Acquapendente, e fa la memoria di chiedere l'Archimede del vescovo di Padova e l' opera di fra Luca Pacioli a Vitellozzo Vitelli. Era quest' opera forse quel trattato di arte militare che frate Luca in altro suo libro. Summa de proportioni, rammenta aver composto, quando per molti mesi espose a Camillo Vitelli il volume di Euclide;

       "Ars militaris omnes suas machinas, ut castellimi vallum bumbardas, ac reliquas munitiones et machinationes sola numerorum vi, mensurarum ac proportionum efficit...." F. Lucae de Burgo, Summa de aritmetica geometria proportioni et proportionitati, Venetiis 1494.

    e probabilmente Leonardo voleva consultarlo per fare al duca qualche nuova macchina di guerra da usare nelle prossime sue imprese.
     Ma il duca quantunque sino dall'ottobre dell'anno prima avesse dichiarato di andare in campo contro Camerino, aveva dovuto rimandare l'impresa ad altro tempo, per varie difficoltà, fra le quali la guerra del Turco che per gli aiuti dati dal papa ai Veneziani distraeva le rendite della Chiesa, ed i dissidi avvenuti fra i Reali di Francia e di Spagna sul modo della divisione del Regno di Napoli, non bene determinata né dal trattato di Granata né dalla bolla pontificia: particolarmente la dogana di Foggia, donde il maggior provento si ritraeva per le mandre che andavano ai pascoli delle Puglie, era oggetto di querele fra il viceré francese ed il gran capitano spagnuolo. A queste difficoltà si aggiungeva anche l' altra, che l' imperatore di Germania dicendo continuamente di voler scendere in Italia a prender la corona a Roma, non si era acquietato alla ratifica del trattato di Trento, e mandava a promettere aiuto a tutti i confederati dell' impero minacciati o dai Francesi 0 dal duca di Romagna. ; così che il 20 marzo dai suoi ambasciatori faceva concludere una convenzione coi Fiorentini, che egli prometteva di proteggere e di difendere. A lui pure Giacomo d'Appiano rimetteva la signoria di Piombino, ed egli la poneva sotto l'ombra dell'impero. Ma a questa guerra che doveva scacciare i Francesi dall' Italia non soltanto egli non poté dar principio; anzi i suoi confederati mal promettendosi di lui, attesero ad ottenere la protezione di Luigi, primi fra tutti i Fiorentini ed il marchese di Mantova. Così le minacce di quel povero imperatore ebbero solo questo effetto, di accrescere la riputazione del re in Italia.
     In questi mesi che il duca restò a Roma né gli ambasciatori né i cronisti danno molte notizie di lui ; ma abbondano quelle di Romagna, e del suo governatore generale don Remiro di Lorqua.
     Il duca confermando gli statuti dei Comuni si era riserbata facoltà di riforme, quia mutatione temporum iura variantur humana come dicono i capitoli imolesi; ma intanto i privilegi concessi producevano una stragrande varietà nell'amministrazione del ducato. Nei capitoli dell' 11 marzo 1500 alla Comunità d' Imola erano stati donati gli unici del notariato e della cancelleria comunale, dei danni dati, delle bollette,1 della semina, delle carceri, e del massaro e del trombetto comunale: per contro, riserbati tutti gli offici ai cittadini eccetto quelli del podestà castellano e governatore, il Comune ne doveva pagar gli stipendi, ritenuto a comodo suo quello dell' ultimo mese. Alla Camera ducale restavano i dazi ordinari e le collette . e la tassa della paglia e della legna ai soldati, tolte tutte le altre gravezze angarie e perangarie. 2 Fra le grazie avute dalla Comunità di Forlì notansi queste; che non si pagasse gabella delle divisioni, né delle restituzioni delle doti, né delle doti del secondo matrimonio, che alla pesa non si pagas sero più di tre quattrini per centinaio del grano macinato; e che i contadini avessero solamente le tasse della paglia per i cavalli dei soldati esistenti nel contado. Inoltre la Comunità ebbe donazione del pedaggio del passo del Ronco, affinché dal provento se ne potesse rifare il ponte. Poi, per ché la città era così aggravata, da non poter pagare i suoi ufficiali, il duca con diploma del 13 gennaio 1501 le fece remissione della spesa di un anno. 3 La Comunità di Cesena ottenne che i dazi

     

    1 La tassa delle bollette era dei viandanti forestieri e si pa gava alle porte della città, un soldo e più. Nel 1494 a Bologna qualunque forestiere entrasse era legge che "fusse in solì' ugna del dito grosso suggellato con cera rossa;" onde Michelangelo perché entrò senza, fu condannato in 50 lire di bolognini. Vita di A. Condivi. * V. il diploma al n. 11 dei Documenti. 3 Del breve delle grazie non si ha cenno che dalle cronache. V. anche il n. 26 dei Docum. fossero diminuiti di un quinto, abolito quello del la macina. Le altre terre, come S. Arcangelo e Savignano già sotto il diretto dominio della Chiesa, furono per tre anni dichiarate esenti del censo dovuto alla Camera. Di più in Savignano, che il vicario ogni semestre provvedesse a sue spese una balestra di munizione, e che le pene de' danni dati e l'esazione de' passi fossero della Comunità. E in S. Arcangelo, per i capitoli del novembre 1501 che non si levassero l'imbottata del grano e del vino e i dazi della beccaria e del pane, promet tendo di pagare fra tre anni al duca il tributo di mille lire che da quelle imposte ricavavano in antico i vicari. 1 1 Faentini ottennero anch'essi che tutti gli uffici della città e del suo dominio fos sero distribuiti ai cittadini. A Pesaro fu fatta una particolar convenzione fra la Comunità e la Ca mera ducale. Sotto Giovanni Sforza la Comunità non dava al principe che una solita provvisione annuale, avendo essa da pagare alla Chiesa il censo del vicariato e agli ufficiali ed ai castellani i salari ; ma questo contratto non fu continuato. Come era in uso sotto Alessandro Sforza, il du ca trasse alla sua Camera tutti gli introiti. della città e del contado, e si obbligò a pagare il censo alla Chiesa i salari ai castellani ed agli ufficiali del Comune, eccetto le spese del porto e della chiusa dei mulini, ed eccetto i salari dei medici per i quali disponeva ogni anno 600 ducati d'oro. 2 ' V. nei Docum. i n. 12, 19, 44 e 50. 2 Si ritrae questa transazione dall' istrumento dell'altra fatta In tanta diversità di amministrazione l' auto rità del governatore di Romagna era somma: si estendeva sopra tutti gli ufficiali del ducato dai luogotenenti ai vicari. i quali tutti a lui riferi vano le faccende dello stato. l Dipendevano pure da lui il tesoriere generale Alessandro Francie Spannocchi senese, e tutti gli altri tesorieri fiscali delle singole città. Don Remiro di Lorqua passava quasi i 50 anni, ma aveva la barba ancora nera e gli occhi grigi lucenti. Di carattere violento, impe rioso, era così compreso dell' alta carica che occu pava, che tutti, anche i fautori del duca, dove vano temere la sua giustizia. Diversi sono i giu dizi che ne danno i cronisti. Il Bernardi di Forlì gli é molto benevolo, anzi ne é quasi ammirato: dice di lui : "Sempre fu riverito et temuto ho mo, non avendo mai alcuno respetto a la santa iustitia: in fra tute soe virtute questa gran lau da se ce po grandamente attribuire d'essere sem pre stato copiosissimo de soua odientia." Ma tanta rigidezza dispiacque agli autori della Cronaca faen il 15 decembre 1503 con Giovanni Sforza ritornato. "Eius Ca mera solveret seu solvere tenetur S. R. E. seu Sedi apostolicae censum debitum. salaria castellanorum et officialium quorumcumque Communis Civitatis Pisauri, et omnes alias expensas dictae Communi tatis incumbentes, exceptis expensis Portus, et Clusae Communis Civitatis Pisauri, et exceptis salariis Medicorum prò quibus mandabat singulis annis per ejns Cameram, seu Thesaurarium flscaiem Civitatis Pisauri persolvi ducatos sexcentos auri." Memorie del Porto di Pesare di A. Olivieri, Pesaro 1774. i Aveva uno stipendio di mille ducati d'oro l'anno, oltre l'emolumento della cancelleria. V. il n. 74 dei Docum. tina e del Diario cesenate, se la traduzione é esatta: questi 'già prima si era sdegnato con lui che chiama Bargia adulalor, quando diminuì il numero degli Anziani della città. Anche l'Uberti ne ebbe a maledire la potenza con un forte epi gramma. Le sue relazioni con i Comuni erano de terminate dai privilegi che loro aveva confermato il duca ; ma egli non fu troppo ossequente a quelle prerogative, come era stato il vescovo Olivieri suo predecessore, ogni volta che ne credette offesa la ragione di stato. I dissidi fra Comuni e Comuni, le pretese immunità, le soverchie spese provoca vano i suoi rigori. Né sempre i suoi rigori erano ingiustificati. In gennaio ebbe a comporre le diffe renze che da tanti mesi esistevano fra i cittadini di Rimini e gli uomini di S. Arcangelo. Ai 13 del mese gli Anziani di questa Comunità gli scrissero, che i Riminesi continuavano a molestarli per il pagamento di certe colte, malgrado il lodo del card. di Salerno. che loro aveva imposto silenzio fino a che non fosse stato veduto di ragione: onde domandavano che i loro uomini non fossero mole stati, oppure che anch'essi potessero far pagare le colte nel territorio loro, secondo i capitoli avuti dal duca "al quale (dicono) non semo manco fideli che siano li Ariminesi, anchora che non siamo de tanta stima." l Inesorabile nel caso di Pandolfaccio Tiberti, don Remiro si mostrò spietato in un altro av 'i La lettera, 13 gennaio 1502, é nei Docum. al n. 50. venuto nel gennaio di quest' anno in Faenza. Il di 29 vi dovevano essere giustiziati due per malefizio, un dei quali bolognese ; sospesi alle forche, il capestro all'un di essi si rompe, onde alcuni della folla ne domandano la grazia, con gran tumulto lo levano dalle mani del bargello e lo trasportano nella chiesa dei Serviti. Era luogo tenente di Faenza Pier Lodovico da Fano, e ave va per suo vicario Gian Antonio Becci forlivese, podestà, il quale ridomandò il reo al priore dei Serviti; ma per l'immunità del luogo non l'ebbe. Saputo il caso, don Remiro che era ad I mola, dove aveva accompagnato il corteo di Lucrezia, andò a Faenza il 31 e avuto a forza il reo, lo fece di nuovo impiccare alle finestre del palazzo del podestà. Poi — in pena del sollevamento fatto dal popolo ad onta della giustizia — pigliati alcuni dei presenti che gli erano andati incontro, fece su bito firmare un compromesso, per cui la città era aggravata di una multa di 1 0,000 ducati da pagare entro un mese. 1 Il fatto é narrato con poche diffe renze dal Bernardi e dall'autor della cronaca faen tina, il quale aggiunge che gli Anziani, credendosi stranamente multati, mandarono un loro ambascia tore a don Remiro, il quale non volle nemmeno ' "Fato quiesto, fece piare alquanti de li presenti che contro jera venute, cum brevità di tempo fece firmare uno compromesso di duquati dieci milia contra tuto el collegio de dieta soa ciptà a tempo uno mese. Cron". ms. di A. Bernardi. Il racconto della Cronica civitatis Faventiae sembra preso in gran parte da questo del Bernardi. riceverlo ; tanto era contro loro sdegnato. Gli An ziani però spedirono l'ambasciatore con una sup plica a Roma ad intercedere la grazia dal duca e dal papa, i quali di buon grado la accordarono. La città ne fece grandi allegrezze. Si ignora che av venisse al priore dei Serviti, che al malfattore aveva dato rifugio nella chiesa cercando di sal varlo col pretesto nella immunità, oramai non più riconosciuta dalle leggi comuni: e in vero un bando ferrarese di alcuni anni prima dichiara che i malfattori ricoverati nelle chiese "saranno considerati come in luoghi profani e che chiun que sacerdote o religioso li darà ricetto sarà sco municato dal vescovo." " Ai primi di gennaio fra il governatore ed il Consiglio dei dodici Anziani di Forli (del quale era capo Giovanni Moratini e in suo luogo Marco Maldenti cavaliere aurato) si erano firmati particolari capitoli per l'amministrazione dell'annata 1502; ma non bastarono. Perché i Forlivesi volevano far pagare ai circostanti le riparazioni del ponte di Schiavonia — per le quali fu officiale m. Andrea Bernardi hisloriographus Forliviensis — don Remiro ai 28 di febbraio dovette ordinare, che a tutta la spesa dovesse provvedere .la città. Ebbe anche da richiedere che il Comune facesse osser vare i bandi dei dazi ducali, al qual proposito at testa che non intende di "inovare cosa alchuna

     

    1 II bando é cit. nelle Notizie relative a Fen-ara ili. da L. N. Cittadella, Ferrara 1854. contro l'ordinatione della terra." ' Dai libri degli Anziani si rileva che i dazi della beccarla e del vino al minuto furono dal Consiglio dati per un anno a Bartolomeo de' Moratini per lire 1320, mentre poco dopo quelli ducali detti "del signo re" furono banditi per lire 14,000 dal Tesoriere generale m. Alessandro Spannocchi. Si ha pure notizia che in questo mese Giulio Albizzi fiorentino ebbe in appalto per un quinquennio le saline del Porto Cesenatico per 40,000 ducati d'oro:2 e ave vano da avere il sale all' ingrosso anche Terra Cesarina e Savignano, nella quale ultima doveva secondo i capitoli essere dato a quattro libbre il bolognino, come in Cesena. Avendo da provvedere a tante cose, don Re miro andava in persona nelle città, nelle quali era bisogno della sua opera e del suo consiglio; delle lettere che rimangono di lui ben poche hanno la data della città ducale di Cesena. An dato ad accompagnare Lucrezia fino a Imola, il 31 gennaio ritorna in Faenza, il 14 febbraio é in Cesena ed il 28 é in Rimini dove rimane fino al 5 marzo. Di questi giorni sono due sue lettere al duca Ercole d'Este riguardanti i castelli di Russi Grana

     

    1 II libro dei Mandati del Comune di Forlì contiene tutti gli atti di queste deliberazioni, registrate "per me Hieronymum fllium Baptistae dii Carpentieriis notarium forliviensem et nunc cancellarium dicti Communis prò.... praefatum Ducem Valentinensem quem Deus ad vota conserve!". — Vi sono pure trascritte le lettere di don Remiro pub. nei Docum. ai n. 53 e 54. 2 "Borgia Julio Albitio Fiorentino quadraginta aureorum mil- Jibus saJinas in quinqueunium locat." Diar. Caesen. rolo e Solanolo che Cesare aveva dato in pegno per la promessa della dote della sorella, non ancora restituiti: nella prima don Remiro si lagna dei guasti che i fattori estensi facevano nelle tenute ducali annesse a quei castelli, e particolarmente dei tagli di alberi nel bosco di Russi, con grave detrimento del suo signore; e nella seconda, avuta promessa di provvedimenti, replica ringra ziando. 1 II 21 marzo é di ritorno in Forli, ed il 25 va a Faenza, dove si trattiene più di un mese. Del 23 aprile é un'altra sua lettera al duca di Fer rara, per la tratta dei grani che gli aveva con cesso, e che gli toglie perché, mentre credeva che fosse per uso suo, ha saputo che "se con verte in uso et commodo de altre particolari persone ;" per questo dice di avere espressa commissione dal suo duca. 2 Don Remiro, come si vede, non usa va minor ruvidezza coll' estense, che con i sudditi. Ha pure la data di Faenza, 20 aprile, un'al tra lettera di don Remiro agli Anziani di Forli. Avendo inteso che per la elezione dei gonfalo nieri de' quartieri della città si solevano fare grandi spese dalla Camera ducale e dai cittadini, egli av verte gli Anziani di non volere che la Camera ab bia a pagar rata alcuna, e loro ingiunge di dare ordine "ad preservazione delle facoltà delli cit tadini" i quali per onorare quello di loro fami glia che era eletto "si involvevano in debiti non ' Delle due lettere la prima é in data di Cesena 14 febbraio 1802, e la seconda di Rimini 5 marzo. Arch. di stato in Modena. 2 V. la lettera 23 aprile 1502 al n. 57 dei Docum. convenienti a loro facoltà." Avuta questa lettera, il 25 aprile si radunò il Consiglio degli Anziani alla presenza del luogotenente Galeotto de' Gualdi, ed eletti i nuovi gonfalonieri, si fece decreto penale che nessuno potesse spendere più di 25 lire, con multa di altrettante ai contravventori da applicarsi metà alla Camera e metà al Comune. I gonfalonieri erano eletti, come tutti gli altri ufficiali cittadini, dal governator generale e dagli Anziani.

       La lettera riport. al n. 53 dei Docum. é inserita nella deliberazione del Consiglio degli Anziani. Arch. com. di Forli.

    Di questi giorni é pure un ordine dato a Cesena, che per radunar il Consiglio si suonasse solo la campana e non più la tromba ; e forse perché l' uso era generale (ad sonum campanae et tubae si chiamavano gli Anziani anche a Forlì ed il Comune dimo1a aveva il suo trombetto), l'ordine fu per tutte le città del ducato: non per tanto i Cesenati se ne dolsero.

       "Civitas ea de re conqueritur". Diar. Caesen.

     Ma se per l'intemperanza dei Forlivesi rinnovava le leggi suntuarie, don Remiro però era propenso alle feste, quando erano per onorare il suo signore. Egli assistette in Faenza alla solennità celebrata il 25 aprile, nel qual di ricorreva il primo anniversario del giuramento di fedeltà prestato dai Faentini al duca. Erano allora Anziani Gabriele Calderoni priore Padovano Caffarelli Petrosemolo degli Hercolani e Lodovico de' Nicolucci. Fra le feste fatte, vi furono la corsa al pallio il tiro alla balestra e il gioco al pallone. E altre feste ordinò alcuni giorni dopo, passando per Romagna il principe di Viana figliuolo del re di Navarra, che andava alla corte di Cesare suo zio. In Faenza, il giorno da otto giovani dei quartieri della città, quattro per parte con diverse vesti, in piazza si giocò al pallone; vinsero quelli di porta ravegnana due vitelli : e la sera si ballo in palazzo. Forse per questo passaggio furono sollecitati gli ordini di pulir le vie a Cesena ed a Rimini :

       Con un atto del 13 maggio 1502 i Signori XII di Rimini danno in appalto la polizia delle strade. Bibliot. Gambalunga.

    a Cesena pure, perché le meretrici erano uscite dalle Tavernelle un acre editto ve le respinse. E sulle porte delle città abbellite furono murate le armi borgiane, messe ad oro, onde l' liberti disse in un epigramma :

    Caesaris arma Ducis radiantia cerne Viator :
    Cui genus ex alto Pontificale Duci.

       Come altra volta ho notato, Cesare portava uno scudo inquartato con il bove dei Borgia e le bande dei Lenzol e con i gigli di 'Francia, mentre il papa aveva solo i due primi mezzi scudi l'uno sopra l'altro, così descritti da un cronista, cioé: "Uno scudo mezo d' oro con bove rosso che pasceva l' lierba e F altra parte tre bande nere che traversano il campo aureato".

     Mentre in Romagna don Remiro era tanto rigido, ben diverso appariva don Michele da Corella, un capitano di fanti, che da Cesare era stato lasciato al governo di Piombino. Ai 9 di aprile al duca e per lui a don Michele i Genovesi diressero una lettera in raccomandazione di certe robe che erano state tolte a un loro navigante dagli nomini di Piombino ;

       La Jet. 9 aprile 1502 é nei Docum. al n. 55. Nell' Archivio di Stato di Genova nei libri Litterarum sono trascritte varie lettere dirette dal Governatore e dal Consiglio di Genova al Corrella od al suo luogotenente di Piombino, per cose riguardanti la marina.

    e gli mandarono ancora un ser Giordano Celesola da Rapallo a sollecitarne la restituzione. Ma don Michele, forse per la difficoltà di trovare i rei — essendo il fatto avvenuto in addietro — non poté che dar buone parole al messo. Onde i Genovesi con altra lettera insistettero sulla domandata soddisfazione, come era conveniente alla giustizia e al duca (quae conventi justitiae et duci) e si dolsero che don Michele avesse fino allora intrattenuto l'istante, di dì in dì, con dolci parole (de die in diem dulcibus verbis deducitur). È quel don Michele, che pochi mesi dopo il Machiavelli vide "adirato come un diavolo." Ed era quel don Michele, che nell'agosto del 1500 per ordine del duca si disse essere entrato nella stanza di Alfonso di Bisceglie infermo, e perché non voleva morire delle ferite ricevute, averlo crudelmente strangolato. Era un capitano di ventura, che sino dai primi anni del dominio borgesco era al servizio del duca. Anche quando Cesare era cardinale ed era protettore di Orvieto, fino dal 1497 egli era stato più volte a difendere quella città dalle brighe dei baroni che la offendevano, e ultimamente nell'agosto del 1500 vi era ritornato ad impedire che divenisse preda di Bartolomeo d'Alviano o di Giampaolo Baglioni che dopo la cacciata dei Gatti da Viterbo vi erano entrati.

       Ne parlano il Fumi, e il Leonij nella Vita dell'Alviano.

    La fedeltà e la tenacità che egli poneva nell' eseguire gli ordini del suo signore gli procacciarono infiniti odi. Quasi tutti gli oratori ed i cronisti che parlano di lui, lo credettero e lo dissero spagnuolo ; ma il suo vero nome, come da alcune lettere si ricava, era questo: "Michel Corella," e lo traeva da un paese del Veneziano : anni prima un Micheletto, forse suo parente, era stato un valente condottiero di quella repubblica.
     A temperare la rigidezza di don Remiro, non restava ai Comuni ed ai cittadini che di far ricorso al duca ed al papa, la grazia dei quali non era mai per mancare. E il papa ben volentieri favoriva i richiedenti per potere raccomandar loro, come ai Faentini, di "essere buoni e fedeli di sua Eccellenza." Dei sudditi sapevansi fare benevoli con i grandi soldi i militari, con gli offici di Romagna e degli stati della Chiesa i magistrati, con i benefici chiesastici i sacerdoti, con buoni stipendi o nella corte o nel ginnasio i letterati. Taddeo della Volpe che nell' assedio di Faenza aveva di mostrato tanto valore, come fu guarito della ferita, si recò a Roma a ricevere la ricompensa che il duca gli aveva promesso. Davanti al papa ed ai principi e prelati, Cesare lo creò cavaliere egli fe' cingere gli speroni d'oro da Vitellozzo Vitelli e da Giulio Orsino ; e il 9 maggio gli dié un diploma di nobiltà per lui e propria famiglia, con un'impresa di scudi, nella quale volle che sopra l'elmetto fosse una volpe crestata, "ut eo signo suae militares astutiae felicibus semper eventibus decere designentur."

       La cerimonia è descritta nella Vita di Taddeo già citata. Nei Docum. al n. 58 sono riferiti alcuni frammenti del diploma del 9 maggio 1502 estr. dal Saggio di prose e rime del can. G. Rivalla imolese, Pesaro 1784, e dalle Memorie Ferri mmss. nella Biblioteca com. d' Imola.

    In Romagna, eccetto alcune castellante, tutte le altre maggiori cariche del ducato erano occupate da romagnoli, fatti luogotenenti o podestà delle città, ovvero vicari delle terre : e alcuni ottennero altri governatorati fuori, come Carlo de' Maschi riminese a Terni . Oddantonio Dandini cesenate a Rieti : Pirro dei Numai fu podestà a Ferrara, e Polidoro Tiberti fu senatore di Roma. I benefizi chiesastici non potevano essere conferiti che ai sacerdoti della città : ma perché si avevano a fare le nomine dal duca e dagli Anziani, la concessione tornava pure a profitto del duca stesso,, il quale ne poteva ricompensar quelli che più gli erano affezionati : così Cipriano de' Numai in Forlì ebbe il priorato di S. Salvatore, e Giambattista della Volpe divenne proposto della cattedrale d' Imola.
     Ma il duca era per provvedere ad un migliore ordinamento del ducato, affinché l'amministrazione della giustizia fosse più spedita ed esente da quelle forme di sommarietà e di arbitrio, di cui le patenti del 1500 davano facoltà al luogotenente generale. Nel vescovo Olivieri prima, e poi in don Remico di Lorqua era raccolta ogni autorità, e ad essi i sudditi dovevano ricorrere contro gli atti e le sentenze degli officiali ducali ; e potevano giudicare in civile ed in criminale, in tutte le cause, nel modo che a loro pareva il più idoneo, molte volte senza alcun appello. Volle per ciò il duca istituire una Rota, nella quale sedessero sette o più dottori, secondo il numero delle città del dominio, ognuna delle quali avrebbe a mandarvi un dottore scelto dal duca: da quel tribunale supremo, nelle sue sessioni, doveva farsi ragione in ogni causa civile o criminale, a' preti ed a secolari, e anche in materia di benefici ecclesiastici. Ad uditori della Rota erano designati : Oddantonio Dandino per Cesena, m. Galeotto dei Gualdi per Rimini, m. Guglielmo Lambertacci per Forlì, m. Giovanni di Matteo per Pesaro, m. Pier Lodovico per Fano, m. Andrea Negosanti per Faenza, e m. Annibale per Imola. Presidente doveva essere m. Antonio dal Monte uditore della Rota di Roma. Avendo da darne il consenso per il giudizio de' preti e sui benefici, il pontefice ordinò che i dottori potessero essere secolari o preti ; ma volle che il presidente fosse o vescovo o protonotario, onde di tale dignità egli onorò m. Antonio che non l' aveva. Nel luglio di quest' anno, la Rota doveva essere istituita, e ne fu presentata la bolla in Concistoro ; ma fu ritardata di alcuni mesi dalle guerre nuove.

       Così ne parla il Giustinian in un disp. del 29 luglio 1502:

     Intanto in due anni di ordinato governo, la Éomagna era divenuta quieta ed unita, e vi avevano buon rifugio tutti quelli che i Veneziani ave vano bandito da Ravenna, e gli Estensi da Lugo o da Bagnacavallo : in Rimini si trova un Giberto da Ravenna, in Imola un Giambattista Ferro con al cuni altri suoi parenti di Lugo, dei quali invano Ecole domandò l' espulsione, perché essi avevano lettere del duca "de poter stare et habitare li beramente nel territorio suo." Anzi il 2 febbraio gli Anziani di Forlì conferirono la cittadinanza ad un Jeronimo Barbacciani ravennate, per la sua fede e devozione verso lo stato del duca e di quella citta. l Nel 1501 in Fano aveva messo stamperia Girolamo Soncino, uno dei più celebri di quella nu merosa famiglia di tipografi che in tante città diffuse la civile arte. Nel luglio del 1501 quando il card. Vera era a prender possesso di Fano, a lui il Soncino si era presentato dicendogli il propo sito suo. di fare in quella città il suo "perpetuo "Questa Rota noviter instìtuita averà da sette fin nove dottori, dei quali potino esser preti o secolari; ma il presidente debi es ser o vescovo o protonotario (per ora é designato per presidente don Antonio de Montibus auditor di Rota, el qual el Pontefice ora lo crea protonotario); et averanno all'anno de salario fermo ducati 200: 100 li dà il duca, e 100 la Camera. Faranno rason in civilibus et in criminalibus, a' preti et secularibus, et in ma teria beneficaì ancora". i "Fide ac devotione erga statum 111."" D.ni nostri D.cia Valentinensis et hujus nostrae reipublicae". Decret. Antiau. 2 feb. 1502. Archivio com. di Farli. - 262 — domicilio" e di condurvi intagliatori di lettere ed impressori valenti ; onde il cardinale, avendolo "benignamente esaudito" lo aveva posto sotto la protezione del duca. 1 Era forse quella la prima stamperia stabile, fondata in Romagna, donde in cominciassero ad uscire libri di pregevole lettura. Fin dal 1495 in Forlì stampavano Paolo di Guarino e Giangiacomo delli Fontaueti da Reggio, i quali pure vi erano nel dicembre del 1500; 2 ma non si ha notizia che vi lavorassero in grande, cosi che soltanto qualche anno dopo, nel 1507, Paolo Guarino poté pubblicarvi le Costituzioni della Mar ca d'Ancona. Eppure la Romagna fin dai primordì aveva dato all' arte compositori ed editori eccel lenti, fra i quali i fratelli Giovanni e Gregorio de'Gregori di Forlì, che nel 1481 avevano aperto in Venezia una buona tipografia, della quale si hanno non poche edizioni. Il Soncino, che lavo rava a concorrenza di Aldo Manuzio, come aveva promesso, dié subito mano alla stampa. Uno dei primi lavori che gli furono commessi, furono gli Statuti di Fano che come quelli di tutte le altre città di Romagna e delle altre pro- ,vincie della Chiesa non si erano ancora stampati, eccetto quelli di Cesena e di Ascoli nel principio del pontificato di Alessandro VI. 3 Ai 25 gennaio

     

    1 V. la dedica, 7 luglio 1503, nei Docum. al n. 79. 2 "Et io ne la nostra ciptà de Forlì ne fei stampare de numaro più de 500 per mani de uno nostro Paulo de Guarino et de Gian Jacomo de li Fontaneti da Reggio". Hist. di A. Ber nardi. 3 Bibliografia statutaria e storica italiana, comp. da Luigi Manzoni, Bologna 1876. — 263 — di questo anno nella residenza del governatore furono convocati i causidici ed i curiali con gli avvocati i procuratori ed i notai, dai quali fu ap provato che la stampa dei detti Statuti si commet tesse al Soncino, "a perpetua memoria dell'illu strissimo signor duca ;" e ognuno degli interve nuti promise di comprarne un volume. 1 Ma il Soncino, si ignora per quale impedimento, protrasse per alcuni anni il lavoro, e invece ne eseguì altri. Ai 30 di aprile di questo stesso anno compi in un bel libretto in 4.° una Vita di Epaminonda redatta da Lorenzo Astemio maceratese, in fine al quale pose la nota: "Fani M. CCCCC. IL Pridie Kalendas Maii. Illustrissimoque Principe et Domino Caesare Borgia Duce Romandiolae Valentiaeque ac Plombini Dno et sacrosanctae, R. E. Vexillifero Capitaneo generali feliciter regnante Magister Hieronymus Soncinus Ducali Excellentiae deditissimus impressit. "

      1 "Ad perpetuata memoriam Ill.mi Domini nostri Dacia". L'atto 25 gennaio 1502, redatto dal cancelliere, é pub. nelle Me morie della Biblioteca Fridericiana, di Luigi Masetti, Fano 1873.

    IV.

     Negli ozi silenziosi di Roma — durante i quali nemmeno il Burcardo ha da narrare un qualche aneddoto — il duca aveva aspettato il termine delle contese napoletane, per compiere le imprese che le fantasie della sua grandezza gli facevano desiderare. Cacciati tutti i vicarì dalla Romagna, degli altri che ancora rimanevano negli stati della Chiesa tutti avevano da temere di lui, che (come qualche mese dopo disse al vescovo Soderini) si era proposto di distruggere tutti i tiranni. Né erano solo i Varano di Camerino che avevano da aspettare le armi di lui, ma dovevano temerle anche la prefettessa di Sinigallia ed il duca di Urbino, contro il quale particolarmente fin dall'anno prima aveva rivolto le sue ire, per i soccorsi dati ai parenti suoi di Camerino. Era Guidobaldo un buon principe, che i popoli del suo Montefeltro amavano quale lor padre; ma la infermità sua naturale, che privava il ducato di un erede, rendeva quello stato debole, esposto al pericolò di essere spartito fra i vicini signori. In questa condizione, ebbe il duca speranza di averlo da quegli stessi urbinati che volevano assicurarsi di non andare in mano d'altri signori, o della Chiesa: ma il modo che gli mancava, gli fu dato dall'impresa di Camerino. Nel luglio del 1501, rimandata quella guerra, a Guidobaldo si era un po' rimessa la paura, onde aveva lasciato che la moglie Elisabetta accompagnasse Lucrezia in Ferrara, sebbene a mezzo ottobre nella lettera al Savelli si dicesse apertamente macchinarsi dal duca la guerra ai Camerinesi ed agli Urbinati. Forse 10 aveva assicurato il favore che presso il papa ed il re godeva il card. della Rovere, del quale egli era per adottare il nipote Francesco signore di Sinigallia, figliuolo di una sua sorella; e lo avevano assicurato il matrimonio del prefettino con Angela Borgia, e il breve del 18 marzo con cui 11 papa incaricava il vescovo di Urbino di conferire al piccolo Francesco la prefettura di Roma, che per una bolla di Sisto IV era ereditaria della famiglia della Rovere. Ma rinnovatasi la paura, ultimamente Guido per mezzo di un frate osservante suo amicissimo aveva fatto richiedere il card. Ferrari datario, il quale "sopra la testa sua" gli fece rispondere che in quanto si era scritto in Francia, in Germania ed in Venezia non erasi fatta di lui alcuna menzione se non in bene.

       V. la let. di Guidobaldo 28 giugno 1502 al n. 60 dei Docum.
     II datario moriva in Roma il 20 luglio di quest'anno. Certi autori dissero che gli fu propinato veleno dal duca Valentino; ma il sospetto é ben dichiarato insussistente nella Vita del cardinale del conte G. Ferrari-Moreni, Modena 1875.

     Ma a queste risposte non poteva Guido esser sicuro per i sinistri intendimenti che il duca aveva contro di lui, del quale non era per favorire la potenza, non volendo come nel 1496, andar contro ai nemici di casa Borgia che erano suoi parenti ed amici : né il proposito di adottare il prefettino di Sinigallia che egli aveva fatto andare alla corte sua per ingraziarsi il card. della Rovere, era per piacere a chi quella successione desiderava.
     Né meno aveva da temere Giovanni Bentivogli, il quale dall'indugio del papa a segnare i capitoli di Villafontana, e dalla donazione dei castelli di Cento e Pieve, traeva pretesto a non pagare i denari della condotta, temendo che non avessero da servire ai soldati che dovevano cacciarlo di stato. Benché il papa ai 10 di gennaio gli avesse approvato e confermato quei capitoli,

       Il breve non é fra quelli pub. dal Gozzadini. È ram. in una risposta dei Sedici a Luigi XII, del 17 ottobre 1502 ; "La sua B."e sotto li diese del mese de gennaro proximo passato del presente anno, siccome appare e consta per suo breve apostolico, approbò et confirmò tutto quello che é sopradicto et tutto quello che se contiene nelli sopradicti capituli". Archivio di Bologna.

    il Bentivogli viveva in continuo sospetto che il duca non fosse per assaltare di nuovo la città, dalla quale si era partito non per volontà propria, ma per forza dei suoi soldati che avevano volto a loro profitto la lega di Villafontana. E aveva ragione di temere, perché in Roma nella corte del duca erano ben visti i Malvezzi, che lo incitavano a far vendetta delle stragi che dei Marescotti i Bentivoglieschi . dopo la pace, avevano compiuto sotto la fede di lui. Così delle due convenzioni fatte nel 1501, per diverse ragioni né i Bolognesi né i Fiorentini erano per mantenere la loro ; né Cesare poteva costringere questi per rispetto al re, né quelli per rispetto agli Orsini che glielo contrastavano. Dopo l' assalto di Firenze a cui il duca si era lasciato trascinare contro la volontà del pontefice, per tenersi amici i suoi capitani malcontenti di lui, li aveva donati di ricche terre negli stati suoi e della Chiesa. Paolo Orsini aveva avuto in feudo Terra Cesarina, il vecchio Castel Bolognese, ed a Vitellozzo, il papa aveva dato il castello di Mon tone, che da Braccio per il nome ebbe la fama. Ma é probabile che se il duca non era per favo rire la loro parte, né gli Orsini né il Vitelli — sebbene lo seguissero alla guerra di Napoli — non 10 avrebbero più servito della loro milizia, senza la quale non gli era ancora possibile di compiere i desiderati acquisti. E già fra essi qualche ma lumore era sorto per le offese, che andavan fa cendo alle città romane che si reggevano a li bertà chiesastica: nel novembre del 1501 il Vi telli commetteva tali guasti nell'Orvietano, che 11 papa indignato gli scriveva un breve aperto affinché tutti conoscessero la sua volontà : però lo chiamava sempre "diletto figliuolo." ' Ma già

     

    1 È del 9 novembre 1501 in ap. alle notizie su Alessandro VI e il Valentìno in Orvieto, di L. Fumi, Siena 1877. — 268 — essi potevano fare a fidanza col papa. Ai primi di gennaio di quest' anno Oli verotto Eufreducci, che nella compagnia di Vitellozzo, aveva servito il duca in Romagna ed in Toscana, ritornava in Fermo che governavasi sotto la signoria di Giovanni Fogliani zio di lui ; dal parente e dai priori della città fu incontrato ed onoratissimamente ricevuto. Il dì 8, egli invitò lo zio ed i principali cittadini ad un solenne banchetto dato per festeggiare il suo ritorno, nel fine procurò che i discorsi cadessero intorno a Cesare e ad Alessandro VI, onde dicendo "essere materia da trattare in luogo più secreto, si levò e con loro si ritrasse in altra stanza, nella quale aveva fatto appostare i suoi, che di soldati fattisi sicari, perfidamente tutti li uccisero.

       Cronache della città di Fermo pub. da Gaetano De Minicis, Firenze 1870.

    Poi montato a cavallo corse la città, e incominciò la strage de' parenti ed amici del Fogliani, fra i quali Raffaele della Rovere e due figli suoi infanti, ucciso l'uno nel grembo della madre e l'altro gettato da una finestra nella piazza: e dei morti e dei fuggiti confiscò i beni. e cacciò i priori e istituì un governo proprio. Dopo l' eccidio mandò a dire al papa da' suoi deputati che egli teneva Fermo come vicario della Chiesa.
     Ma il duca, se delle due convenzioni del 1501 non poteva rompere quella di Villafontana, alla cui osservanza si erano obbligati gli Orsini, delle armi de' quali era ancora per valersi, poteva bene col mezzo loro farsi mantenere quella di Campi, quantunque ad essi non favorevole. Del resto gli Orsini, malcontenti del fallito assalto dell' armi prima non aspettavano che il suo consenso per offendere di nuovo i Fiorentini, e ritentare per la quinta o la sesta volta di rimettere i Medici in istato. L'incerto governo che per desiderio di libertà que' cittadini avevano dato alla repubblica, e le difficoltà di danaro che pativano que' "fallliti mercanti," facevano sperare facile la impresa ; ma anche questa volta per la smania di Vitellozzo di avere Borgo S. Sepolcro, Pietro de' Medici non poteva rivedere Firenze, donde per la sua viltà era stato cacciato. Ma il duca oltre il suo richiese che ancora avessero il consenso del re, perché egli — sebbene i Fiorentini non fossero più nella sua grazia — desiderava di farne la volontà. Andò pertanto in Francia qualcuno per parte dei Medici e degli Orsini a pregare il re di accordar loro "il consenso di potere con sua grazia assaltare la città ;," fra gli altri vi fu un m. Pepo cancelliere di Pandolfo Petrucci, il quale più di tutti era per aiutare il ritorno degli amici. Non appare che il duca od il papa cercassero direttamente di avere quel consenso da Luigi: al contrario, si ha cenno di pratiche da essi tenute con i Pisani, i quali avendo Cesare ai loro confini erano per richiederne la protezione ed anche per dargli la signoria della città, affinché li avesse difesi contro gli odiati Fiorentini.
     Ma queste pratiche furono rotte dalla guerra di Napoli. Fra i due re che si contendevano il dominio del Napoletano, maldiviso del trattato di Granata, Alessandro VI aveva cercato di interporsi per evitare una guerra, che era per mettere in pericolo anche lo stato del figliuolo. Ma la sua intromissione anche questa volta non poteva avere buon effetto, affinché si avverasse la profezia di san Cataldo a proposito del bove dello stemma borgiano. all'apparire del quale terribil guerra sarebbe in Italia.

       Il cantare fu puh. dal march. G. D' Adda nel voì. 1° dell'Archivio storico lombardo, fasc, del febbraio 1875. E questo profetico san Cataldo
    quando il bo in Italia perirebbe
    e che christian comb&tartm saldo ecc.

    Il papa pertanto propose che Luigi di Francia e Ferdinando d'Aragona rimettessero in lui le ragioni della contesa loro nel Regno di Napoli; i re promisero, ma perché l'uno era desideroso della parte toccata all'altro nella divisione, non mantennero la promessa. Ai 5 di aprile però Luigi aveva pattuito con Filippo d'Austria che agiva per conto dei Reali di Spagna, una convenzione per cui si avevano da sospendere i dissidi, dovendo le due Corone far donazione del Regno al piccolo Carlo figlio dell'arciduca ed a Luisa unica figlia del re, il matrimonio dei quali erasi concluso nel trattato di Trento dell'ottobre dell'anno prima. Ma Ferdinando non fu per accettare la convenzione fatta dal genero, e si preparò a conquistare tutto il Regno ; e Luigi si fece cedere da Federico — che allo scadere del salvacondotto d'Ischia era andato alla corte di lui — tutte le sue ragioni non della sola parte che nella divisione spettava a Francia ma anche di quella toccata a Spagna. Gli diede in compenso il ducato di Angiò, dal quale egli traeva i diritti alla successione di Napoli.
     Senza la grande riputazione che aveva il re in Italia non potrebbe spiegarsi come — fra le minaccie spagnuole e tedesche — la protezione francese avesse da essere con tanta istanza cercata. Ma le renitenze dei Veneziani, e la indecisione del papa a dare aiuti al re nella guerra, furono causa che egli con le paure li cercasse dai Fiorentini e con le grazie dal duca di Ferrara e dal marchese di Mantova, quasi senza rispetto dei suoi vecchi alleati. Il papa ed il duca erano sdegnati con i Fiorentini per la inosservanza dei capitoli di Campi, ed egli ai 16 di aprile faceva con loro nuovi patti di protezione per assicurarli che né il papa né il duca avrebbero dato mano ai nemici del loro stato, alla prima occasione che fosse per presentarsi. I Veneziani più volte avevano designato al re il duca di Ferrara e il marchese di Mantova quali nemici del nome francese in Italia, ed egli non solo li proteggeva, ma anche all' estense faceva un dono invidiabile. In Romagna, ai confini dello stato di Ercole, possedeva il re un bel castello che aveva dato i natali al primo degli Sforza, il castello di Cotignola, per cui Lodovico aveva portato il titolo di conte : alla conquista della Lombardia, i Veneziani avevano tentato di occuparlo, ma ne avevano avuto divieto dal re, le cui bandiere erano state sollevate su quelle celebri torri. Ora Luigi con diploma del 27 aprile di quel castello fece donazione ad Ercole e ad Alfonso d'Este, loro vita naturale durante, per ricompensare les bons et tres recommandables services da loro prestati col solo obbligo di pagare il debito censo alla Santa Sede.

       I molti atti che riguardano la donazione di Cotignola si conservano nell'Archivio di Stato in Modena, ancora inediti. — Essi correggono l'errore di frà G. Bonoli che nella Storia di Cotignola, Ravenna 1734, racconta che "il re ne fece donazione all'estense di Ferrara avendogliela preseti tata lo stesso duca Valentino". Il Bonoli confuse il nome di Cesare Borgia con quello di Cesare Guasco milanese, il procuratore regio che andò a dare il possesso del castello.

     Né il re ebbe soltanto a prendere in protezione i Fiorentini, ma svelo anche loro i propositi dei loro nemici. Pochi di prima della conchiusione dei nuovi capitoli, egli sotto parole generali fece intendere all' ambasciatore che mal sarebbe capitato alla repubblica se presto non pattuiva la convenzione, e gli parlo dei messi dei Medici e degli Orsini che erano stati da lui a chiedergli il consenso di assaltare la città ; onde l' ambasciatore aveva avvisato la Signoria di far arrestare m. Pepo al suo ritorno di Francia. Ma dal canto suo il card. di Rohan al vescovo G. V. Soderini ed a Luca degli Albizzi che trattarono la protezione persuase, che "operassero che la città s' intendesse col papa, osservandogli almeno parte delle promesse, attesoché gran conto ne faceva il re per la sua potenza e sue armi in Italia."

       II dispaccio é citato nell'Istoria fiorentina di J. Pitti.

    E forse il cardinale ciò persuase anche agli oratori del Bentivogli, perché si trova che ai primi di maggio si cominciarono a pagare al duca i denari della condotta, sebbene i suoi sospetti non fossero ancora cessati ;

       Nel voi. 12 dei Partitorum del Comune di Bologna, in data 31 maggio 1502, é notato un conto di 4,000 ducati di carlini ossiano lire 12,150 di bolognini "prò totidem sub die quinto mensis maij anni praedicti,.... solutis Alexandro de Francis Thesaurario. 111. D.ni Ducis Valentini quas pecunias recepit nomine praefati D.ni Ducis ratione ejus stipendii cum eo conventi".

    anzi da Fileno si racconta questo caso: un Bernardino Gozzadini che era stato ambasciatore a Roma, al suo ritorno in Bologna, fece tanto dubitare di sé per aver parlato in Roma coi Malvezzi, ben visti alla corte del duca, che temendo della sua vita, il 16 maggio fu costretto a rifugiarsi in un convento di frati. Né quelle persuasioni del ministro del re, erano fatte in mal punto, poiché — mentre Luigi non aveva rispetto a' suoi alleati, — Ferdinando con promesse e con doni cercava di ingraziarseli, e particolarmente il papa, dal quale si aspettava di avere la investitura del Regno. Per ciò, dato a Cesare il principato di Andria, il 15 maggio otteneva da Alessandro VI un breve, per il quale egli ed Isabella erano dispensati dall'obbligo di prestare il giuramento personale di fedeltà; ed essi con un atto del 20 maggio assicuravano alla famiglia Borgia tutti i feudi che possedeva nel Regno, anche nella parte che era toccata a Luigi di Francia ; vi sono nominati Cesare ed i suoi successori per Andria, don Jofré per Squillace, don Juan (l'orfano del duca di Gandia) per Sessa e Teano, e Lucrezia e il figliuolo Rodrigo per Bisceglie e Corata. Ma questi favori non erano per fare abbandonare da Cesare le parti francesi, che egli pure aveva contribuito a rendere tanto riputate in Italia.
     Egli voleva continuare a seguirle; ma voleva dal canto suo che il re lo favorisse nelle imprese sue d'Italia, contro i vicari della Chiesa che egli si sentiva la forza di esterminare. Onde egli, cogliendo l'occasione che della sua potenza il re doveva fare gran conto, non esitò a gettarsi in nuovi ardimenti, ne' quali solo la fortuna sua sempre benigna poteva aiutarlo.
     Alla fine di maggio pertanto fu dichiarata la guerra contro i Varano, resa più difficile dal lungo indugio, perché aveva dato tempo a quei vicari di preparare una forte difesa ; e già in Camerino erano convenuti fuorusciti ghibellini d'ogni terra di Roma, Colonna e Savelli, ed Oddi di Perugia. Agli ultimi del mese A. Giustinian, che andava orator veneto al papa, per via, a Cagli incontrò un auditore del signor di Camerino che gli disse avere i suoi speranza di difendersi ed invocò l'aiuto dei Veneziani, dei quali Giulio Varano era stato capitan generale ; l' ambasciatore gli dié buone ma generali parole. Il Giustinian giunto a Roma il 5 giugno, aveva commissione di andare a riverire il duca, dopo il papa, per dirgli il "paterno amore" che per lui aveva la Signoria:

       "Visitabis illustrissimum D. Ducem Valentinensem, cui explicabis, abundanti verborum copia, paternum amorem nostrum in Excellentiam suam". Istruz. del doge 23 maggio 1502.

    vi andò subito assieme al suo collega, Marino Giorgi ma non poté avere udienza "per la difficoltà grande che lui usa in lasciarsi visitare," e tornatovi alcuni giorni dopo, non fu più fortunato. Gli dispiacque quella "difficile sua natura" per il desiderio grande che aveva di conoscere un principe, del quale aveva udito narrare le splendide accoglienze e gli spaventevoli atti. E giunto a Roma, ebbe subito ad udirne un altro.
     Nel luglio dell'anno prima, dopo la partenza di Cesare per la guerra di Napoli, si disse che Astor Manfredi era stato messo in Castel S. Angelo ; né di lui, né del fratel naturale Giovanni durante tanti mesi si ebbero più notizie. 1 due Manfredi erano stati ritenuti per quella ragion di stato, per cui erano prigioni in Francia Lodovico il Moro e in Ispagna don Ferrandino figliuolo del re Federico, contro la fede del gran capitano. Ma l'autor della Cronaca faentina, quando narra che i suoi signori furono messi nel castello dov' era Caterina Sforza, nota che madonna finalmente ne usci, perché per l'odio grande che i Forlivesi portavano ai Riart, non era di alcun pericolo alla sicurezza del dominio di Romagna, ma che i poveri Manfredi non ne uscirono più "per essere amati e desiderati dai popoli." E la loro fine fu atrocissima. Il Giustinian, il di dopo che giunse in Roma, scrisse a' suoi: "È sta detto che zuoba, de notte, sono stati buttati in Tevere e annegati quelli due signorotti di Faenza, insieme con el loro mastro di casa ;" ma non si curò di saperne di più, preoccupato dalle novità di Arezzo e di Pisa e dalla partenza del duca. I particolari del Burcardo son questi : "Furono trovati nel Tevere soffocati e morti il signor di Faenza giovane in torno ai 18 anni di bella forma e statura, con un sasso al collo, e altri due giovani insieme legati per le braccia, uno di 15 anni ed uno di 25, e presso loro una certa donna (quaedam faemina) e molti altri." La strage sarebbe avvenuta nella notte del 2 giugno ; ma se ne ignora il modo. Onde é da meravigliare che, compiendosi con così perfida crudeltà, i cadaveri delle vittime fossero esposti agli occhi di tutta Roma. Ma il delitto non parve grande abbastanza, poiché si aggiunse, che non fu Astorre privato della vita, senza aver "satiata prima (secondo si disse) la libidine di qualchuno." Forse l'avvenenza della vittima poté ne' costumi corrotti della corte papale dar credito a quella voce, che solo il Guicciardini riporta.

       Nelle cronache bolognesi il fatto non é narrato più ampiamente. Giacomo Zili scrive: "O crudel cosa, averli toltolo stato e poi privarlo della vita".

     Di questa morte misteriosa nessun documento faentino poté trovarsi, che contenesse maggiori notizie. Francesca Bentivogli, la madre di Astorre, e Cassandra, la madre di Giovanni Evangelista, (dopo la uccisione di Galeotto Manfredi fattasi monaca domenicana in Faenza) domandarono per ciascuna di essere messe in possesso dei beni lasciati in eredità dai loro morti figliuoli. Anche il governator di Romagna ebbe a pubblicare un editto per ovviare alle querele che da molti cittadini di Faenza gli erano fatte "circa la satisfactione delli debiti e crediti de Astorgio ultimo de Manfredis" onde deputò all'esame delle ragioni per la Camera ducale Jacomo Moni, Zuccolo de' Zuccoli e Jacomo Azzurrino, e per la Comunità il luogotenente di Faenza e Dionisi Salecchio. Ma questi atti non danno migliori indicazioni della miserevole fine degli sventurati ; solo quest' ultimo chiamando Astorre l' ultimo de' Manfredi fa intendere l'iniqua ragione per la quale fu morto. E forse alla morte di lui si riferiva la nuova "commissione" che aveva fatto andare don Remiro in Faenza, e che lo teneva tanto occupato, che avendo da ricevere i castelli di Russi Solarolo e Granarolo dati in pegno all'estense, il 13 giugno dovette deputare il luogotenente faentino Pier Lodovico da Fano, il tesoriere Cesare Viarano e il fattore Battista Gavina.

       La lettera 13 giugno 1502 é nei Docum. al n. 59.

    La bolla della concessione era stata spedita solo agli ultimi di maggio. Il duca non si era ancor mosso da Roma, che il di 8 giugno si udì che gli Aretini si erano ribellati dal dominio fiorentino al grido di Marzocco e Medici, e che avevano chiamato Vitellozzo ; il quale tre giorni dopo, il 7, vi andò con molti fanti seguito dal fratel suo Giulio vescovo di Città di Castello con le artiglierie. Era la congiura che la Signoria non aveva saputo scoprire, quando fece esaminare m. Pepo cancelliere di Pandolfo Petrucci arrestato al suo ritorno di Francia. In apparenza né il duca né il papa avevano alcuna parte in quella ribellione ; né forse ve ne avevano nemmeno gli Orsini, i quali non volendo contrariare il re, probabilmente preferirono che il Vitellozzo da solo, con qualche loro aiuto, facesse la vendetta del fratel suo Paolo. I Fiorentini subitamente scrissero al loro ambasciatore a Roma di far intendere al papa il carico che egli aveva di quel movimento, che per esservi un suo soldato giudicavano procedesse da lui ; ma Alessandro poté rispondere di non averne alcuna parte, e scusarsene aggiungendo di avere anzi inviato un breve ai ribelli per la liberazione del vescovo de' Pazzi, che da loro era stato fatto prigione. Ma restano indubitate prove che il papa ed il duca segretamente favorirono il Vitelli e gli Aretini ; basta citare queste: Entrato in Arezzo, Vitellozzo mandò ad Urbino a ricercare di mille fanti il duca Guidobaldo, il quale (come poi ebbe a scrivere) rispose di non poterli dare senza un breve del papa, al quale come vicario della Chiesa avrebbe obbedito ; "di che (il Vitelli) si sdegnò forte e disse che non lo poteva fare:" vuolsi però notare, che il dì 11 fu in Arezzo un suo oratore con soccorsi di danari e di munizioni.

       V. il Diario della ribellione d' Arezzo di F. Pezzati.

    Il 14 vi entrò pure Gian Paolo Baglioni, con alcune squadre di cavalli, il quale per essere stato capitano dei Fiorentini non volendo per se stesso offenderli, chiese prima al duca una lettera che gli comandasse di andare a quella impresa: la lettera servì poi al Baglioni di scusa presso i suoi confederati. Con questi aiuti Vitellozzo che si era assunto di rimettere Pier de Medici in Firenze, come in tante volte non avevano potuto gli Orsini, in pochi giorni occupò tutta la Valdichiana.
     Ma Cesare, se segretamente favoriva il movimento, non era per credere che i Fiorentini — posti sotto la protezione di Francia —, non avessero potuto reprimerlo ; ma però lasciava che Vitellozzo lo continuasse per vendicarsi di loro che gli avevano negato i patti della condotta. Del resto la mancanza degli Orsini nel campo dei ribelli non deve passarsi inosservata. Certo é che il duca era per giovarsi di questo movimento, anziché per procurare il ritorno de' Medici in Toscana, nella quale egli stesso voleva stabilire la propria potenza. Nei giorni stessi, nei quali pareva che egli ad Arezzo favorisse i mediceschi, a Pisa si faceva acclamare signore: il di 10 giungeva in Roma un messo che portava lettere della Comunità Pisana, le quali annunziavano che quei cittadini avevano alzato le bandiere del duca e l'aveano gridato loro signore.

       "Ozi, circa, le 20 ore é venuto un messo al Duca con lettere della Comunità di Pisa, che li significano quella terra aver le vato le sue bandiere e chiamatolo per suo signor". Disp. di A. Giustinian 10 giugno 1502.

    Quella nomina poteva fare impaurire i Fiorentini, ben più che la ribellione degli Aretini; perché, mentre questa essi potevano reprimere con pochi soldati francesi, datasi Pisa al duca, se questi la accettava, essi dovevano disperare di mai più riaverla; ma il papa nel concistoro del 14 disse che né egli né il duca avrebbero mai acconsentito alle richieste de' Pisani.
     In mezzo a queste novità di Toscana, il duca parti da Roma il 12 giugno andando a Spoleto dove aveva ridotto l' esercito : era di 700 uomini d'arme e 6,000 fanti, e altri 2,000 erano in Romagna. Intanto era giunto in Perugia il vescovo d'Elna commissario generale del campo, il quale mandò a Guidobaldo di Urbino due spagnuoli con un breve papale e con commissione di provvedere al passo di 1,500 fanti ed al trasporto delle artiglierie, che avevano da fare la via di Gubbio Cagli e Sassoferrato. Guidobaldo rimandò a Perugia m. Dolce de' Lotti suo vicario generale a far dire al vescovo che tutto quanto era richiesto si sarebbe fatto, e poi gli ordinò di andare incontro al duca a Spoleto ad offerirgli ogni favore. Cesare conferendo con lui gli commise di ringraziare Guidobaldo, dicendo che "deliberava di non avere altro fratello in Italia che lui" e di pregarlo "strettissimamente" di dare a Vitellozzo i mille fanti che aveva domandato. Tornato m. Dolce, Guidobaldo il di 20 lo rimandò al duca a dirgli che non potendo avere a tempo un breve papale onde "essere scaricato col re di Francia," preferiva che Vitellozzo avesse mandato uno dei suoi a fare 500 fanti, per i quali egli era pronto a spendere mille ducati, credendo bastassero: e fece mettere in ordine un corsiero con una sopravesta di broccato da mandare il di seguente al duca. Ma l' aiuto che Guidobaldo finalmente si disponeva a dare al Vitelli era oramai inutile, perché egli aveva ottenuto quasi tutta la Valdichiana, i cui castelli al nome di Marzocco e Medici a lui si arrendevano: e il di 17 otteneva pure la cittadella d'Arezzo. Contro i nemici la Signoria aveva subito mandato Antonio Giacomino con i fanti che erano nel Pisano, il quale aspettando che arrivasse con gli uomini d' arme Morgante Baglioni — trattenuto alquanti dì da Giampaolo — dovette ritirarsi ai castelli di Capalona e di Montevarchi senza poter soccorrere la cittadella. Essa si arrendeva al Vitelli il giorno stesso, che gli compariva nel campo un araldo francese mandato dal signor di Chaumont governatore di Lombardia a nome del re, con lettere che comandavano a Vitellozzo ed agli altri di desistere dall'offendere i Fiorentini.
     Giunto a Spoleto, nella qual città si fermava alcuni giorni, il duca spacciava corrieri in Romagna, ove per ordine suo il governatore aveva fatto 2,000 fanti, si diceva, per l'impresa di Camerino. Mille avevano da andare per l' Isola di Fano tra i passi degli stati di Sinigallia e di Urbino; con loro erano i conti di Montevecchio e di S. Lorenzo : e mille altri si raccoglievano a Verucchio e S. Arcangelo, con i quali era Dionigi di Naldo con 300 di quelli della Val dell'Amone. E altri ne erano comandati. Il corriere che giunse in Forlì il giorno 19 recava un bando ducale per tutte le città del dominio, che comandava un uomo per casa; il quale al segno della campana doveva armato recarsi alla piazza, al servizio del signore. Il giorno prima il tesoriere di Romagna aveva fatto mercato di 5.000 lanciotti da fanti, per armarne le milizie paesane.

       Historia ms. di A. Bernardi. — Nella Cronaca del Lancellotti il contratto é così accennato "Adì 18 zugno. Jacomo di Remengardi da Modena si fece merchà con dito ducha de 5,000 lanzotti de fanti da pede per duchati 400 e fece merchà in Forlì con misser Bertolo de Bertolo texorero de la Romagna e degele dare infra uno mexo proximo".

     Frattanto Cesare, levatosi da Nocera, prese la via di Costacciaro e mandò innanzi 2,000 fanti leggieri. i quali si spinsero fino a Cagli ; ed egli cavalcò loro dietro, in modo che m. Dolce Lotti che la mattina del 20 era partito da Urbino, lo trovò fra Cagli e Cantiano. Conduceva i fanti un m. Domenico spagnuolo, il quale dicendo che erano quelli delle artiglierie fu ricevuto in Cagli, dove entrato, al grido di Valenza fece occuparela rocca e la terra; e il duca vi giunse la sera. In quel trambusto il commissario di Cagli poté avvisare Guidobaldo "il duca venire come inimico e la mattina seguente voller essere a Urbino." Era stato Guidobaldo a cenare fuori della città, quando ad ore 24, dal luogotenente di Fossombrone gli giunse notizia che dei fanti di Romagna 1,000 venivano per l'Isola di Fano, e dalla Comunità di S. Marino, che gli altri erano ai passi di Verucchio e di S. Arcangelo. Onde, vedendosi assalito da ogni parte, né potendo difendersi in Urbino per essere i muri deboli, pensò di ritirarsi a S. Leo fortezza imprendibile, e a 4 ore di notte parti con tre de' suoi ed alcuni balestrieri, seco conducendo il prefettino di Sinigallia ; ma quando all'alba, a 4 miglia dal castello, intese che i fanti di Romagna avevano occupato i passi, andò verso S. Agata a' confini de' Fiorentini e del duca, dove deliberò di separarsi dal prefettino che mandò verso Bagno, ed egli travestito da villano, licenziati i balestrieri, continuò a fuggire per la montagna tra i castelli del vescovato di Sarsina.

       V. la lettera di Guidobaldo al n. 60 dei Docum. — Questa lettera basta a distruggere il racconto che della presa fanno il Matarazzo e il Buonaccorsi; il quale ultimo fra le altre cose asserisce che il duca aveva "prima spogliato quel signore di genti e di artiglierie perché ne lo aveva ricerco come amico suo per servirsene nella impresa di Camerino" e che fuggito Guido, "benché il Valentino gli andassi dietro per haverlo nelle mani non gli riuscì".

     Nella sua lettera Guidobaldo afferma che egli viveva "sicurissimo" e che l' assalto improvviso fu uh "tiro" del duca. Per contro Cesare così ebbe a narrarlo in una lettera al papa. Diceva che "esso duca intese pria essendo a Spoleti, che il duca di Urbino faceva union de zente, e za aveva esatti li denari dai sudditi per pagarle, a favore di Camerino. Non volse crederlo, non se persuadendo che quel duca volesse mancar, dalla fede sua data a Sua Santità; se non che, essendo a Foligno, ebbe per la ritenzione di un canzeliero del signor da Camerino, che tutta la speranza del suo signor era nel favor del duca di Urbino, dal quale l'aveva zente e vittuarie; il che poi li fu confirmato per un altro canzelier del duca di Urbino retenuto, dal qual ebbe che '1 duca suo aveva ordine, che, passando le arteglierie da Ugubio (che dovevano andar con poca custodia e senza suspetto, per la fede avuta da lui), dovessero esser retenute. Sdegnato per la intelligenzia del predetto tradimento, esso Duca scrive averse levato da Nocera, relictis impedimentis e tolta solum vittuaria per tre zorni; e redrizate le gente da pò et da cavallo verso il stado d' Urbino con grandissima celerita zonse a Cantiano, terra d' Urbino, poi a Cai ; nelli qual lochi per paura li furono aperte le porte, e datoli obbedienzia. Essendo poi partito da Cai, per venirsene verso Urbino, non molto lontano s'incontrò nel castellano de Urbin e tre ambasciatori del popolo, che li offersero la terra a suo commando, e li dissero che '1 suo signor conscio dell'error suo, e visto che l'aveva perso la mazor parte del stato e dubitava del resto e della persona, la notte avanti alle 4 ore con doi dei suoi camerieri et altrettanti staffieri e balestrieri a cavallo era fuzito dalla terra, e non disse verso che luogo." La lettera era del 21, data in un luogo tra Cagli ed Urbino, che l' ambasciator veneto non poté .rammentare. In fine il duca faceva "una breve escusazion, se senza intelligenza di sua Santità aveva fatta questa impresa, perché il tradimento li é parso tanto enorme, che non lo ha possuto patire."

       La lettera é riassunta nel disp. 24 giugno 1502 da Roma di A. Giustinian.

    Ma il papa alcuni di prima l'aveva indicata, quando disse agli oratori di avere inteso essere il signore di Camerino aiutato dai signori suoi vicini.
     Delle due versioni dell'assalto, quella di Guidobaldo non é più sincera di questa di Cesare ; poiché anche in essa debba ricercarsi la soverchia cura di esporre i fatti nel modo più conveniente alla propria causa. È notevole infatti che Guidobaldo, mentre nella sua lettera tace sopra l' accusa di avere aiutato i Varano, risponde piuttosto all' altra, essere egli stato cacciato dai popoli, come intendeva cominciare a dire il duca, dopo la solenne sua entrata in Urbino. — Vi entrò Cesare quattro o cinque ore dopo la fuga di Guidobaldo, e gli andarono incontro i primi ufficiali feltreschi, ai quali Guido prima di partire aveva raccomandato che la citta "non patisse male nessuno ;" e vi entrò a cavallo con la lancia sulla coscia a guisa di conquistatore. Smontato al palazzo di Federico, vi fu visitato dal gonfaloniere e dai priori che a lui fecero atto di riverenza. Per sua sicurtà volle che alcuni de' principali cittadini, al fuggito signore affezionati, gli fossero dati come ostaggi: e per ingraziarsi il popolo malcontento della guerra pubblicò un editto contro le rapine de' soldati, e tenuti in Urbino soltanto i suoi gentiluomini, fece accampare l' esercito al castello di Fermignano. Perché voleva mostrarsi clemente, nessuno altro offese fuori di Dolce Lotti, il quale con altri due pericolava forse perché, essendo da Spoleto, aveva voluto essere più fedele al signor suo, anziché obbediente al papa, di cui era suddito. E gli altri primi ufficiali di Guidobaldo lasciò ad alti uffici : troppo sicuro della sua fortuna.
     Continuando a fuggire per la montagna, Guidobaldo morto dalla paura e dalla fatica . dopo essere scampato ai villani che lo assaltarono al passo del Borello, giunse la notte del 21 al 22 a Castelnuovo, luogo dei Veneziani. Saputo il suo caso, i Rettori di Ravenna gli mandarono subito un loro uomo con alcuni cavalli a prenderlo; ma avendo voluto Guidobaldo riposarsi ancora, per la gotta che lo tormentava, ne avvenne che l'ufficiale di Meldola — arrestato un messo che veniva da Ravenna ad affrettar la partenza — ne ritrasse essere Guido in quel castello: onde inviò comandati sulla via diritta di Ravenna e verso Galiata castello de' Fiorentini, affinché di là non potesse scampare in Toscana. Allora Guido senza aspettar la notte, presa altra strada, con i compagni poté passare fra Bertinoro e Cesena nel mezzo dello stato di Romagna e per vie traverse giungere all' alba del 23 in Ravenna. Mentre i fuggenti traversavano quelle campagne, a Bertinoro, a Cesena, a Forlimpopoli si cominciarono a trarre artiglierie suonare campane e far alti falo : credettero che fossero cenni all'arme perché fossero inseguiti, ma forse erano i segni di gioia che i cronisti ci narrano essersi fatti nelle città del ducato all'annunzio della occupazione di Urbino. La credenza che allora si ebbe sulla fuga di Guido fu questa che, non essendo egli andato in Toscana per la via di Bagno, si fosse gettato ai monti verso Bologna; onde Giovan Bentivogli il dì 23 — mentre il fuggito era già in salvo a Ravenna — fece pubblicare un bando affinché fosse preso.

       II bando de' Sedici rìferito nel libro 22 Mandatorum, in data 23 giugno 1502 é questo: "Comandemo a tutti et qualunque capitano de le Montagne, podestà, vicarii et altri officiali del Conta et jurisdictione de Bologna, a li quali pervenerà la presente, che accadendo capitareli el Duca overo Conte de Urbino lo debiano pigliare et rettenere, sotto pena de la nostra desgrazia".

    Giunto a Mantova il di 28 Guidobaldo in una lunga lettera al card. della Rovere descrisse i casi suoi, la compassione dei quali é vinta dalla maraviglia, che egli in un giorno potesse perdere uno stato che i difficili passi e le nuove fortezze facevano credere inespugnabile.
     Questa impresa dai politici del tempo fu giudicata meravigliosa, perché inaspettatamente si senti prima l' entrata del duca in Urbino, che la sua partita da Foligno. Tutte le città, tutte le rocche dello stato si arresero al fortunato conquistatore, eccetto quella di S. Leo, nella quale Guidobaldo voleva nella fuga ripararsi, antico nido dell' aquila di Montefeltro; ma essa pure dopo due o tre mesi dovette arrendersi. Per tanta facilità se non é da credere al Matarazzo o all' autore della cronaca a lui attribuita, che cioé Cesare in Urbino avesse ordito un trattato per il quale Guidobaldo doveva essere ammazzato da' suoi proprì famigliari. é pero da credere al Buonaccorsi ed agli altri cronisti, i quali assicurano che il duca avesse un trattato co' primarì cittadini d' Urbino, per torre a Guido lo stato.

       "Et pare che con uno segretario del prefato duca de Urbino si era inteso per modo, che quello segretario li dette le fortezze, et Urbino in le mani clam. Et il povero Duca fuggitte per paura." Diario ferrarese.

    Onde Cesare poteva dire al re non averlo cacciato ma esser quegli fuggito per timore dei popoli che lui avevano accolto. Ma Guidobaldo, protestando col card. della Rovere, di voler stare al paragone di questa cosa davanti alla maestà del re, non voleva ammettere di "essere stato cacciato dalli popoli," e cautamente taceva sull'altra accusa che il duca gli faceva di avere aiutato i Varano, — pretesto del suo assalto — sebbene veramente li avesse aiutati : e in vero cosi era noto che i signori di Urbino e di Sinigallia avevano fornito di soccorsi i parenti, che dopo la presa di Urbino, corse voce che anche Sinigallia si era data al duca. Ma del buon pretesto il papa si valse nel processo che subito fece formare contro il fuggito.
     II cronista Bernardi non ammette dubbio, che in questo assalto di Urbino il duca non avesse il consenso del re di Francia, afferma anzi che l'impresa fu compiuta di volontà sua e della lega. L'asserzione del Bernardi può essere probabile, per quanto dagli ufficiali ducali egli poté averne assicurazione in Forli ; ma la rendono molto incerta la domanda del paragone che Guidobaldo domandò di avere davanti a sua maestà, e la partenza precipitata del card. della Rovere da Savona, dove in quei dì si trovava. Egli, avendo saputo l'intento del duca, aveva scritto a Guidobaldo ed alla prefettessa di Sinigallia (che col figliuolo era alla corte di Urbino) di far andare a lui il piccolo Francesco, dopoché solennemente il 24 di aprile era stato investito della prefettura di Roma; ma Guido, che avendo seco il nipote del cardinale ritenevasi più sicuro, aveva tardato di farglielo condurre fino al giorno in cui improvvisamente era stato assalito. Salvato il prefettino, Giuliano era ancora in Savona, quando vi arrivarono m. Trocces cameriere del papa ed il card. d'Albret che per mare si recavano in Francia alla corte : la loro partenza da Roma era stata annunziata fino dal 15 di giugno, ma avevano aspettato alcuni giorni di più a salpare, forse per udir la nuova della presa di Urbino. Essi portavano il cappello al vescovo Ferreri, con cui Giuliano parente suo aveva permutato il vescovato di Bologna. Ma al loro arrivo in Savona, il cardinale ne partì eoa tanta fretta, che pubblicamente si disse, essere egli con quella apparente fuga scampato ad una "trappola" nella quale m. Trocces aveva cercato di ridurlo:

       A questa voce accenna anche il Giustinian in un dispaccio del 1° luglio 1502. — II Burcardo, descrivendo minutamente la partenza de' due da Roma, dice perfino i nomi delle due meretrici romane che li accompagnavano.

    e sì che anche un mese prima, come fu detto, era scampato ad un' altra che, sempre per ordine del papa, gli aveva teso un m. Tommaso Spinola. Vera o no la cosa, tutti e tre si recarono in Francia, incontro a Luigi che era in via di venire in Italia con un esercito di 20 mila uomini per la guerra di Napoli, alla quale omai si era per dare principio. I Fiorentini credettero poi, e fecero scrivere ne' loro libri di protocollo, la venuta del re essere apposta per loro: ma a metà di giugno doveva già essere ordinata, se l'imperatore Massimiliano poteva da Augusta avvertire i suoi confederati italiani che non si avessero da fidare dei francesi, perché la venuta del re in Italia non era ad altro fine che di torre i loro stati.

       Disp. di A. Semenza, 27 giugno 1502 da Augusta.

     Ma il duca, se anche aveva il consenso del re per l'assalto di Urbino, sembra che lo compisse senza quello de' suoi capitani ; é questa almeno un'opinione che si riscontra nelle cronache perugine e fiorentine. In quella attribuita al Matarazzo si racconta che "sentendo il gran tradimento" Vitellozzo e Gian Paolo Baglioni partirono subito d' Arezzo per consigliarsi sul da fare. "Parve a lor signorie el caso acerbo e strano e subbito cavalcando venner a trovare el magnifico Morgante Baglione che stava al Laco Transimeno, e cum sua signoria longamente parlaro del gran tradimento per lo duca usato, incominciando a cognoscere la maranica fé più apertamente ;" ma che tra loro fosse concluso, il cronista non sa dire. Anche nel diario del Buonaccorsi forse si accenna a questo, quando vi si narra che il duca andando ad Urbino lasciò a Foligno con gli uomini d'arme Paolo Orsini. Comunque sia la cosa, certo é che fra il duca ed i suoi capitani incominciavano i dissensi : egli lasciava che Pier de' Medici entrasse in Arezzo, e facevasi proclamar signore di Pisa ; ed essi, mentre dicevano di favorire il Medici, al duca promettevano di voler farlo re di Toscana. E i dissensi fra pochi dì si manifestarono.
     Appena in Urbino il duca aveva mandato a domandare ai Fiorentini un uomo per intendersi con loro. Gli mandarono il vescovo de' Soderini ad udire le sue proposte, il quale giuntovi il 25, fu subito da lui ricevuto. Lo trovò quasi solo nel bel palazzo di Federico primo duca di Urbino, e per le sale non incontrò che qualche gentiluomo della sua guardia e qualche suo segretario ; era intento col tesoriere Alessandro di Francio e con don Remiro che da Cesena erasi recato a trovarlo, a provvedere al governo del suo nuovo stato. Vide anche Paolo e Giulio Orsini. Il duca gli disse che fin dall' anno prima egli aveva a dolersi della città, per la inosservata capitolazione di Campi ; onde se mai se ne aveva a fare una nuova, voleva che si cambiasse il govèrno, perché altrimenti, cosi come era, egli non se ne poteva fidare. Giurò di non aver conosciuta la congiura di Arezzo, ma aggiunse di averne avuto piacere, perché i Fiorentini con essa potevano persuadersi del danno che loro veniva dal non intendersi con lui. A questo proposito fece notare che, essendo amici suoi, nessuno li avrebbe molestati ; ma li minacciò che "se non lo volevano amico lo avrebbero provato inimico." II vescovo scrivendo ai suoi quanto il duca gli aveva detto, per conto suo non ebbe a mancare di Jiotar l'importanza che i suoi avevano ad aver amico quel fortunato capitano. Nel dispaccio del 25 giugno così ne parla: "Questo signore é molto splendido et magnifico, et nelle armi é tanto animoso, che non é si gran cosa che non li paja piccola, et per gloria et per acquistare stato mai si riposa, né conoscie fatica o periculo. Giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la partita donde si lieva. Fassi ben volere a' suoi soldati ; ha cappati e' migliori uomini d' Italia ; le quali cose lo fanno victorioso et formidabile, adgiunto, con una perpetua fortuna." Pare che l' oratore sia preso da questa grandezza, né sa che rispondere a quelle "tante ragioni" che il duca usa nel suo dire facile.

       "Et arguiva con tante ragioni, che sarebbe lungo replicare, perché dello ingegno et della lingua si vale quanto vuole." Disp. Soderini, 9 luglio 1502 da Urbino.

    Né manca di rilevare in quel discorso alcune parole : "Non pensava di torvi niente del vostro, come non voleva di quello di persona, non essendo lui per tiranneggiare, ma per spegnere i tiranni."
     Aspettando la risposta il duca si recò al campo di Fermignano, nel qual castello egli era il di 5 luglio, data di una sua patente di nomina per Vandino de' Vandini da Faenza, luogotenente di Gubbio. Andato ad una caccia in que' monti, cadde, si disse con qualche pericolo, onde da Urbino andò a visitarlo il suo medico m. Raniero da Rimini. I Fiorentini frattanto, in gran tumulto, discutevano le proposte del duca: da alcuni furono presentate lettere di Francia giunte fino da aprile, nelle quali il card. Roano persuadeva che al Talentino fossero osservate almeno parte delle promesse;

       Importanti notizie su queste discussioni si leggono nell' Istoria Fiorentina di J. Pitti. Però i dispacci del vescovo Soderini si sono riferiti con molte alterazioni.

    e altri dei più popolari per acquietarlo sulle riforme dello stato, proposero di creare un gonfaloniere a vita, lasciata solo al Consiglio grande la elezione degli offizi : e il partito dapprima passò, sebbene i più preferissero di rimettere al re la cosa. Ma presa la deliberazione, a Fermignano il di 6 si presentava al duca un araldo del re, a protestare che non fosse per offendere i Fiorentini, perché offendendoli in cosa alcuna avrebbe offeso sua maestà : era stato mandato a richiesta della Signoria, la quale con quel divieto voleva mostrargli di essere in grazia del re, sebbene i suoi ribelli continuassero a prendere Anghiari e Borgo S. Sepolcro. Il di 9 l' oratore comunicò al duca, in Urbino, che i suoi acconsentivano alla lega con lui, ma domandavano che intanto egli, perché i nemici loro non fossero per avere nuovi successi, facesse ritirare Vitellozzo : egli però rispose che non lo avrebbe fatto prima dell'accordo, ma per mostrare il suo buon volere propose di adoperarsi per una sospensione d'armi. Ma sopra queste proposte, la Signoria non ebbe uopo di far prendere una deliberazione dal Consiglio generale, perché da' suoi ambasciatori da Grenoble, aveva ricevuto lettere, come il re era in via per l'Italia con un esercito di 20 mila uomini, e che esso avrebbe provveduto al tutto. Cosi decise di rispondergli, che sarebbero pronti a compiacergli: ma che prima volevano bene conferire il tutto col re e secondo il suo consiglio farne deliberazione. E il vescovo ebbe ordine di tirare in lungo la pratica, per dar tempo alle lance francesi di giungere al campo. Il duca accortosi che i Fiorentini lo volevano ingannare, non lo nascose all'ambasciatore, dicendo che egli pure era per rimettere nel re la cosa della condotta: ma fece rilevare il benefizio che potevano averne, giacché con essa sarebbero stati assicurati dal Vitelli e dagli Orsini.

       "Per mezzo della quale al certo havate essere restituiti, assicurati di Vitellozzo et Orsini et tutti li altri vostri inimici, et non havate bisogno di spendere per la restituzione né per la difesa vostra un soldo". Disp. Soderini 15 luglio 1502 da Urbino.

    Ma di queste parole assai chiare, che il duca ebbe poi a rammentare in altra celebre circostanza, parve che allora né il vescovo né i Fiorentini volessero intendere il senso. Ma é da notarsi, che mentre egli così parlava de' suoi capitani, delle offese loro si rendeva partecipe dicendo per il movimento di Arezzo : "Quando il re vorrà cosi, non mi impaccerò più avanti." E il dì 19 il vescovo prendeva da lui licenza di partire.
     Da alcuni atti che di questo di si conoscono appare che Cesare già si intitolava duca di Urbino. Ma di quello "stato debole" come poi ebbe a chiamarlo non poteva fare gran conto, se da quel palazzo di Federico egli faceva trasportare nella ducale sua Cesena le cose d'arte pregevoli che vi erano state adunate, fra le quali non ultima la mirabile libreria dagli eruditi del tempo tanto celebrata. Egli, quale miglior preda del suo trionfo, la mandava ad unire a quella che aveva ordinato raccogliersi nella capitale del suo ducato, detta da Camillo Leonardo "prestantissima" per gli innumerevoli esemplari che conteneva.

       "Inter alios tuos innumeros, ut ita dixerim, libros praestantiseimae bibliothecae tuae etc." Epist. idibus septembris 1502 È nei Docum. al n. 66.

    Fra le statue ritrovava ancora il famoso Cupido di Michelangelo da lui anni prima, essendo cardinale, donato a Guidobaldo. Di questo Cupido e di una Venere desiderando ornare il suo studio, Isabella d'Este il 30 di giugno scriveva a Lodovico Balneo ed al fratello Ippolito pregandoli di richiedere per lei al duca di Romagna quelle statue ; e perché tutte e due credeva antiche, diceva non parerle "inconveniente pensiere, intendendo che la Sua Ex. non se delecta molto de antiquità." La gentile marchesana domandava al suo "compare" parte della preda, tre giorni dopo che il povero Guido era giunto in Mantova con solo "un giuppone et una camiscia," in quella che senza compassione per l' ospite sventurato chiama "mutatione de stato de Urbino." È vero però, che ella preferiva che la domanda gliela facessero altri per non avere, come diceva, "dimestichezza" con lui di sorte alcuna ! Ma non per tanto Cesare tosto la compiacque e le mandò un m. Francesco suo cameriero a presentar le due statue, il quale giunse a Mantova il 21 luglio. E per rendere più pregevole il dono, le fece sapere non essere il Cupido antico, come ella credeva, ma di mano di quel Michelangelo statuario fiorentino, che aveva fatto il gruppo della Pietà nella cappella del re di Francia in S. Pietro, — da lui acquistato quando il card. Riario male sdegnato dell'inganno lo volle restituire a chi glielo aveva venduto per antico. Onde Isabella diceva in una lettera al marito : "Non scrivo de la bellezza de la Venere per che credo v. S. l'abbi veduta, ma el Cupido per cosa moderna non ha paro."

       Questa let. di Isabella, del 22 luglio 1502, come l' altra al n. 61, é al n. 04 dei Docum.

     Fra gli atti che portano il titolo di duca d'Urbino , é del 15 luglio un diploma di privilegi da lui accordati agli uomini di Castel Durante, la odierna Urbania, fra i quali la conferma degli statuti e la remissione di tutte le colpe che sino al principio del suo dominio erano state commesse, previa la pace fra gli offesi.

       II diploma é nei Docum. al n. 62. — È rif. nella Storia dei duchi dì Urbino, di F. Ugolini, Firenze 1859.

    Il privilegio venne forse conceduto per intercessione di Donato Bramante, che presso quel castello, al Monte Asdrubaldo — onde egli compiacevasi di chiamarsi asdrubaldino — aveva tratto i suoi natali: probabilmente egli seguiva il duca fra gli altri architetti e ingegneri, primo dei quali era Leonardo da Vinci, che allora era stato costituito architetto ed in gegnere generale in tutti gli stati. Anzi allora da Cesare aveva ricevuto particolare commissione di visitarne le fortezze.
     Da Urbino il 15 scriveva pure a Nicolo Masini medico cesenate, della perizia del quale dieeva di avere singolare opinione, per commettergli di recarsi subito a Ferrara, a far consulto con Gaspare Torella che vi era, su una indisposizione di madama Lucrezia sua sorella.

       V. la lettera ducale al n. 63 dei Docum. V. la Genealogia della Famiglia Masini dell' ab. Cesare Masini, Venezia 1748.

    E a lei il di 20 scriveva una lettera affettuosa per dargli la buona nuova della resa di Camerino, dicendo di sperare che ella le avrebbe fatto onore con un evidente effetto di miglioramento "imperocché (scriveva) con la sua infermità né da questa né da altre possemo sentire piacere alcuno."
     I Varano avevano dapprima mostrato di fare una forte resistenza, avendo Venanzio rotto in aperta campagna Francesco Orsini duca di Gravina che conduceva i cavalli ; ma perduto il contado, si videro ad un tratto mancare i fanti da durare a un lungo assedio. Con Giulio Cesare vecchio di 70 anni erano i suoi figliuoli maggiori Annibale, Venanzio ; gli altri Pirro e Gian Maria erano fuori ad implorare soccorso dai Veneziani, dei quali il padre era stato capitano. E con loro erano molti fuorusciti delle città romane, Colonna Savelli e Baglioni. Ma l' assedio non poteva essere lungo, perché troppi erano i cittadini da loro offesi. Conquistato il borgo, alcuni nobili giovani di avversa fazione furono incitati da Gian Antonio Ferraccioli a rimettere la patria in libertà: onde in un Consiglio fecero deliberare, che il signore ad impedire l' esterminio di tutti, facesse la resa della città, oppure che consentisse la facessero essi. Annibale perciò con il Ferraccioli ed altri il dì 18 luglio dovette andare al campo a parlamentare con Giulio Orsino, il quale — avvisato delle angustie della città e del tumulto dei cittadini — "non si allargò di fare altro partito che di lasciare uscire i Varano salvi con le loro robe." Ma continuandosi ne' di seguenti le pratiche "senza altra risoluzione d' accordo" i ribelli uscirono in armi ed apersero una porta ai ducali. I Varano subito furono tutti presi ; Venanzio calatosi in un pozzo fu scoperto dallo stesso famiglio che l' aveva aiutato a nascondervisi. Le notizie del Diario Liliano che fino a questo punto concordano con quelle riassunte nei dispacci del Giustinian, son diverse, quando si riferiscono ai prigionieri.

       Il Diario é cìt. nell' Istoria di Camerino di C. Lilii. — Nella cronaca del Matarazzo si aggiunge : "Et el signore de Camerino de" suoi tirannarie, estorsione e tradimenti fu ben pagato".

    Della loro sorte così le notizie furono incerte, che l'ambasciatore in un dispaccio del 24 poté scrivere: "Faranno per iudicio de ogni uno la mala fine;" ma poi i a un altro del 27 annunzia che parte furono mandati a Matelica e parte ad Urbino. Come nota il Diario, Annibale e Venanzio il di 23 furono condotti fuori di Camerino, e Giulio cui la vecchiaia impediva di camminare, fu posto sopra una mula, così che la notte dové dormir nella stalla con essa ; quando uscì dalla città, uno Stremuccio bottegajo forse da lui offeso, gli gridò dalle mura che si baciasse il cartoccio. Da altri invece si racconta che Giulio andò a Matelica presso Ranuccio degli Ottoni suo genero, che ne era signore ; ma che non poté restarvi a lungo, poiché si aggiunge che il duca, saputo dove esso si era ricoverato, mandò a pregare Ranuccio di condurre a lui il parente in Urbino, e che avendoglielo Ranuccio troppo compiacente condotto, fatta al vecchio buona accoglienza, gli raccomandò per maggiore sicurezza di metterlo nella rocca della Pergola. Ma il racconto é improbabile, perché anche l' Ottoni era decaduto dal suo vicariato di Matelica, donde il card. Farnese legato della Marca lo cacciò.

       In ottobre, secondo le Memorie di Matelica racc. da Camillo Acquacotta, Ancona 1838. Quest' autore uon fa il mìnimo cenno dell'andata di Giulio Varano a Matelica.

    Il Lilii con la scorta del diario della sua famiglia aggiunge soltanto, che dei Varano il padre fu chiuso il dì 25 nella rocca di Pergola, e che i figli furono condotti da fanti spagnuoli in quella della Cattolica, fra Rimini e Pesaro. Migliore assai fu la sorte degli altri prigionieri, fra i quali Carlo Baglioni, che andarono ad Urbino a rimettersi nelle mani del duca. Per ciò é inesatto quanto si narra da F. Guicciardini, che cioé "il Valentino, mentre trattava accordo con Giulio da Varano signore di Camerino, conseguito con inganni quella città, ed essendo Giulio con due figliuoli venuto in potestà sua, gli fece con la medesima immanità, che usava contro agli altri, strangolare."
     Intanto, un giorno prima della resa di Camerino, ai 19 di luglio, il vescovo Soderini prendeva licenza dal duca, che oramai era inutile d' intrattenere con altre parole, dopoché in Toscana erano apparse le lance francesi mandate in soccorso ai Fiorentini. E il re stesso ai 7 del mese era in Asti. La improvvisa calata, perché avvenne nel momento appunto, che Guidobaldo e Giulio Varano erano cacciati ed i Fiorentini offesi nel dominio di Pisa e nella ribellione di Arezzo, fece credere a' molti che fosse in danno del duca, i cui acquisti diminuivano la potenza francese in Italia, ed a quelli particolarmente ai quali l'imperatore l'aveva annunziata perché l'avessero a temere. La corte di Luigi fu subito piena di quanti erano stati offesi da Cesare: vi andarono Guido di Urbino e Ercole Varano, uno dei nipoti che Giulio dopo l'uccisione del fratello aveva cacciato da Camerino, e che il papa aveva pur dichiarato con gli altri decaduti dal vicariato. E le loro proteste erano sostenute non solo dai Fiorentini ma anche dai Veneziani, impazienti di riprendere in Italia quella preponderanza che per due anni loro aveva impedito la .guerra col Turco: e le loro proteste erano risentite, perché orgogliosi di una vittoria riportata nell'arcipelago, non potevano tollerare l'onta di non aver potuto difendere i due loro vecchi confederati. Tante furono le querele, che andò fuori la voce che il re fosse per togliere lo stato al duca. E contro lui usò forti parole il marchese di Mantova, il quale — non avendo potuto l'anno prima essere capitano della lega contro i francesi — allora ne invocava la protezione per essere capitano di quella che aveva da rimettere in istato i signori cacciati da Cesare. Ma se il marchese alla corte regia usava tali parole contro il duca, Isabella sua moglie gli raccomandava di mandare qualcuno ad Urbino per riavere la dote della sorella come questa desiderava, e faceva ringraziare Cesare per il dono delle statue che le aveva inviato.

       V. la let. 22 luglio 1503 nel n. 64 dei Docum. Nella lettera seguente del 23 circa la dote : "Perché ho inteso che.... ha poi diete altre parole ne la Corte del Re contro Valentino, non sciò quanto seria in proposito mandare, se fussero parole de sorte ch'el si havesse a sdegnare havendole intese".

    E il giorno dopo lo avvisava che Pier Gentile Varano, che pure era ricoverato in Mantova, la sera del 22 luglio partiva per andare a parlare al fratello Ercole alla corte del re, e notava : "Dubito che la sia una coperta ch'el pigli, per venir dreto la Ex. V. per spiare li antamenti suoi : essendosi in questa fama ch'el Christianissimo ne voglia farla cavalcare contro il duca Valentino, al quale é da credere sii affezionato e habi come lui qualche intelligenza per la impresa de Camerino." Onde lo pregava di esser ritenuto con lui e con ogni altra persona "perché adesso non si sa di chi fidarsi et quando accadesse accordo fra il Re e il Valentino, non seria fora de proposito che la S. V. se avesse conservato : però che li stabilimenti di stati, come sa quella, non se guarda allo interesse del compagno, né ad inimicizie che prima sieno state fra loro." Cosi Isabella d'Este, la gentile marchesana di Mantova, in poche parole spiegava tutto il vantato artifizio della diplomazia del secolo.
     In mezzo a tanti sospetti, Cesare seppe quali fossero le intenzioni del re da m. Trocces, che nel ritorno si era fermato ad Urbino. Per tanto avendo egli compreso che Luigi non era per volere che i Fiorentini fossero più oltre molestati, mandò uomi ni apposta a Vitellozzo perché si ritirasse da Arezzo, non volendo egli più impacciarsene contro la vo lontà del re. Anzi lo minacciò, che per costrin gerlo a levarsi sarebbe andato egli stesso a Città di Castello, cosi che "avrebbe potuto togliergli 10 stato, perché i primi uomini della terra sua gli si venivano ad offerirsi. l" Mancano le no tizie sicure su questo proposito, da cui ebbero ori gine i primi dissensi fra il duca ed i suoi capi tani; né é possibile dirne la precisa data. Ma é da notarsi che il duca non fece altre minaccie, e lasciò che Vitellozzo ed il Baglioni si ritiras sero al giungere dei capitani Imbault e Lancres in Val di Chiana con le lance francesi; ma i ri belli seppero cosi bene destreggiarsi, che Imbault 11 23 li invitava a Laterina a desinare con lui, ed il 24 andava egli in Arezzo, dove con grande onore fu condotto a palazzo ; e finalmente il 26 fra loro convennero, che si consegnassero tutte le terre occupate, con la riserva che di Arezzo non si sarebbe pigliato partito alcuno, prima che il card. Orsini fosse stato a parlare e far riverenza al re, al quale Vitellozzo sarebbe andato ogni volta che il cardinale gliene avesse scritto. Ma il duca non stette ad aspettare ad Urbino che i capitoli fossero firmati. Egli il di 25, accom pagnato da quattro de' suoi, incognito, vestito da cavaliere gerosolimitano partiva occultamente da Urbino: gli ambasciatori della Comunità di Ce sena che erano andati a riverirlo e congratularsi dei conquisti suoi, furono da lui ricevuti nell'at to che stava per partire, così travestito.2 Il 26

     

    1 Queste parole del duca rifer. nel disp. Machiavelli 7 otto bre 1502 concordano con quanto leggesi nella Vita del Giacomini di J. Pitti: "Intanto Castello sgombera per ricevere il duca Valentino, al quale aveva mandato quattro oratori". 2 Diariutn Caesenate e Historia di A. Bernardi. — 304 — arrivava in Forli, dove il tesoriere Berto da Oriolo gli dié cavalli freschi: e il 28 in Ferrara, e fermatovisi due ore a visitar la sorella inferma, accompagnato da don Alfonso, ripartiva in fretta per Modena. Non solo per il desiderio di veder Lucrezia, Cesare non era passato per Bologna. Gio vanni Bentivogli pareva con lui nelle migliori re lazioni, perché non pure aveva mantenuto i ca pitoli di Villafontana ma si era anche adoperato per il buon esito blelle sue imprese, tanto che aveva fatto un bando per la cattura del fuggente Guidobaldo: tuttavia aveva grande gelosia del suo stato, e appunto in questi giorni faceva subiti armamenti, convenendo da lui tutti gli sforzeschi. Il duca da Ferrara spacciò un cavallaro ad avvisare il re della sua andata alla corte. Luigi ne parlo al governatore di Milano mons. di Chaumont e gli fece mandare incontro freschi cavalli. ' A questo riguardo il cronista Bernardi dà nella sua Istoria assai curiosi particolari. Il re dappri ma tenne segretissimo l'arrivo del duca alla sua corte, e la mattina del 5 agosto lo fece solo co noscere al Trivulzio poche ore prima, al quale lo annunciò all'orecchio, in modo però che udissero I "Soua maestà... al so locotenente de la ci pià de Milano... al* a dire: bona nova abiamo, uno mio secreto te voglio revelare come al presente la Ex."" del nostro signor Cesare Borgia se re trova a la ciptà di Ferrarla vestito de cavaliere de san Zollano per venirne a rivisitarne, vignando lui incognito come cavalare da posta. Alora li rispose dito locotenente: una miore nova a vostra M.tà voglio dare che lui se ritrova più propinque come presto vel farò vedere". Sistoria ma. di A. Bernardi. — 305 — tutti i signori che gli erano intorno, frai quali il marchese di Mantova. Dopo che, seguito da al cuni de' suoi, gli andò incontro, e come fu arri vato, gli gettò il braccio al collo e baciandolo più volte gli disse: "Bene sia venuto el mio monsignor cosino e bon parente," e lo accompagnò al castello di Milano dove gli era preparato l'appar tamento. ì E la sera del giorno seguente lo andò a visitare fino alla camera sua, e lo condusse nel le sale regie, ai divertimenti che vi erano dati. Bastò cosi che Cesare giungesse in Milano, per ché le accoglienze fattegli dal re mostrassero quanto poco fondamento avevano quelle voci che prima si erano udite, essere Luigi sdegnato con lui e volere togliergli lo stato. Un card. Borgia, forse Francesco di Cosenza, che era in Cesena fece pubblicare per tutte le città del ducato, le lettere che narravano quanto onorevolmente il duca era stato ricevuto da sua maestà. Senza la grande opinione che aveva il re della potenza del pontefice (al quale dagli amba sciatori spagnuoli il 20 luglio erano state rimesse le ragioni delle contese napoletane) non sareb bero spiegate le buone dimostrazioni da lui fatte al duca, contro cui da ogni parte aveva udito

     

    1 "Fata tale prenontia, immediate soua M.tà se partì et venne incontro a soua Ex.tìa come poca comitiva, che luto el resto rima sene in quello loco tute stupefacte : arivato che fu di subito soua M.li je botò el so bratio al colo et basandolo più volte, dicando: bene sia venuto el mio mons. cosino e bon parente, e luto di compagnia s' avigliouo et nel castello di Milano entrono". 20 — 306 — tante lagnanze. È certo, che il re nella prossima guerra voleva avere l'amicizia del papa e del duca; ma più la desiderava il card. di Rohan, il quale — agitato dal desiderio di conseguire la tiara — desiderava di accrescere nel conclave il numero de' suoi aderenti, e di avere in Francia il titolo di protettore del Regno, prima posseduto dal card. della Rovere. Per questo tutti i fuorusciti che erano andati alla corte ebbero licenza, appena il duca vi giunse: ed i card. Riario e della Rovere dovettero assistere alla riconciliazione di Cesare e del marchese di Mantova, così stretta, che si annunzio essersi concluso il matrimonio fra i loro fanciulli, il "puttinó" Francesco e la piccola Luisa. Per caso, mentre di altre pratiche di as sai minore importanza abbondano le notizie, di queste rimangono poche, fatte certe soltanto dal loro effetto: ne' dispacci degli ambasciatori, e par ticolarmente in quelli del Giustinian, non si ri portano che notizie contradditorie, le une più stra ne delle altre, quali si udivano contare giorno per giorno. Ma questa "reintegrazione" non toglieva i dissensi fra il duca ed i suoi capitani. Quando il 29 luglio il Vitelli ed il Baglioni uscirono da Arezzo con tutti i loro soldati, tanto erano sde gnati contro Cesare che loro aveva imposto di levarsi dai luoghi occupati, che si disse che voleano andare contro di lui. l E più si sdegnarono

     

    1 Diario della ribellìone d' Arezzo di F. Pezzati. — 307 — per l'andata sua a Milano perché, come poi alle garono, avendo essi "voluto farlo re di Toscana, a lui non bastò solo il non volere accettare questo benefizio, ma, andando a trovare il re li mise in disgrazia di sua maestà." Ma già prima che il duca fosse in Milano, all'ultimo di luglio Luigi aveva spedito ad Imbault ed a Lancres in Toscana una intimazione di non osservare i capitoli fatti, dei quali non avevano il mandato, e di far restituire prontamente le città di Cortona e di Arezzo. Né il cardinale Orsini, che pure dal re ebbe buona accoglienza, poté impedire che la cosa non si ina sprisse in modo, che non volendo Vitellozzo re stituire alcune artiglierie, non fosse dato ordine che contro di lui si usasse la forza. È certo che il duca lasciò che le cose dei suoi capitani pre cipitassero, dopoché Vitellozzo non volle andare a far riverenza al re ; meno prudente di Pandolfo Petrucci, che ne aveva subito comprato la protezione per evitarne l' ira. Del resto non im portava che il duca gettasse la colpa sul Vitelli della ribellione di Arezzo, come alcuni storici as seriscono, per ingraziarsi il re ; perché egli stesso non poteva ottenere che i Fiorentini gli mante nessero la condotta, ma poteva solo ottenere che non la dessero al marchese di Mantova, come ne avevano intenzione, quantunque il marchese per far dimenticare la battaglia di Fornovo e le pra tiche di Germania prendesse poco dopo, il 7 set tembre in Asti, la protezione di Francia.
     A mezzo agosto, Luigi da Milano recavasi a Genova dove pure lo seguiva il duca. Nella fermata di Pavia, il 18 agosto Cesare firmava una patente di libero passo per il suo ingegner generale Leonardo da Vinci, che in quei giorni compiva la visita delle fortezze di Romagna.

       La patente 18 agosto 1502 é al n. 65 dei Documenti. Pub. per la prima volta dal p. Della Valle nella edizione senese delle Vite del Vasari, nei primi anni del secolo era perduta. V. Del cenacolo di Leonardo da Vinci, di G. Bossi, Milano 1810.

    In questo diploma é ommesso il titolo di dux Urbini che si legge negli altri di pochi giorni prima. Se é lecito fare una congettura su tale ommissione, che pure si mantiene nei diplomi posteriori, pare che Cesare rinunciasse a quel titolo per rispetto al re, al giudizio del quale per intercessione del card. della Rovere e del marchese di Mantova erano forse state rimesse le ragioni dell'ultimo dei Montefeltro. Correva voce intanto che Guidobaldo fosse per rinunciare alla corona di duca per un cappello di cardinale, che gli era stato promesso. Al mattino del 22 partito da Pavia, il re era in Genova il 26. Nel seguito erano i quattro cardinali di Rohan, della Rovere, Riario e Albret, poi alcuni vescovi della corte regia, indi Cesare prima di tutti i principi, Lanemburgo, Lignl. Borbone e Trimoglia, infine gli ambasciatori dell' imperatore dei Veneziani e Fiorentini. Il re fu ricevuto sotto il pallio : cavalcava una mula bardata di velluto cremisino a fili d'oro: era vestito di drappo d'oro, con una berretta di velluto nero in capo. Fra le grazie che gli domandarono i Genovesi, queste furono, che facesse confermar loro dal papa i privilegi della città e che conferisse il cappello cardinalizio ad un vescovo del Fiesco; per le quali grazie pregarono anche il duca, così che poco dopo gli scrissero lettere di ringraziamento. Il 2 settembre, tornando il re ad Asti, Cesare prese commiato da lui, che nell' accordarglielo gli fece grandi dimostrazioni d'amore; e trattandolo come buon parente ed amico, lo fece accompagnare da tutti i suoi onoratissimamente. E da alcuni si era creduto, che Luigi XII l' avrebbe ritenuto presso di sé e condotto oltre le alpi, a grande consolazione di quanti aveva offeso in Italia!
     Nel ritorno dalla corte del re, Cesare si recò subito ad Imola, dove il 10 settembre furono a trovarlo il card. Borgia, il vescovo di B1na e il governator della Romagna, assieme ai quali diede opera a vari provvedimenti necessari alla conservazione dello stato. Il suo "prestantissimo et dilectissimo architetto et ingegnere generale" Leonardo da Vinci aveva allora compita la visita delle fortezze romagnole, per la quale da Pavia gli aveva mandato una patente di salvocondotto. Nel codice di disegni altrove citato, Leonardo notò che ai 30 di luglio egli era in Urbino, ove disegnò una colombaja e una scala a varie entrate e la fortezza; al 1° d'agosto era a Pesare dove fece i disegni d'alcune macchine; agli 8 era in Rimini dove lo colpi l'armonia che produceva il cadere dell' acqua di quella fonte ; agli 11 era in Cesena, e vi disegnò una casa, e descrisse un carro e le viti pendenti alla maniera dei Cesenati, onde Darlo Tiberti nel carme al duca poteva vantar la sua terra ferax Gereris dulcisque Lyei. Ai 6 di settembre era al Porto Cesenatico e ne disegnò il porto. Va notando poi in altre pagine le distanze da Bertinoro ad Imola, Faenza e Forli. Il Vinci andò forse a trovare Cesare in Imola ed a riferirgli le proposte sue per quelle fortezze che egli aveva esaminato e per quei luoghi che aveva veduto ; e Cesare gli commise i monumenti, che dovevano magniflcare il suo dominio. Il diploma ed i disegni del sommo artista in Romagna hanno un riscontro in una notizia del Diario cesenate ; il quale ai primi di settembre racconta che il duca, essendo già in Imola, dié ordine al suo architetto di costruire in Cesena alcuni edifici, fra i quali il palazzo della Rota, il ginnasio, una fonte, oltre la restaurazione del Porto. Cosi — mentre aveva terminata una guerra e stava per imprenderne un'altra — Cesare voleva con opere grandi procacciarsi la gloria di "padre e principe della patria" come lo appellava Camillo di Leonardo fisico pesarese dedicandogli il famoso Speculum Lapidum. Nella lettera premessa al libro, del 13 settembre di questo anno, l'autore encomia nel duca il grande amore per le lettere, la cortese liberalità verso i dotti, la cura da lui usata nel raccogliere la bella e numerosa biblioteca di Cesena, e perfino la dolcezza e la mansuetudine sua.

       La stampa del libro é del 1° decembre 1502 del Sessa in Venezia in 4.° La dedicatoria é riprodotta al n. 66 nell'Append.

    E degni di un signore di grande stato erano i lavori che egli ordinava. Dapprima si credette che anche di Camerino egli sarebbe stato investito, quando a metà di agosto vi fu mandato governatore quel Giovanni Olivieri vescovo d'Isernia, che per due anni era stato in Romagna. Ma il papa per una- bolla del 2 settembre, ne investì il fanciullo amatissimo Giovanni di Nepi ed i suoi successori, con titolo di duca, avendo aggiunto alla signoria alcune terre, fra le quali Matelica tolta agli Ottoni. E andò a prenderne possesso il card. di Cosenza, che accompagnava il duca padre del suo pupillo.

       Il Giustinian nel disp. 7 settembre scrive che "con questa bolla fa questo fiol primogenito del Duca, con preiudicio di Coli che nasceranno legittimi dalla donna". Ma é un errore. Nella bolla non é indicata la paternità del fanciullo, ma solo si dichiara: "nobilis infans Jo. de Borgia dux Nepesinus in quinto suae aetatis anno constituto".

     Il trattato concluso fra il re ed il duca fu sconosciuto ai politici del tempo, onde si comprende la confusione dei giudizi che furono fatti, fino a che gli effetti non lo nascosero. Le trattative ebbero questo risultato, che Cesare per tre anni si obbligava a servire il re, quando ne avesse bisogno, nella guerra di Napoli, con un esercito di 10,000 soldati, fra cavalli e fanti; ma Luigi, non credendo tanto necessaria la profferta, lo ringraziò dicendo che egli solo poteva accendere il fuoco e ammorzarlo a sua voglia.

       "Allora soua M. replicò dicendo che de tale regno non avea pasione alcuna per potere lui impizare el fogo et amortare tuta sova voglia a". Hist, ms. Bernardi.

    Dal canto suo il re gli promise di aiutarlo a scacciare Giovanni Bentivogli da Bologna e ad opprimere ancora gli Orsini il Baglioni ed il Vitelli, che oramai contro di lui procedevano nemicamente. Il passo del trattato conosciuto é questo : de bailler au Valentinois trois cents lances pour l'aider a conquérire Bologne au nome de l'Église, et opprimer les Ursins Baillon et le Vitellozze.

       È cit, nell'Inventaire di Jeanne de Serres.

     Ma forse la sola impresa dichiarata era quella di Bologna, dovendo quella contro i suoi soldati farsi soltanto, qualora essi, obbligati all'osservanza dei capitoli di Villafontana, si fossero rifiutati a portare le armi contro il Bentivogli. E se ne incominciarono subito a vedere i primi effetti. Un commissario papale giungeva in Bologna con un breve del 2 settembre che citava davanti al pontefice Giovanni ed i figli Annibale Galeazzo ed Alessandro per consigliare con lui la quiete della città da tanti anni turbata da agitazioni e vessazioni, e ordinava che il Reggimento mandasse a lui due oratori con sufficiente autorità per prendere parte alle deliberazioni che avevano da farsi. Erano dati 15 giorni di tempo. In quel breve prima delle minaccie della sua indignazione, Alessandro VI rammentava l' amor suo per la città di Bologna, che egli aveva preso ad amare fin da quando da giovane vi era stato allo Studio.

       "Nosque qui dum in minoribus essemus juri pontificio in ilìo Gymnasio operano dedimus, eamdem Civitatem quasi matrem et alumnam dileximus". Il breve é pub. dal Gozzadini.

    Ricevuta la citazione, il Bentivogli si disponeva ad intrattenere il duca. Ma il 14 si presentò al Reggimento un ambasciator francese mons. Claudio di Seyssel, l'autore dello elogio di Luigi XII. il quale "espose come el re volea mantenere la protezione de' Bentivogli come avea promesso, ma che non se volea impazare de fati de la Chiesa, e acordarse col papa." Quel di più di mille cittadini si raccolsero con le armi in piazza, "perché paresse a l'ambassadore che 10 populo era tuto unito." È Fileno che narra.

       Nel lib. 3° dell'Italidis di Benedetto Campeggi:
    Crectidit, atque minis serranus vertere ab urbe
    Castro retro veluti versus jam Borgia Caesar
    Inde fuit: tanta at spe sic fruatratus....

     Ma il bolognese era preparato ad un nuovo assalto. Egli fin da quando il duca si era mosso da Roma, aveva ordinato bastioni fuori della città e fatto molti soldati ; ma la maggiore difesa gliela dovevano fare i cittadini, quelli delle Compagnie delle arti al governo suo affezionati, ai quali aveva dato le armi. E all' affetto ai Bentivogli andava unito l' odio alla soggezione chiesastica. Fileno dalle Tuate non era amico dei Bentivogli, le ingiustizie dei quali lo indignavano; ma in lui vinceva l'avversione che aveva per i "maledicti preti," i quali dal giorno che era Bologna sotto il dominio della Chiesa, avevano sempre cercato di distruggerla ; e narrando i primi armamenti, deve notare : "Ogn' uomo vole male a questo ducha Valentino." Degli altri cronisti Gaspare Nadi. bentivogliesco, massaro della Compagnia de' muratori, dice per la difesa: "E questo fu che el papa volea lo fiolo ducha Valentino venisse a stare a Bologna, e nui la volemo per nui." E Giacomo Zili é orgoglioso di "questa nostra santa libertate." Avvenne quindi che, allorquando il 17 settembre — dopo i quindici dì della intimazione — fu riletto il breve al Reggimento, non si poté prendere alcuna deliberazione, perché i bentivoglieschi armati tumultuosamente imposero che né Giovanni né i figliuoli si recassero a Roma, per timore (dicevano) che usciti essi, la città non avesse a pericolare. Cosi il Bentivogli credeva di essersi assicurato dei cittadini, sebbene ne' principali nobili avesse ancor da temere le parentele con gli uccisi Marescotti e i banditi Malvezzi. Ma Galeazzo Marescotti vecchio ottantenne, per l'antico amore alla famiglia del suo Annibale Bentivogli — dimenticata la morte de' figliuoli e de' nipoti, nel pericolo della patria, il dì 20 mandava a Giovanni la sua corazza, magnanimamente!
     Luigi XII. secondo F. Guicciardini, male si diportò contro il Bentivogli, poiché ai reclami di lui, "commentando le capitolazioni fatte più come jurisconsulto che come Re rispondeva che la protezione per la quale si era obligato a difenderlo non impediva l'impresa del Pontefice, se non per la persona e beni suoi particolari," con tutto che l'anno prima per altro fine avesse quell'impresa impedita, "allegando, che le cbligazioni che aveva col Pontefice non si intendevano se non per le preminentie e autorità, le quali nel tempo che si confederarono insieme vi possedeva la Chiesa." Ma il giudizio del sommo storico é per non essere giusto, ove si consideri la riserva contenuta nell'atto della protezione, in cui appunto si dichiara che la protezione aveva da intendersi fatta, salvi sempre i diritti e l' autorità della Chiesa sopra il dominio di Bologna. Né dagli atti appare, che il re l'anno prima avesse a dare alla clausola la interpretazione che il Guicciardini afferma, e che tanto meno al pontefice avesse impedita l'impresa contro il Bentivogli : basta per ciò rammentare la istruzione e le lettere regie del 18 dicembre 1500 e dei 24 e 30 gennaio 1501, altrove citate, per le quali Luigi fa sapere a m. Giovanni che egli, sebbene lo abbia in protezione, non potrebbe negare al papa le sue genti contro di lui. Vuo1si però notare, a schiarimento della cosa, che forse il Guicciardini fondò il suo giudizio sulla promessa fatta da Luigi all'oratore bolognese nell'ottobre 1500, quando pareva che aspettasse il trat tato di Granata per ordinare a' suoi confederati di desistere dal soccorrere il signor di Faenza.
     Ma Giovan Bentivogli, resistendo al pontefice, non confidava soltanto nelle proprie forze : egli aveva degli alleati, come lui timorosi di perdere lo stato, sebbene il papa non si fosse ancora scoperto contro di essi. Fino a questi giorni soltanto, il Baglioni ed il Vitelli era apparso che avessero avuto ragioni di dissidio col duca ; perché delle due ultime imprese nelle quali erano stati offesi, gli Orsini avevano partecipato all'assalto di Urbino, e quasi astenuti si erano dal fallito movimento di Arezzo, che tutto doveva essere a profitto di Vitellozzo. E gli onori fatti dal re al card. Orsini, quando fu a Milano, erano per mostrare che la indignazione regia era solo per quelli che avevano aiutato la ribellione degli Aretini; né il duca poteva anche loro comprendere nel trattato della distruzione, se con loro fino a quel momento non aveva avuto alcun pretesto di offesa. Si intende quindi, come per tutto settembre si udissero solamente voci contro Bologna, Perugia e Città di Castello.

       V. i dispacci Giustinian. In uno del 18 settembre l'oratore accenna che il duca fu in Roma; ma é un errore. Dal 19 al 20 sett. egli fu in Ferrara, come rilevasi dalla cronaca di Rignano, a visitarvi la sorella ed a parlare ad Ercole d'Este.

    Ma agli Orsini, sebbene essi continuassero ad avere i soldi della Chiesa, non mancavano buone cause, per non abbandonare i loro confederati alla rovina che li minacciava. L'onore della parte guelfa, per cui tante battaglie insieme avevano combattuto, univa gli Orsini al Vitelli ed al Baglioni, come l'onore di "veri e leali gentilhuomini" univa gli Orsini ed il Vitelli al Bentivoglio, al quale avevano promesso la osservanza dei capitoli conclusi a Villafontana: non conoscendo questo atto, i politici del tempo non seppero spiegare il rifiuto dei Capitani del duca, di assalire Bologna. Ma oltre questa. un'altra causa di ben maggiore momento li alienava dal papa e dal duca. Al card. Orsini quando fu a Milano, era stato fatto intendere dal re o dal card. di Rohan (come si disse) essere intenzione del papa di disfare la casa sua. È questo avvertimento un altro esempio di quella perfìda lealtà francese, che già il re aveva usato contro di loro, quando pochi mesi prima avverti i Fiorentini essergli stato chiesto il consenso di rimettere i Medici.
     Essi pertanto all'annunzio dell'impresa contro Bologna, si riunirono a Todi, dove avevano le loro milizie, a consiglio : e quali deliberazioni prendessero apparve subito dalle parole che gli oratori bolognesi il 28 settembre dissero al Giustinian, che cioé dagli Orsini avevano ottima speranza di essere aiutati. Così i capitani del duca per il pericolo comune e per la fede data (si vedrà poi come mantenuta) dichiaravano di non volere andar contro al loro confederato, malgrado che sapessero di disobbedire al re. Poi agli ultimi di settembre si radunarono di nuovo alla Magione, nel pian di Carpine, luogo del card. Orsini, a poche miglia da Perugia: e vi sottoscrissero una lega difensiva ed offensiva centro il duca. Al convegno fu anche Ermete Bentivoglio , ed ai 29 partì p ure da Bologna Annibale, che andò a Siena a trattare con Pandolfo Petrucci, dal quale e dal segretario suo Antonio Giordani da Venafro fu trattata tutta la briga. Si racconta che alla Magione il Bentivoglio disse: "Io ammazzerò il duca Valentino se n' avrò l' occasione", e che Vitellozzo giurò anch' egli che in men d' un anno o l' ucciderebbe o lo farebbe prigione, o lo caccerebbe d' Italia.

       V. la Vita di Alessandro VI di A. Tanei, ms. cit. dal Fabretti nelle Biografie dei capitani di ventura dell' Umbria.

    I collegati non si scoprirono subito; ma il 2 di ottobre i Roma la alienazione degli Orsini era conosciuta. Il papa parlandone all'oratore veneziano, disse che anche senza loro si sarebbe fatta l'impresa dì Bologna, e scusandosi del detto del re, assicurò che aveva fatto scrivere lagnanze in Francia, perché egli era sempre per favorirli. Anzi disse elle il duca era più Orsino, che Borgesco.

       "Nui mai se avemo pensato, da poi l'ultimo accordo fatto con loro, se non onorarli, e farli bene; e questo medemo ha fatto el duca, il qual é più Orsino che Borghesco". Disp. di A. Giustinian, 2 ottobre 1502.

     Nel fare la separazione i collegati credevano di avere tanti armati da potere non solo difendersi dal duca ma anche da offenderlo. Come allora si disse, nei capitoli della dieta fu convenuto che avrebbero messo in armi 9,000 fanti, 700 uomini d'arme e 400 balestrieri, e assalito il duca da ogni parte, muovendo il Bentivogli verso Imola e gli altri verso Urbino e Pesaro. E speravano che la vittoria sarebbe stata facile, perché — mancando ancora le 300 lance francesi — non restavano a Cesare che 2.500 fanti e 200 o 300 uomini d'arme oltre le 100 lance de' suoi gentiluomini, con i quali non avrebbe potuto certamente sostenere l' assalto. E per non lasciargli tempo di armarsi, deliberarono di subito assalirlo. Ma perché non tutti erano d' accordo, gli Orsini aspettarono a scoprirsi di avere un pretesto che in qualche modo giustificasse il loro andare contro il duca con soldati pagati da lui, e il Bentivogli che primo doveva muoversi, badò a far pratiche di accomodamento per mezzo di Ercole d'Este. Cosi l'un l'altro ingannava.
     Dai collegati furono ancora richiesti di favore i Fiorentini ed i Vene/iani che riputavano avversi al duca, perché gli uni aveva offeso nel dominio di Piombino e di Pisa, e perché agli altri aveva strappato di mano la Romagna. I Fiorentini finalmente avevano riordinato lo stato per restituirgli la riputazione, come per due volte era stato domandato anche dal duca, per sicurtà de' patti convenuti. Ed ai 20 di settembre avevano eletto gonfaloniere a vita Pier Soderini. Questi che salvò la republica da infiniti pericoli, ne meritò la ingratitudine, poiché l'ebbe ridotta unita dentro e rispettata fuori ; così che alla morte poté dirsi che ne andasse "l'anima sciocca nel limbo de'bambini." Tale é la fortuna della storia, che un solo epigramma, non perché di N. Machiavelli, bastò a render vituperata la memoria del grande cittadino. I collegati ricercarono la Signoria di mandare un suo agente alla dieta e di conferire con loro, e il Petrucci le offerse perfino di farle riaver Pisa; ma i Fiorentini non potevano fidarsi di que' nemici acerrimi della repubblica, per compiacere ai quali dovevano far contro un confederato del re. Pier Soderini, più prudente di Leonardo Loredano, non credeva ancora giunto il tempo di nuocere a Cesare. E dava commissione di testificare al duca, come in qualunque movimento i Fiorentini erano per avere tutti i rispetti alle cose di sua eccellenza, che si convenivano alla buona amicizia col re di Francia, alla devozione verso la Chiesa ed alla affezione sempre portata a lui. Anche i Veneziani facevano "amorevoli dimostrazioni" al papa e al duca, al quale concedevano una tratta di 15000 staia di frumento a profitto degli stati suoi di Romagna; ma intanto scrivevano lettere al re per avvertirlo di quanto carico gli erano i favori dati a Cesare, onde venivano infiniti mali "con disonore della corona sua." Ed ai collegati promettevano di lasciare che Bartolomeo d'Alviano loro soldato riconducesse Guidobaldo in Urbino.
     Intese il duca la dieta della Magione in Imola, dove aspettava l'arrivo delle lance francesi, per indurre il Bentivogli ad uscire da Bologna. Prendendo tempo dalla deliberazione che avevano da dare i quattro cardinali, ai quali dal papa era stata commessa la sorte sua, il Bentivogli continuava a fare pratiche di accordo per mezzo di Ercole d'Este, e finiva di fortificare la città per premunirsi da un improvviso assalto. Un esploratore bolognese, spintosi fin sotto le mura di Imola, il 1° ottobre si imbatté nel duca istesso, che con alcuni de' suoi era uscito a cacciare, alla campagna: fu preso ed impiccato. Egli non dubitò per un momento che gli Orsini ed il Vitelli non fossero per separarsi da lui, e di aiutare anche il Bentivogli a difendersi. Onde subito sollecitò l' invio delle lance, perché non scoprendosi i collegati prima che fossero giunte, i Veneziani si astenessero dal favorire i ribelli per non aver da offendere l'autorità del re. E attese subito a far nuovi soldati.
     Senza la sua grande riputazione di signore splendido e liberale, Cesare in pochi dì non avrebbe potuto vedere accorrere a sé tanti soldati, nel momento in cui stavano per separarsi da lui gli Orsini, che pareva avessero ridotto nella lor casa la fortuna e l' onore della milizia d' Italia. Ne andarono a lui da ogni parte. Prese a provvigione Gaspare Sanseverino il Fracassa, che si era trovato alle principali fazioni, capitano di grande nome, e gli diede da comandare gli uomini d' arme. Condusse il conte Lodovico della Mirandola con 60 uomini d' arme e 60 cavalli leggieri ; e a Galeazzo Pallavicini commise di farne altri in Lombardia, dove pure mandò Raffaele de' Pazzi per un migliajo di fanti guasconi. E altri in Isvizzera. Si disse che egli aveva condotto anche Lucio Malvezzi, ma forse per non impedire le pratiche con Bologna lo rimandò. Raccolse inoltre 100 balestrieri a cavallo sotto Ranieri della Sassetta e 50 schioppettieri sotto Francesco de Luna. Ma il maggior numero de' soldati trasse dalla Romagna, dove maggiore era la confidenza nella sua fortuna. De'fanti tratti da paesi suoi, alcune compagnie pose sotto capitani spagnuoli della sua corte, altre sotto Dionigi di Naldo e Marcantonio da Fano che ne formarono due di 500 fanti l' una, e Gabrielló da Faenza ed altri capitani romagnoli. E degli uomini d' arme bandi che a tutti quelli degli stati suoi che andassero a lui, egli avrebbe dato recapito; onde ne ebbe 100 e più, e gliene fecero altri Guido Vaini e Giovanni Sassatelli di 40 uomini l' una, probabilmente d' Imola. A que' fanti pagati, erano da aggiungere i comandati delle città, in tutto 6,000 e più, dei quali ai 4 di ottobre Cesare fece la mostra,, e che in due di poteva avere insieme.

    V.

     Mentre le cose restavano così sospese, ai primi di ottobre Giulio Orsini era in Roma a fare con Alessandro qualche pratica di accordo, e Pandolfo Petrucci mandava al duca un suo cancelliere a fargli fede, che "non era per dare alcun favore a chi disfavorisse sua eccellenza ;" onde egli il 6 di ottobre mandava un cavaliere Orsino suo gentiluomo ad intendere dai parenti quali intenzioni avevano. Ma quando l' ll pareva che Giulio avesse fatto accordo col pontefice, e Paolo Orsini si offriva ad andare egli stesso in Imola, ad un tratto un movimento avvenuto nel ducato di Urbino rompeva tutte le pratiche.
     Ai primi del' mese costruivasi una muraglia nella rocca di S. Leo, quando alcuni fedeli del Montefeltro, intesi con chi era deputato al lavoro, sforzata una porta con un trave, entrarono nella fortezza e uccisero i soldati che vi erano per il duca; fece il colpo un Giambattista Brizio stato scudiero del fu Federico. Dopo S. Leo si ribellarono due altri piccoli castelli.

       Della ribellione molte notizie si leggono nella Historia ms. di A. Bernardi, e altre nei Commentaria cit. dall'Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, Firenze 1859.
     Dai dispacci del Machiavelli si rileva che la notizia del moto fu udita in Imola il 7 ottobre, e da quelli del Giustinian che fu udita in Roma l'11.

    Si disse che dai ribelli si era gridato Marco, Vitelli e Orsini ; ma tutti non volendo ancora scoprirsi, se ne scusarono. Ed i Veneziani, con i quali il nunzio Leonini aveva fatto lagnanze, dichiararono che essi non erano per deviarsi dalla protezione in che avevano il duca loro figliuolo; e ripeterono tale dichiarazione a Guidobaldo, che essendo in quei di in Venezia fecero chiamare al Senato, presente il vescovo di Tivoli. Ma il movimento che dapprima pareva dovesse restare isolato, non tardò ad estendersi. I villani del Montefeltro, ai quali il ricordo dell'antico signore era di eccitamento a fedeltà, il di 8 ottobre entrarono tumultuando in Urbino e assalito il palazzo fecero prigione il dottor Giovanni dalle Selle luogotenente della città, e la domenica seguente occuparono anche la rocca.

       "Preseno la piaza et el so locotenente chiamato m. Zohane zià d'Andrea da ie Selle nostro forlivese et mese soue rotie a sacomanno e lui fu messo nel palatio de Priori". Historia ili A. Bernardi.

    Nel tumulto, il castellano aveva ordinato che fossero ritirate nelle fortezze alcune artiglierie che erano fuori ; ma i villani le tolsero ai soldati e le piantarono contro il muro della rocca, il quale mancando di terrapieno, in un dì fu rotto. Negli assalti morirono sei dei difensori, e tre dopo la resa furono impiccati.
     L'oratore che i Fiorentini mandavano ad Imola era N. Machiavelli. Per la prima volta il grande segretario aveva da trattare in persona con quel duca; de' cui fatti egli si era tanto occupato nelle diverse ambascierie sue in Italia ed in Francia, e doveva poi lasciar tante memorie nel libro del Principe o in quello su la Deca di Livio. Egli entrava nella segreteria di Stato, quando già le calate di Carlo VIII e di Luigi XII avevano reso passibile il detto stranamente vero, che "tutti gli Italiani erano Francesi ;" ma pure anche sotto la protezione di Francia, credeva che i minori stati d'Italia avrebbero potuto trovare salute. Nel luglio del 1499 era stato in Forlì a trattare con Caterina Sforza una lega, che i Fiorentini proponevano per salvare la Toscana e la Romagna dalla preponderanza dei Veneziani e del re istesso che doveva esserne il protettore. E aveva biasimato Luigi per aver impedito la lega, ed al suo primo ministro aveva detto i Francesi non intendersi di cose di stato, perché con gli aiuti dati a Cesare ingrandivano la Chiesa che fino allora era stata la più disgraziata potenza d'Italia; così che di Innocenzo VIII Lorenzo de' Medici aveva fatto il suo cappellano. Ma quando vide Cesare divenire grande signore in Romagna, e minacciare Firenze, si persuase che il re lo avrebbe sempre favorito finché vincitore, e lo desiderò piuttosto amico che nemico, almeno durante la vita del pontefice. Né allora, che nel punto di assalir Bologna gli mancavano gli Orsini, non dubitava della fortuna di lui, ma temeva piuttosto che egli non si riconciliasse con loro, e non tornasse ad aspirare al dominio di Toscana.
     Quando già si conoscevano le prime notizie della ribellione del Montefeltro, il Machiavelli giungeva in Imola la sera del 7 ad ore 18 circa, e subito ancor "cavalchereccio" si presentava al duca. Udita la commissione che i Fiorentini non erano per mancare all'obbligo di buoni amici e che anzi confidavano e speravano assai in lui, Cesare rispose ringraziando di avere sempre desiderato la loro amicizia che disse "non aver conseguita più per malignità d' altri che per cagione sua." E al segretario patitamente narrò come avvenisse l'assalto del 1501, e come egli impedisse che in esso e nel moto aretino i suoi capitani offendessero la città; onde per questi rispetti gli Orsini si erano alienati da lui. Con questi discorsi fece intendere di non sperare nell'accordo al quale i collegati si mostravano disposti, aggiungendo che "non si curava che li alterassero il ducato di Urbino, per non avere smenticato la via a riacquistarlo quando lo perdesse," e aggiunse che "li giudicava più pazzi che non sapeva, per non aver saputo scegliere il tempo a nuocerli." Mostrò di aver desiderio che i Fiorentini si dichiarassero o amici suoi o degli altri, ma nonostante che il Machiavelli "gli entrasse sotto per trarre da lui qualche particolare, sempre girò largo." Né meglio si spiegò i giorni seguenti, per non parere che egli fosse per abbandonarsi e per mancare di amici ; ma disse che se i Fiorentini non volevano accomodarsi subito con lui, egli voleva porli da parte, aggiungendo : "E se io avessi l' acqua alla gola non ragionerei mai più di amicizia, non ostante che mi dorrà sempre avere un vicino, e non gli poter far bene, e non ne ricever da lui." Ma la Signoria che non voleva rinnovare la capitolazione di Campi, gli fece rispondere che al presente non poteva dichiarare l' amicizia, perché fra le altre ragioni avea condotto il marchese di Mantova, ma che tuttavia ne rimetteva al consiglio del re. Onde il duca mostrò di non dolersene, ma lodò il marchese, del quale disse aver lettere di offerta di andare a lui "ad ogni sua impresa," e promise che quando Orsini e Vitelli fossero per scorrere nel dominio della repubblica egli "non era per mancare d'ufizio di buono amico."

       V. i disp. di N. Machiavelli, 7-12 ott. 1502 da Imola.

     Subito che intese la ribellione di S. Leo, il duca fece tutto il dominio di Urbino perduto, e intento a conservare la Romagna, ordinò a Bartolomeo da Capranica che aveva le stanze in quelle parti di ritirarsi verso Rimini con le compagnie degli uomini d' arme. Erano quelle di don Ugo di Moncada e di Giovanni di Cardona. E spacciò don Michele a Pesaro a rassettare i fanti che ivi aveva, e assieme a lui il governatore generale. Ma quei capitani non ubbidirono i comandi del duca, e si prestarono a dare soccorso ai castellani che ne li richiedevano : dopo il 9 d' ottobre, da Urbino gli arditi villani del Montefeltro scorrevano tutto il ducato, e facevano ribellare tutte le città che fino allora erano restate sospese. Ma forse don Michele si fece avanti, perché gli uomini d' arme non fossero molestati. Essendosi, mentre essi si ritiravano, Pergola e Fossombrone ribellate, l'una dopo l'altra il di 10 patirono un orribile sacco. In Fossombrone furono alcuni cittadini ducheschi. che aprirono ai Soldati una porta della città : nel Diario urbinate dice che "fecero gran crudeltà, per modo che molte donne si buttarono in fiume. per non andar loro nelle mani, con l' erede in collo." È triste a notarsi, del sacco fu fatta festa nelle città di Romagna e nella corte del duca, perché si considerava come un indizio che i casi avvenuti cominciavano a pigliar via favorevole al signore, e anche perché da Venezia e da Perugia, altre buone notizie erano giunte. Cesare parlandone a N. Machiavelli la sera del 12 diceva "cosi allegramente, che quest' anno correva tristo pianeta per chi si ribellava."
     Intanto i collegati non si erano ancora scoperti, e continuavano le pratiche dell'accordo, "dicendo essere soldati della Chiesa e non si voler deviare dalla voglia del pontefice :" anzi in Roma Giulio Orsini aveva concluso col pontefice che i suoi sarebbero ritornati al servizio di sua eccellenza ; e Paolo Orsini al cavaliere che il duca gli aveva mandato si era offerto di recarsi egli stesso ad Imola, e fare ogni accordo con lui "quando egli volesse lasciare l'impresa di Bologna, e entrare o nello stato de' Fiorentini o in quello dei Veneziani."

       Disp. Giustinian 11 ottobre, e Machiavelli 13 ottobre 1502.

    Anche Vitellozzo mandava a dire che voleva mostrare di essergli servitore, ma che prima voleva avere "qualche sicurtà onesta." Per tali pratiche le cose parevano accomodate. E gli Orsini si mostrarono disposti a fare quanto il cavaliere aveva loro detto da parte del duca, cioé che se gli volevano essere amici si ritirassero con le genti verso lo stato di Urbino per tenerlo fermo. Cosi il di 11 le lance del Vitelli erano a Castel Durante, e il 12 giungevano in Cagli i fanti del Baglioni: onde il duca, poiché gli Orsini a Cagli avevano fatto levare la battaglia alla rocca — sebbene dicessero a que' ribelli che non erano per offenderli ma né anche per difenderli — dall'altra parte fé venire avanti i suoi e ordinò ai suoi capitani di presentarsi ad Urbino il dì 15, per aiutare i cittadini suoi parziali a scacciare i feltreschi che li opprimevano. Alcuni di loro nei primi giorni della ribellione furono sostenuti nel palazzo dei Priori, e un figlio di Bonifazio della Valle, che di notte aveva scalato le mura, fu per essere impiccato. Ma ad un tratto i collegati sì scoprirono. Un messo di Guidobaldo giunse il 12 in Urbino, ad annunziare per lettera, che il signore graziava i sudditi della fedeltà conservatagli, e prometteva loro di essere fra pochi dì a difenderli : questa lettera era forse aspettata dagli Orsini che, prima di scoprirsi nemici del duca volevano essere sicuri del favore dei Veneziani, con gli aiuti dei quali il feltrese era per ritornare. La mattina del 15 pertanto i capitani si accostarono alle porte di Urbino, ma avendo badato per la via a saccheggiare due castelletti, passati avanti, furono assaltati da gran numero di villani; onde ritiratisi a Calmazzo, a tre miglia da Fossombrone, furono investiti dagli Orsini. Le compagnie ducali erano di 100 uomini d' arme e 200 cavalli leggieri, e don Ugo di Moncada che ne comandava una, fu prigioniero con assai altri "uomini da bene." Don Michele potè ritirarsi a Fossombrone. I vincitori entrarono la sera stessa in Urbino, donde Paolo Orsini spacciava una lettera alla Signoria veneta per significarle la riportata vittoria. E Guido che già si era messo in mare, sbarcava a Sinigallia presso la sorella sua Giovanna, che per le balze del Montefeltro lo faceva condurre a Urbino ; e tre giorni dopo, il 18, vi entrava a cavallo, seguito da solo dieci de' suoi: l'autore del Diario urbinate che fu presente all'entrata, ed ebbe "carezze" dal feltrese, narra che "il vescovo (Gian Pietro Arrivabene mantovano), apparato col manto e con la mitra, lo condusse al vescovado con molte cerimonie." Seguivano Guidobaldo i nipoti suoi Ottaviano Fregoso e Gian Maria Varano. I fratelli di lui Annibale e Venanzio erano prigioni nella rocca della Cattolica, ed il padre Giulio Cesare era morto poco prima in quella di Pergola. Perché in quei giorni don Michele dié il sacco a questa città, si disse che egli, "trovato il vecchio nella rocca, l'aveva fatto strangolare ; ma della morte non fa alcun sospetto il Diario Liliano.

       "Die dominica 9 octobris bora prima noctis extremum clausit diem illustrissimus D. noster Julius Caesar de Varano".

     E dopo gli Orsini, anche il Bentivogli era per rompere la guerra. Dai canonisti dello Studio, il di 16, egli fece tenere discorsi al popolo radunato nelle chiese, affinché non avesse da temere le scomuniche pontificie ; il più violento di tutti fu Floriano Dolfi bolognese, che in gioventù aveva avuto particolare amicizia con Alessandro VI ; perché non solo provò come non temesse l' interdetto, ma disse anche molte parole contro il papa, "e che se avea levato el manto de S. Pietro e messo quello de l'asino." Ed alle richieste del re (le lettere del quale forse aveva portato il valletto che il 14 era stato a trovare il duca in Imola) fece a nome dei Sedici una lunga risposta; in cui, dichiarate le ragioni del Reggimento e della casa de' Bentivogli, si rammentavano i capitoli fatti da essi e dal duca l'anno prima, frai quali questo che Cesare loro promise che per lo avvenire mai più sarebbero stati molestati, e si citava il breve papale del 10 gennaio di quest'anno, per cui quei capitoli erano stati approvati.

       Una copia della risposta dei Sedici alle richieste di Luigi XII in data dei 17 ottobre 1502 conservasi nell'Archivio di Bologna.

    Dopo ciò, la sera del 22 mandava i figliuoli Annibale ed Ermete a Castel S. Pietro con 500 cavalli e 2,000 fanti, alcune bande dei quali si spingevano fino a Doccia predando il paese. Ma li faceva tosto fermare, per riprendere le trattative dell' accordo, a concludere il quale ai mandati del duca faceva intendere di essere anche pronto "a lasciare gli Orsini a discrezione."
     Fileno, narrando questo assalto dei suoi Bolognesi, nota che "se fossero andati avanti voltavano tutta la Romagna;" ma il Machiavelli che in Imola aveva osservato i provvedimenti del duca, era per credere che i nemici non fossero più a tempo a fargli molto male. Egli temendo che i collegati dopo la rotta di Calmazzo fossero discesi in Romagna.— saputa fino dal 14 la partenza di Guidobaldo da Venezia — aveva fatto ritirare don Michele in Pesaro e messo G. B. Mancino in Rimini, le due città che più aveva a temere di perdere, quando i Veneziani fossero per dare aiuti a Giovanni Sforza ed a Pandolfo Malatesta: Fano "come terra più fedele" avevano da difendere i cittadini. Ed egli era rimasto ad Imola a resistere agli assalti del Bentivogli, con gli altri - soldati che ogni dì continuamente gli giungevano. Così egli ordinato, poteva stare sicuro ad aspettare le lance francesi, e dire al gran segretario fiorentino : "per avventura i nimici miei si potrebbono pentire de' tradimenti che hanno fatto." Né meno gli giovò la tardità dei nemici a stringerlo. La vittoria del 15 ottobre apriva loro la via di discendere subito in Romagna, ma essi perdettero in parole una settimana in Urbino, e finirono per dividersi. Al ritorno di Guidobaldo, Vitellozzo gli dié i suoi fanti e le sue artiglierie perché potesse dar battaglia alle rocche di Fossombrone, della Pergola e di Cagli che ancor si tenevano per i ducali: Oliverotto da Fermo andò con Gian Maria Varano al riacquisto di Camerino : solo Gian Paolo Baglioni discese nel contado di Fano, ma cercò di entrarvi non come nemico, bensì come soldato del duca, del quale andava spendendo il nome. I collegati, nel momento appunto in cui avevasi il duca ad assalire, erano in disaccordo fra loro, perché mentre il Vitelli e il Baglioni volevano precipitare le cose, Paolo Orsino e Pandolfo Petrucci cercavano di rattenerli. L'accorto sanese, se per l'obbligo della parte sua era stato costretto ad entrare nella lega, ben conosceva la "pazzia" che commettevano i suoi, quando volevano contrastare alla buona fortuna di Cesare, della quale erano cagioni la vita del pontefice e la grazia del re. Onde alloraché le cose precipitavano, il dì 20 per lui fu a parlare al duca il suo primo segretario Antonio Giordani da Venafro, che nel tempo ebbe nome del migliore ministro di stato ; e gli fece proporre che quando egli li avesse solo riassicurati, tutti i collegati sarebbero tornati ai soldi suoi e lo avrebbero aiutato a ricuperare il perduto. A questa deliberazione forse li indussero le lettere di minaccia del re, che il papa solennemente pubblicava in concistoro, e quelle mandate ai Veneziani, nelle quali era detto che essi verrebbero trattati come nemici, se alle imprese del papa si contrapponessero.

       Sono così riassunte nel disp. Machiavelli del 23 ott. 1502: "In effetto giustificava tutte le calunnie, e appresso concludeva, che voleva ridurre tutte le terre della Chiesa ad obbedienza di quella: e che se alle imprese del papa loro si contrapponessino, li tratterrebbe come inimici".

     Paolo Orsini pertanto, chiesto un salvocondotto, improvvisamente il di 25 si vide giungere a Imola travestito da corriere. Tre di durarono le pratiche dell' accordo, e subito fu combinato. Si convenne che, rimesse le offese, il duca prometteva di difendere tutti gli stati dei confederati da qualunque potentato, riservati sempre il pontefice ed il re; e così gli altri promettevano di essere sempre alla difesa delle persone e degli stati di tutta la casa Borgia, e quindi di ricuperare i ducati di Urbino e di Camerino ribellati. Riconfermava il duca le condotte consuete loro, senza che fossero obbligati a servire tutti nel campo, se non uno di essi : ma ciascuno, ogni volta che fosse richiesto, doveva per sicurtà consegnare al duca un dei proprì figliuoli. Infine delle cose di Bologna era fatto un libero compromesso nel card. Orsini, in sua eccellenza e in Pandolfo Petrucci, al giudizio dei quali si doveva stare senza appello. Con questi capitoli la mattina del 29 il signor Paolo partì per Urbino accompagnato dal cav. Orsino che aveva da riportarli ratificati dagli altri confederati ; Paolo era procuratore del duca stesso. Era già in via, quando gli cavalcò dietro m. Agapito per un capitolo che vi mancava, riguardante lo stato e l'onore di Francia, senza del quale Cesare non voleva tenere per buona la convenzione : ma questa clausola che riservava il re dalla difesa. Paolo la ricusò, tuttavia la recò seco, sebbene dicesse di non credere che nemmeno gli altri fossero per accettarla.

       I capitoli del 28 ottobre 1502 sono al n. 71 dei Docum. ed al n. 72 il bando della loro notificazione in Romagna.
     In questi diplomi é aggiunto il titolo di Princeps Venafri.

    Lettere ducali, in data del penultimo di ottobre, annunziarono alle città di Romagna essere gli Orsini e il Vitelli ritornati all'obbedienza del pontefice ed ai soldi del duca, e ritirate le genti loro, essere per imprendere il riacquisto degli stati ribellati.
     Dubitando che qualche cosa si fosse concluso contro i Fiorentini, il Machiavelli cercò subito di intendere i particolari dell'accordo; e come li ebbe intesi non capi come il duca avesse da perdonare l'offesa ed i collegati lasciare la paura, e cedere l'uno all'altro nell'impresa di Bologna e nella ribellione di Urbino. Ragionò per questo che l'accordo si fosse fatto perché, con l'interesse di ciascuna delle parti, si voltasse contro i Fiorentini od i Veneziani; ma dal duca istesso — sempre benevolo verso i Fiorentini — fu assicurato che essi non sarebbero stati molestati, e troppo difficile trovò una guerra per cacciare i Veneziani da Ravenna. Dubitò anche che il duca, facendo quelle pratiche, volesse prender tempo per ordinarsi ad opprimerli uniti o separati. Ma quando la mattina del 29 udì i primi segretari sparlare degli Orsini e chiamarli traditori e vide m. Agapito ridere dell'accordo, con dire che era un "tienli a bada" — non potendo spiegarsi come i confederati non aves sero anche essi conosciuta la cosa — finì per confondersi. E quando due giorni dopo, m. Agapito gli ripeté che "di tali capitoli infino agli putti se ne debbono ridere" notò che forse egli parlava così perché di fazione colonnese. Ma il Machiavelli si inquietava di più, vedendo che — mentre il duca (cui erano giunte le lance francesi il dì istesso della conclusione dell' accordo) sollecitava gli armamenti e non dava licenza ai fuorusciti di Perugia Siena e Castello, frai quali Alessandro da Marciano fratel di Rinuccio, e Silvio Savelli quel della lettera — i collegati continuavano ad offenderlo. I vitelleschi aiutavano Guidobaldo a prendere le rocche, e lasciavano che Bartolomeo da Capranica, che per patto era uscito da Fossombrone, fosse per via assaltato e morto dai villani che erano usciti a "far carne." E sotto la corda moriva in Urbino m. Artese cancellier ducale, preso dai ribelli. Oliverotto da Fermo entrato in Camerino tagliava a pezzi tutti gli spagnuoli che vi erano. Ed il Baglioni stringeva Micheletto in Pesaro, occupando il castello di Monte Luro; ed i feltresi, dopo avere ripreso il Tavoleto, discendevano a predare tutto il contado di Rimini.
     Ma la mossa era troppo tarda per far rivoltare la Romagna, anche se i collegati vi avevano da sperare un qualche aiuto di ribelli. Per loro si erano dichiarati alcuni de' baroni, che già erano stati ai soldi del duca come Luigi e Ugolino conti di Castelvecchio e di Pian di Meleto, Ramberto Malatesta da Sogliano e qualcuno de' Tiberti ; ma le città e le più piccole terre del dominio erano per rimaner fedeli. I villani del Montefeltro rompevano a sei miglia da Rimini Gian Battista Mancino che vi comandava 400 fanti, ma furono combattuti a Coriano ed a Montegridolfo dagli stessi contadini romagnoli; e contro quelli di S. Marino che calavano a prendere Longiano, uscivano quelli di Verucchio, per antiche contese loro avversi. E gli uomini di Serravalle soggetti alla piccola repubblica alzavano i vessilli borgiani, e difendendo il loro territorio difendevano lo stato del duca loro signore.
     Né in Rimini, né in Pesaro avvennero movimenti. Per sospetto dei Veneziani, che avevano mandato a Ravenna il conte di Pitigliano con una compagnia di lance, il duca fece pubblicare ordini severi contro i fautori del Malatesta e dello Sforza. In Rimini dal card. Borgia si scoperse un trattato che si diceva avervi tenuto i Veneziani per mezzo di un dei loro che abitava in quella città ; ma il duca, come disse, "per onor loro lo aveva fatto impiccare." Forse quel tristo fu un cavallaro arrestato mentre passava per Rimini, del quale poi ebbero a dolersi per il supplizio inflittogli, perché ne furono appiccati i quarti fuor della porta che conduce a Ravenna, in manifesto spregio della Signoria.

       Forse é lo stesso il fatto accenn. nel disp. 6 dicembre 1502 del Machiavelli e nella risposta del Senato alì' imperatore dell' 11 luglio 1504.

    E forse per lo stesso sospetto, in Rimini era tenuto prigione un certo Saraton, per il quale il doge in gennaio ebbe a fai1 querele al nunzio. Anche in Pesano don Michele dubitò di qualche trattato ; ma ai 31 di ottobre, presi cinque che giudicava vi avessero avuto mano, li faceva impiccare alle finestre del palazzo. In questi giorni capitava pure alla marina pesarese Pirro Varano, il quarto figliuolo di Giulio, che imbarcatosi probabilmente a Venezia tentava di prender terra per andare a raggiungere in Camerino il fratel suo. Ma lo sventurato giovane era preso, e veniva strangolato davanti alla chiesa di san Francesco. Nel diario urbinate si aggiunge, che portato il giovinetto nella chiesa, ancor vivo, alcuni pietosi lo avrebbero salvato, se un frate spagnuolo, palesando la cosa, non avesse richiamato i carnefici a finirlo : poco dopo il frate, passando per Cagli, era fatto a pezzi dai feltreschi.
     I buoni ordini dati e la presenza del duca facevano cosi sicura la Romagna, che appunto in questi dì che i collegati minacciavano di assalirla, m. Antonio dal Monte prendeva possesso del suo ufficio di presidente della Rota: ai 24 di ottobre in Cesena ne erano dichiarati gli uditori, frai quali pure quello di Urbino che ancora aveva da ricuperarsi. Avrebbe il duca desiderato di lasciare al governo di Romagna il card. di Salerno Giovanni Vera, già suo precettore, in vece di don Remiro di Lorqua, che alcuni atti del lungo governatorato avevano fatto odioso ai popoli ; ma non volendo il cardinale partirsi da Roma, il duca preferì di lasciarvi m. Antonio, e a lui conferì tutte le giurisdizioni prima avute da don Remiro.

       "Fatto che fu questo soua Ex.tia tose hogne iuriditione che avese m. Remiro da Lorcha spagnole so governatore generale". Hist. di A. Bernardi.

    Ai primi di novembre i cronisti notano le visite fatte alle città dal nuovo presidente, ché questo era il titolo suo: praesidens generalis. Tornato a Forli il 24 di novembre, invitò a cena i principali cittadini frai quali ser Andrea Bernardi che non mancò d'andarvi con la sua opera: vi ritrovò il poeta Pier Francesco Justolo segretario di monsignore, m. Nicolo Buonafede da S. Giusto luogotenente di Forlì, il tesoriere ducale Berto da Oriolo ed altri.
     Intanto Paolo Orsini con i capitoli della pace si recava ad Urbino a farli segnare da Vitellozzo : il quale ai primi di novembre con gran pompa vi era entrato a cavallo assieme a Guidobaldo, al grido di Feltro e Vitelli! Ma i collegati, — che mentre egli era in Imola avevano compiuto di ribellare gli stati di Urbino e di Camerino — non erano per accettare quei patti, giacché pareva loro disonorevole abbandonare il feltrese che soltanto per essi era ritornato, e lasciare il Bentivogli nella incertezza di un compromesso. E più di tutto era renitente il Vitelli, al quale rincresceva quella pace, perché arditissimo credeva che, se era per il momento difficile assalire la Romagna, si potesse almeno salvare il ducato di Urbino pieno tutto di suoi. Giovanni e Jacopo del Rossetto, suoi capitani, dicevano apertamente che per tutto l'inverno potevano salvarlo "quando tutto il mondo fosse loro contro." E quella pace rincresceva di più al Vitelli, perché l' obbligava a servire di nuovo il duca, senza averne da lui altra sicurtà che la fede, mentre egli — essendo Cesare divenuto amico dei Fiorentini — perdeva la speranza di vendicare il fratello e di prendere Borgo S. Sepolcro. Dell'Orsino autor della pace, il diariista urbinate scriveva: "Questo Paolo Orsino si era acquistato una tale malevolenza di ogni uomo, che ciascuno avria mangiato le sue carni, massime i Castellani, e quelli del ducato di Urbino, chiamandolo madonna Paola." E accrescevano le difficoltà i reclami di Giovan Bentivogli. Egli, non potendo stare contento a quel compromesso, ai 2 del mese aveva mandato ad Imola il figlio Anton Galeazze protonotario, a restringere le pratiche di un particolare accordo, che Ercole d'Este sollecitava; onde il duca, accondiscendendo, inviava m. Cipriano de' Numai suo segretario a notificare all'Orsini che il bolognese desiderava di comporsi, senza il compromesso. Ma i capitoli oramai non si potevano rompere, e Paolo andò a portarli in Siena a Pandolfo Petrucci. Una lettera del segretario ducale da Siena in data del 13, così si esprime: "E in effetto, esposto che io ebbi a lui (Paolo Orsini) e a Pandolfo Petrucci la commissione di vostra illustrissima signoria, dopo qualche disputa si é concluso ogni cosa in buona forma, e appunto secondo il desiderio e ordine della signoria vostra, e ha ratificato detto signor Paulo e Pandolfo in buona forma ; e mess. Antonio da Venafro ha ratificato per il cardinale Orsino, che ne aveva pieno mandato : e non ci essendo chi avesse il mandato di Vitellozzo, né di Gianpaulo. né di mess. Liverotto, Pandolfo e il signor Paufo hanno promesso per loro, che ratificheranno."

       È rifer. in un disp. del Machiavelli, 16 novem. 1502.

    Così m. Francesco Trocces non poteva dare ai capitoli la ratificazione in nome del papa, che per un breve del 4 novembre gli aveva commesso di darla, dopo quella del cardinale del Petrucci e del Bentivogli. Ma prima di ritornare ad Imola l' Orsino dovette aspettare che, dopo gli altri collegati, anche il bolognese si fosse accordato col papa.
     Forse perché le differenze (come é detto nel trattato) erano fra il pontefice e Giovan Bentivogli, e acciò non si dicesse che egli per la seconda volta aveva lasciata l'impresa di Bologna, il duca volle che il papa istesso formasse l'accorcio. Né all' onore di Francia gli pareva convenevole, quando per compierla ne aveva ottenuto le forze. Ai 14 del mese le pratiche erano già terminate, e m. Michele Remolino cameriere papale e m. Francesco Parato cancelliere bentivogliesco si recavano a Roma. Dai discorsi uditi alla corte, il Machiavelli ritrasse essere il Bentivogli disposto a "lasciare gli Orsini a discrezione" come essi avevano lasciato lui, e ad obbligarsi a favorire il duca contro di loro ; e cosi fu per credere, anche perché seppe che era nei patti avere Ermete da rifiutare la sposa degli Orsini da lui giurata. Ma si nota una grande diversità fra i capitoli scritti e quelli discorsi. Ai 23 di novembre in Roma, nella camera del papa, se ne formavano le bozze che contenevano : un parentado col mezzo di una sorella del vescovo di Elna e di Costanzo primogenito di Annibale ; una lega fra le due case in difesa dei comuni stati, l'osservanza della quale avevano da promettere il re di Francia i Fiorentini ed il duca di Ferrara; l'obbligo di servire il duca di 100 uomini d' arme e di 200 cavalli leggeri "per una o due imprese che sua excellentia degnasse fare fra uno anno" e la rinnovazione della condotta dei 100 uomini che il duca aveva col Comune di Bologna. Il trattato infine doveva essere segretissimo per tre mesi, per non dare impedimento (come si diceva) alle cose di Urbino e di Camerino. Erano presenti all' atto i due camerieri m. Francesco Trocces e m. Michele Remolino :

       L'atto é contenuto nel Documento n. 73.

    e lo sottoscrivevano Carlo Grati orator bolognese e Francesco Parato da Crema cancelliere. Trasmettendo al duca quei capitoli, il papa gli scriveva un breve in data del 25, col quale gli dava licenza e autorità di ratificarli.
     Dopo pochi giorni, il 27, Paolo Orsini giungeva in Imola a portare al duca il trattato con le firme degli altri collegati, e fa meraviglia come egli volesse condurlo ad effetto, mentre i primi segretari del duca andavano dicendo pubblicamente che Giovan Bentivogli ne aveva fatto uno particolare, a quello contrario. Il Bentivogli. non facendo rifiutare ad Ermete la figliuola di Giulio Orsino e non dichiarando le imprese nelle quali si obbligava a servire il duca, volle avere un qualche rispetto ai suoi confederati ; ma fece loro conoscere l' atto da lui accettato?
     È certo, che i collegati non ignoravano l'accordo. Il di che in Roma si stipulava, l'ambasciator bolognese e il card. Orsini che sosteneva essere contro alle lettere fare accordo separato "se dissero villania coram Pontifico."

       Disp. di A. Giustinian 23 novembre. Per caso, dell'importantissimo dispaccio non é dato dal Villari che un sunto.

    E mentre ne erano formati i capitoli, ai 22 il Reggimento di Bologna dava procura a Mino dei Rossi ed a Filippo Balduino di trattare col duca in Imola, e all'ultimo di novembre, essendo fatta la lega, dava loro altra procura di ratificarla.

       Le due distinte procure sono nel libro 22 dei Mandatorum del Comune di Bologna. La ratifica della pace é riferita al detto n. 73 dei Documenti.

    Ma l'Orsini non aspettava che l'atto fosse compiutole la sera del 29 ad ore 18 ripartiva con i soldi da dare ai suoi, che doveva far sloggiare dal contado di Fano e ritirare verso Urbino. Quattro giorni dopo, il 2 dicembre, in Imola era ratificata la pace col Bentivogli, secondo i patti formati dal pontefice, e poiché dovevano dar la fede i Fiorentini il duca di Ferrara ed il re di Francia, questi ai 27 del mese la dava subito, forse ricercato dal m. Giovanni impaziente di indugio.

       La promessa regia del 27 dicembre é frai Docum. al n. 75.

     Intanto, fatta la pace, i Fiorentini non avevano ancora saputo tener conto della buona disposizione di Cesare verso di loro, alla alleanza co' quali era spinto dal marchese di Mantova e dal duca di Ferrara, desiderosi di far contro i Veneziani. Onde, quando ai primi di novembre pervennero loro lettere regie che li consigliavano all'amicizia col duca, essi fecero intendere di volere ricuperare Pisa e assicurarsi di Vitellozzo; ma della condotta il Machiavelli parlando con m. Guglielmo di Buonaccorso fiorentino segretario di Cesare ebbe a dire: "L'eccellenza di questo duca non si aveva a misurare come gli altri signori. che non hanno se non la carrozza, rispetto allo stato che tiene : ma ragionare di lui come di un nuovo potentato in Italia, con il quale sta meglio fare una lega e un' amicizia, che una condotta. E perché le amicizie fra i signori si mantengono con le armi, e quelle sole le voglion fare osservare, (i Fiorentini) non vedrebbero che sicurtà si avesse avere per la parte Loro, quando i tre quarti o i tre quinti dell' armi (loro) fossero nelle mani del duca. Né dicevo questo per non giudicare il duca uomo di fede, ma sapere che i signori devono esser circospetti, e non dover far mai cosa dove possano esser ingannati." Ma .quando il 20 di novembre ripeté la profferta al duca stesso, questi "senza segno di alterazione alcuna" gli rispose che tolta la condotta egli non sapeva che farsi di un'amicizia particolare "perché si nega i primi principi'." Né volle dir altro, se non che i Signori Fiorentini avevano inteso l' animo suo. E il segretario domandò subito di ritornare, quasi dispiacente di non aver contentato il duca, credendo di aver finita la sua commissione. Aveva allora, il 20, ritirato un salvocondotto richiesto dai suoi per i mercanti della "nazione" negli stati di Romagna. Fino dalla prima domanda Cesare lo aveva conceduto libero e generale, con la sola corrispondenza di un altro per i sudditi suoi in Toscana; ma i Fiorentini, sempre dubitanti, con la scusa delle leggi loro, lo vollero fatto soltanto per un anno, ad eccezione del paese di Pisa.

       Il testo del diploma nella sua prima forma è riferito al n. 69 dei Docum. — Nel registro delle lettere dei Dieci di Balìa al Machiavelli si parla del salvocondotto che egli, per corrispondenza, domandava a nome di suaeccel. Finalmente in quella del 3 novembre 1502 si dice: "Sarà con questa uno salvocondotto di che ti si scrtpse altra volta, et essi facto per uno anno per non potersi extendere più holtre secondo legge nostre, et exceptione del paese di Pisa per la guerra che habbiamo con quella città. Le quali due cose tu porgerai a S. Excelleutia nello excusarle in quel modo che ti habbia ad essere più grato". Archivio di Stato in Firenze.
     Feci richiesta di questo secondo salvocondotto fra le carte dei Dieci e fra quelle della Signoria, ma non se ne trovò nemmen la minuta. Il Milanesi, che assieme al Passerini pubblicò le Legazioni, assicurò non essere nemmeno questo salvocondotto o in minuta o in copia fra le carte del Machiavelli della Biblioteca Nazionale pur di Firenze.

     Dalla lunga dimora alla corte ducale, il Machiavelli ritrasse quella grande ammirazione che poi nel libro del Principe espresse, quando del nuovo potentato propose l' esempio al debole Giuliano fratello di Leon X. Benché nei dispacci debba più della mente del segretario cercarsi quella dei suoi, pure qualche volta avviene, che egli non possa nascondere l' opinion sua personale e liberamente la manifesti. Nota che ha a fare con un principe che si governa da sé e che conferisce con pochi e ne studia gli atti per giudicarne l'indole. "Questo signore (dice) é segretissimo, né credo quello si abbi a fare lo sappi altro che lui : e questi suoi segretari mi hanno più volte attestato che non comunica mai cosa alcuna se non quando e' la commette, e commettela quando la necessità stringe, e in sul fatto, e non altrimenti." Lo trova prima in mezzo a mille pericoli, ma egli non mai dubita della fortuna di lui, che é nei favori di un papa e di un re, e pare che si compiaccia dicendogli che "sempre lo aveva fatto vincitore." De' suoi discorsi riporta le formali parole, e quando si prova ad intenderne la mente, vedendolo far suo prò d'ogni cosa buona o sinistra e prendere una risoluzione impensata, confessa egli stesso di confondersi. Mostra di credergli, anche quando gli promette, all'andata di Lorenzo d' Acconcio, essere per favorire i Fiorentini nel ricupero di Pisa. E perché qualche volta dà notizie erronee, dichiara di voler prima veder l'evento per non avere da contraddirle, accortosi aspettare il duca di pigliar consiglio dai fatti. Cosi di tutti i nuovi principi, come particolarmente nelle Istorie di Francesco Sforza, loderà il proposito di "mostrare il viso alla fortuna e secondo gli accidenti di quella consigliarsi, perché molte volte operando si scuoprono quelli consigli, che standosi sempre si nasconderebbero."
     Essendosi i collegati obbligati a ricuperare lo stato di Urbino, Guidobaldo si fece perduto. E prima a mezzo novembre, chiesto un salvocondotto, mandò il nipote Ottavian Fregoso al duca, che cortesemente lo accolse e trattò con lui lo scambio di alcuni prigionieri fatti a Calmazzo. E dopo fece chiedere un altro salvocondotto per il vescovo di Cagli, che dicevasi aver da trattare la cessione della signoria; ma il duca, ignorasi per quale ragione, non glielo concedette se non dopo il ritorno di Paolo Orsini. I suoi fedeli lo supplicarono a difenderli: per sino le donne di Valbona si recarono a pregarlo che "facesse guerra" e gli donarono gli ornamenti di argento e di oro che avevano. Ma Guido mancandogli anche gli aiuti dei Veneziani, volle partire ; ma prima fece abbattere le fortezze riavute fra le quali quelle di Pergola e di Cagli, dicendo "valere i cuori degli uomini" — affinché le città, non avendo più le fortezze in corpo, gli restassero affezionate. Da Imola con l'Orsino era partito m. Antonio dal Monte presidente della Rota con lettere di perdono ai ribelli, e con commissione di prendere possesso del ricuperato dominio. Ad un castello a cinque miglia da Urbino pregarono Guido di trasferirvisi, ma egli se ne scusò per il male della gotta che lo tormentava, e andarono essi a trovarlo : al loro giungere quelli di S. Marino mandarono subito ambasciatori per comporsi. Dopo ciò il dì 7 dicembre, Guidobaldo chiamati a corte i maggiorenti della città, disse che, non potendo contrastare col papa e col duca, si era risoluto di ritirarsi per la salute de' popoli "concludendo che ciascuno si accomodasse alla pazienza, ed all'esser buoni servitori del duca Valentino, sinché fosse piaciuto a Dio di mutare ventura." E accompagnato dal vescovo de' Vitelli, partiva per Città di Castello. Il dì 9 per tutte le città di Romagna erano pubblicati gli editti, che raccomandavano ai sudditi di non molestare gli urbinati ritornati alla, devozione del signore; e in Urbino i popolani ducheschi entrarono a saccheggiare la "povera casa" del feltrese.
     Ma la partenza di Guidobaldo non assicurava il dominio. Dei patti convenuti fra lui e Paolo Orsini procuratore del duca, i principali furono questi, che egli partendo potesse prendere seco le robe sue (e le più preziose fece condurre a Città di Castello) e che per lui si continuassero a tenere le quattro fortezze di S. Leo, Maiuolo. Montecuccolo e S. Marino, fino a che il duca gli avesse mantenuto "certe promesse."

       Let. di P. Ardinghelli, 15 dicembre 1502 da Castiglione.

    Ma quali erano? Alla corte del duca si diceva che da parte era tenuta una pratica con Guidobaldo per fargli rinunziare la signoria e dargli un cappello di cardinale, come altra volta si era trattato: ma alla corte del papa altri erano i discorsi : ai 20 di dicembre parlando con l' oratore veneto, Alessandro affermava di non voler dare al feltrese il cappello che domandava, e assai ne lodava la moglie che vi si opponeva. E l'Orsini restava in Urbino con titolo di governatore, e nelle quattro fortezze dello stato si trovavano soldati del Vitelli: dagli uni si diceva rhe Vitellozzo vi teneva i suoi per sicurtà di Guido che in casa sua dimorava; dagli altri si faceva credere che non ve li tenesse, "se non per potere con questo presente riconciliarsi più il duca."
     Frattanto Cesare ai 10 di dicembre partiva da Imola per tirarsi sino a Cesena con tutto l' esercito. In due mesi si diceva che aveva avuto da spendere più di sessantamila ducati, ma le "male spese" avevano da pagare le terre della Chiesa, per le quali l' esercito sarebbe passato nel ritornare a Roma, e fra le altre Ancona. E già contro Sinigallia la guerra era decisa, e il card. della Rovere non aveva potuto salvare lo stato del nipote, non avendo trovato ascolto presso il re ed il papa le scuse da lui fatte per la prefettessa che aveva favorito Guidobaldo nell' ultima ribellione. Forse per ragione di difesa o per minor carico alle città, i soldati di volta in volta che giungevano erano stati distesi lungo la Romagna, e rimossi da un luogo all'altro; ma pure infinite furono le angustie provate. Dal duca erano state fatte abbondanti provvigioni di grani, de' quali aveva ottenuto per 30 mila staja la tratta da Venezia : ma "si erano consumati infino i sassi," e dal conto dei grani che rimanevano a metà di novembre si rilevò, che ogni città ne mancava a chi per uno e a chi per due mesi. A Cesena fu comandato che il frumento, l'orzo e la fava si togliessero dai granai de' privati, e si vendessero a tenue prezzo. Tutto il paese aveva fatto una vera prova della bontà sua e di quanto poteva sopportare. Benché le strade fossero difficili per la gran neve caduta, il duca non fece andare l'esercito per Forlì, ma per il castello di Oriolo. Passando per quelle campagne i villici si presentarono a lui a chiederne la "grazia liberale" che egli ad ognuno concedeva per quel suo "spirito divino" onde il Bernardi non resta di lodarlo: ad alcune povere donne ridonò i mariti incarcerati.

       "Facendo gratia liberale ad ogne persona, che degnato se fusse a lui ricomandare, come fur certe povere donne che donò la vita a sol mariti per esser loro incarcerati". Hist. Bernardi.

    E giunto in Cesena la sera dell' 11, nei giorni che vi stette per le feste del Natale, attese alla rassegna dell'esercito che fece accampare attorno alla città.
     Dei Tiberti, che tanto avevano cooperato al dominio del duca in Cesena, alcuni come é detto avevano fatto causa comune coi ribelli non solo per l'obbligo della parte guelfa cui appartenevano, ma anche per la morte di Polidoro capo della famiglia e della parte. A metà di quest'anno era Polidoro Tiberti senatore di Roma, quando — allorché procedeva per la via ad una solenne funzione — gli si avventò contro Pietro Martinelli e lo ammazzò in vendetta dell' eccidio de' suoi compiuto anni prima nella chiesa di san Francesco in Cesena : preso e giustiziato, il Martinelli lieto della morte del nemico subì impassibile il supplizio.

       Nella Storia diplomatica dei senatori di Roma dell' ab. F. A. Vitale, Roma 1791, é taciuta la morte del Tiberti. Mi fu detto essere descritta nella cronistoria del Guj, della quale una copia trovasi alla Biblioteca Vaticana.

    Cosi mancata l'autorità di Polidoro, nella ribellione del Montefeltro, alcuni dei Ti berti affezionati a Guidobaldo l' avevano favorito, e fra essi Palmerio e Diario che dall'urbinate era stato incoronato poeta ; ma altri della famiglia erano rimasti fedeli al duca e gli avevano offerto il castello di Monteglutone. I ribelli avevano pure trovato favore in Teodorano un altro castello dell' arcivescovo di Ravenna, sotto la giurisdizione cesenate. Il duca fece l'uno e l'altro distruggere, e il 15 dicembre, ritenuti alcuni dei Tiberti in carcere, bandire Palmerio e Dario scampati a Ravenna.
     Era il duca da nove giorni in Cesena, quando il Machiavelli andando la sera del 20 a corte, vi vide i capitani francesi "alterati;" vi erano stati a prender licenza dal duca, avendo ricevuto lettere di ritornare subito in Lombardia. Delle quattro compagnie non restava che quella di mons. di Viana di 100 lance. La subita partenza dié luogo a mille dicerie, non sapendosi se fosse di consenso del duca. Ma, ove si credeva che avrebbe ritardato l'impresa di Sinigallia, si vide con maraviglia il duca mantenere gli ordini fatti e spedire a quella volta le artiglierie ; e negli stessi dì che i Francesi partivano, giungevano in Romagna mille altri svizzeri e in Val dell'Amone erano dati i soldi a 600 fanti. Ma il Machiavelli, sebbene uno dei capitani gli dicesse che partivano, non avendo il duca più bisogno di loro, non trovava la cosa "ragionevole," perché il duca non poteva dirsi ancora sicuro, non essendo lo stato di Urbino suo, e non sapendo quanto valer si potesse delle forze degli Orsini e dei loro confederati. E gli pareva strano che il duca in tale incertezza volesse con la partenza dei francesi farsi mancare più che la metà delle forze e due terzi della riputazione, per non poter poi "fare molte cose ch'egli accennava e che si credevano." E invero la pace era sempre insicura. Gli stati di Urbino e di Camerino potevano dirsi ricuperati, ma la dimora di Guidobaldo a Città di Castello. e la lentezza di G. M. Varano a ritirarsi li tenevano per anche sospesi. I commissari ducali che si presentavano a riprendere possesso delle città erano malvisti: in Urbino il presidente Antonio dal Monte voleva che alcuni primari andassero a Roma per ostaggi ma tutti si ricusavano ; e quelli di Cagli chiudevano le porte a Galeotto de'Gualdi istigati dal vescovo Gaspare Golfi, come tutti i vescovi di quello stato più devoti al partito signore che al papa! Ed i quattro castelli che il feltrese si era riservato, perché non voleva accordarsi, continuavano a tenersi dagli uomini di Vitellozzo. Anche in Roma il Giustinian per quel richiamo ebbe a fare congetture, attribuendolo perfino ad un dissidio fra il re ed il papa. Ma il duca era già abbastanza armato da non avere più bisogno dei Francesi per compiere l' impresa di Sinigallia, dopoché il card. della Rovere aveva mandato lettere ai sudditi della prefettessa esortandoli a darsi a lui :

       In un disp. Giustinian 30 dicembre si accenna a lettere del card. ad Vincula ai popoli di Sinigallia, perché "si debbano dare a lui".

    né poteva più oltre tenere il paese aggravato da quei "distruggitori di provincie." D'altra parte, gli Orsini istessi gli si offerivano per quell'impresa, all'annunzio della quale la prefettessa Giovanna era subito fuggita, lasciando nella rocca Andrea Doria che poi ebbe tanta parte nelle vicende di Genova; e già Oliverotto da Fermo aveva incominciato la guerra, saccheggiando in pochi di tutto il contado.
     In Cesena il duca passò le feste in rassegne di soldati e in altri piaceri. Vi ricevette gli ambasciatori dei Riminosi, i quali per il passaggio che aveva da fare con l'esercito per quella città, 10 andarono a pregare di non volere fermarvisi più di un di, per la grande penuria dei viveri. Rispose loro non essere necessaria quella raccomandazione, perché egli ben sapeva che se Rimini poteva per un giorno solo vettovagliare l' esercito, la sua carissima Cesena lo poteva per un mese intero senza incomodo alcuno. Fra le feste date in onore suo, la sera del 22 alcuni cittadini Domenico di Ugolino, Vincenzo Casini, Jeronimo Bertuccioli, Roberto Bucci e Roberto Moro gli offersero un ballo, di cui guidò egli le danze.

       "Et ipse choreas duxit". Diar. Caes.

     Nella sera stessa ad ore 18 il duca mandava 11 segretario Cipriano de' Numai a chiamare m. Remiro di Lorqua che era alloggiato in Cesena in casa del tesoriere Domenico di Ugolino, e presentatosi a lui lo faceva arrestare e mettere nella rocca. Il giorno seguente, 23, erano spedite patenti in tutte le città di Romagna, che notificavano avere il duca fatto pigliare il suo maggiordomo per le molte accuse di frodi ricevute coatro di lui, malgrado le esortazioni e i molti favori. E dicevano che quelle querele erano dispiaciute al duca che "di natura d' ogni avariila alieno e continente da qualunque esazione" oltre le remissioni fatte, non aveva voluto "imporre mai nuove gravezze." E fra le molte accuse era principale quella del traffico dei grani fatto da don Remiro, il quale ne aveva mandata fuori tanta quantità, che con grandissimo dispendio il duca aveva dovuto condurne da altri paesi per sostentare l' esercito ed i popoli. Finivano dicendo che "ad satisfactione della justitia et de l'onore nostro e delle persone offese, 'et ad saluberrimo esemplo di tuti li altri officiali presenti et futuri" si formava il processo contro don Remiro, contro il quale si esortavano 'tutti a portare le speciali querele.

       Una copia delle patenti é al n. 74 dei Docum.

    Ma il processo subito fu compiuto. E all' alba del 25 nella piazzetta fra la cittadella e la rocca, gli fu tagliata la testa : il cadavere stette esposto tutto il di sopra una stuoja, ancor rivestito di tutti i suoi ornamenti ; la testa era fitta in cima ad una lancia. Di tutti i cronisti romagnoli, il solo forlivese ha una parola di compassione verso quel "povero gentiluomo" che pure nel lungo suo governo aveva saputo togliere le parzialità e rendere la provincia tranquilla e obbediente. Gli altri, il cesenate ed il faentino, si compiacciono, che il duca abbia saputo gratificarsi i popoli che si erano querelati più volte dell'empietà e della crudeltà del governatore, sacrificando loro quel suo primo uomo, che sotto, un imperioso contegno nascondeva la più sordida rapacità. E l' liberti in un epigramma dice a Cesare che con il supplizio di Remiro, rerum non vile tuarum praesidium, ha dato un solenne esempio


    Ut populos perames, institiamqua colas.

     La notizia di quel supplizio diede gran meraviglia a tutti, e si dubitò che oltre la causa delle corruttele, non ve ne fosse qualcun' altra occulta. Il segretario fiorentino, vedendo il cadavere di don Remiro in due pezzi sulla piazza, nota : "Non si sa bene la cagione della sua morte, se non che gli é piaciuto cosi al principe, il quale mostra di saper fare e disfare gli uomini a sua posta, secondo i meriti loro." Ma l' osservazione riguarda non la causa del fatto, ma solo il carattere del principe. Eppure alcune accuse particolari si leggono nei Diari.

       "Non defuere, qui dicerent, hoc fecisse Borgiam suasione Lucretiae sororis, cujus pudioitiam Ramirus tentasset". Diar. Caesen.

    E in Bologna Fileno dalle Tuate, ai 24 di dicembre, udì narrare che il governatore "fu preso in taglione imposto dal suo signore, perché se dixe aveva provixione da m. Zoane Bentivogli e da Orsini e Vitelozo contro el duca." La quale notizia — se mai fu scritta il di che fu udita da Fileno nella cancelleria del Reggimento bolognese alla quale era addetto — avrebbe una assai grande importanza per la storia del fatto, che fra pochi giorni in Sinigallia aveva da compiersi. E per certo lo annunziavano le sinistre parole usate con l'orator veneto dal papa, quando "disse la natura del duca esser di non perdonar a chi li fa ingiuria né lassar ad altri la vendetta: e menazò agli altri che l'avevano offeso, et in particolare disse di Oliverotto, el qual el duca aveva zurato in ogni modo de apicar con le soe proprie mani."

       Disp. di A. Giustinian 1° gen. 1503 da Roma.

     Frattanto Cesare la mattina del 26 di buon'ora si levava da Cesena con tutta la corte. Il 28 era in Pesaro dove udiva che i collegati erano entrati in Sinigallia, ed il 29 era in Fano, dove riceveva gli oratori di Ancona che a lui andavano a fare obbedienza. Per mostrargli di essere buoni servitori suoi, i collegati non solo gli si erano offerti per quell'impresa di Sinigallia, ma anche vi erano andati in persona quasi tutti, sebbene nei capitoli della riconciliazione avessero facoltà di servire uno per volta nel campo ducale. Vi erano con Oliverotto da Fermo Paolo e Francesco Orsini duca di Gravina e Vitellozzo Vitelli ; e Paolo aveva seco il figliuolo Fabio e Vitellozzo un nipote: degli altri G. B. Baglioni si diceva malato in Perugia, Giovanni e Giulio Orsini erano ne'castelli loro od in Roma assieme al cardinale ed agli altri grandi prelati della casa. E avendo mandato avviso al duca "come la terra a loro si era resa, ma che la rocca non si era voluta rendere, perché il castellano la voleva dare alla persona del duca e non ad altri,"

       V. la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino ecc. Ha maggiori notizie, ma é alquanto diversa dai dispacci dello Btesso oratore. Fa parte della relazione che il Machiavelli scrisse nel febbraio 1503, al suo ritorno in Firenze, non ancora stampata nella sua prima forma. — Nella Vita del principe Andrea Doria di L. Capelloni, Venezia 1565, é narrata la storiella di un inganno fatto ad un trombetto del duca che voleva parlare con la prefettessa. Né migliori notizie ha l'Istoria di Senigallia del p. Siena.

    il 30 da Fano Cesare rispondeva loro che il giorno seguente egli sarebbe stato a Sinigallia, con le artiglierie per fare sforzo nella rocca, se ancora resisteva: li avvertiva anche di lasciare a lui gli alloggiamenti nella città nuova. Allora per dargli posto, come dissero, gli Orsini ed il Vitelli (che giungeva in Sinigallia in quello stesso giorno 30) ritirarono i loro soldati nei castelli vicini, e lasciarono Oliverotto solo nel borgo con i suoi. Il borgo occupato dall' Eufreducci era davanti alla porta della città, per la quale il duca aveva da entrare; e i castelli ne' quali accampavano gli altri, erano a cinque o sei miglia distanti. Con Oliverotto era forse il terzo di tutto l'esercito degli alleati, più di settemila tra fanti e cavalli, secondo un annalista fermano.

       Annali di Fermo di G. P. Montani (Cronache della città di Fermo pub. dal De Minicis, Firenze 1870).

    Gli altri avevano, al computo del Bernardi, tremila cavalli leggeri e balestrieri. In tutto le loro forze assai maggiori erano di quelle di Cesare.
     Cosi ordinato, all'alba del 31 di dicembre, il duca si mosse da Fano, facendo cavalcare don Michele con 200 lance davanti alle fanterie, dopo le quali andava egli con gli uomini d' arme : nei dispacci del segretario fiorentino si trova che erano 2.500 fanti forestieri e altrettanti italiani, dei quali quattro giorni prima era stata fatta la mostra in Cesena, e 600 uomini d'arme. Al ponte sul Misa, quasi a testa della porta di Sinigallia, don Michele fece fermare i cavalli leggeri per lasciar passare, in mezzo a loro, le fanterie che subito incominciavano ad entrare nella città, mentre Oliverotto, nella piazza del borgo, attendeva alla rassegna de' suoi. Intanto incontro a Cesare erano andati l'uno dopo l' altro, Paolo e Francesco Orsini e Vitellozzo Vitelli: quest'ultimo era su un muletto, disarmato, con una cappa foderata di verde. Il duca mostrò di vederli con piacere, toccò ad ognuno la mano all'uso francese e li baciò. Secondo la relazione del Machiavelli, non vedendo con loro l' Eufreducei, fece cenno con l'occhio a don Michele di andare a trovarlo; il quale, vedutolo nella piazza del borgo, "gli disse come non era tempo di tenere le genti insieme fuori dello alloggiamento, perché sarebbe tolto loro da quelle del duca, e però lo confortava ad alloggiarle, e venire seco ad incontrare il duca." Il quale, sopraggiunto Oliverotto, lo chiamò, ed egli fattagli riverenza si accompagnò con gli altri. Così ragionando con loro, cavalcando fra Vitellozzo e Francesco Orsini, Cesare fece il suo ingresso in Sinigallia. Giunti al palazzo, dove aveva da abitare, mentre i quattro si preparavano a prendere commiato da lui, egli li invitò a salire seco per qualche grave deliberazione o pure a cena; ma come furono dentro, li fece pigliare prigioni dai gentiluomini della sua guardia. Anche il cavalier Orsini fu preso. È questa la versione generale di tutte le cronache. Invece secondo il racconto del Bernardi, il duca non mandò don Michele a chiamare l'Eufreducci, ma lo trovò nella piazza, né aspettò ad essere nel suo alloggiamento per farli prigioni; ma egli stesso quando Vitellozzo gli andò a stringere la mano, lo prese dicendo: "Ah falso ribaldo !" Ed i suoi si gettarono sopra gli altri.
     N. Machiavelli, che non aveva potuto seguire la corte, quando la sera giunse in Sinigallia, trovò tutta la città in confusione e le vie percorse dai soldati. Mentre stava per recarsi al palazzo per informarsi dell'avvenuto, ne vide uscire il duca a cavallo tutto armato, il quale chiamatolo gli narrò la presa degli Orsini e Vitelli, aggiungendo : "Questo é quello che volsi dire a mons. di Volterrà, quando venne in Urbino, ma non mi fidai mai del segreto si che sendomi venuta ora la occasione l'ho saputa molto bene usare, et ho fatto un grandissimo piacere e servizio a' vostri Signori."

       Le parole sono nel Diario del Buonaccorsi, che probabilmente le tolse dal secondo dispaccio del 31 dicembre 1502 mancante nella Legazione pub. dal Milanési e dal Passerini.

    Il segretario ne restò ammirato. Intanto, subito dopo ritenuti i capitani, il duca aveva dato ordine a' suoi di dare addosso ai soldati orsineschi e vitelleschi ne' castelli attorno a Sinigallia ed a quelli di Oliverotto alloggiati nel borgo. AH' improvviso assalto parte furono avaligiati e parte distrutti. Ma i fanti ritornando in città insolenti e rapaci cominciarono a porre a sacco le case de'cittadini e particolarmente de'mercanti veneziani, donde furon tolte robe per più di 20,000 ducati di valuta. Si disse poi che ad alcuni di questi mercanti che gliene fecero reclamo, il duca rispose sinistre parole contro la Signoria. Ad ore 23 il tumulto durava ancora, e la città sarebbe stata tutta saccheggiata, se il duca cavalcando per le vie con la morte di alcuni non avesse repressa tanta insolenzà.
     Nella notte fu decisa la sorte dei prigioni. Gli Orsini furono lasciati liberi in una sala del palazzo, con buona guardia, volendo il duca condurli a Roma, dove il papa avvisato aveva da ritenere gli altri della casa, come diceva. Ma del Vitelli e dell'Eufreducci, de' quali maggiori erano le offese, non volle indugio, e a loro subito fece fare il processo e dare la corda. È notevole questa formalità, già usata dai Fiorentini con Paolo Vitelli, cui in una notte fecero subire il processo e la condanna. Si racconta che Oliverotto, con impeto giovanile, si trasse uno stiletto che aveva indosso per uccidersi con le proprie mani, per non aver l'onta di morire con quelle del carnefice. Ma la tortura avvilì lui e il cognato suo Vitellozzo, cosi che nell'estremo momento "non fu usato da alcun di loro parole degne della sua passata vita; perché Vitellozzo pregò, che e' si supplicasse al papa che gli desse l'indulgenzia plenaria; Oliverotto tutta la colpa delle ingiurie fatte al duca, piangendo, rivolgeva addosso a Vitellozzo." E ad ore 10 di notte morivano strangolati. I cadaveri vennero sepolti nella chiesa dello Spedale della Misericordia. La mattina seguente, a buon' ora, il duca condusse l'esercito a Corinaldo per ferire verso Castello e Perugia e verso Siena. E la mattina stessa si rendeva la rocca di Sinigallia — donde già Andrea Doria era fuggito.
     Le patenti che il duca fece scrivere la sera stessa del 31 dicembre, furono di aver preso i traditori: si mandarono a tutti i Signori amici, non molto diverse le une dalle altre, se non in qualche particolarità della straordinaria azione che si compieva. Le lettere dicevano che gli Orsini ed i loro confederati, non ostante la prima ribellione ed il perdono accordato, avendo inteso la partenza delle truppe francesi per la quale pensavano che il duca fosse rimasto debilitato e con gente di poco conto, avevano macchinato un nuovo grande tradimento; e che sotto pretesto di aiutarlo nell' impresa di Sinigallia dove aveva da andare, vi si ridussero con tutte le loro forze, delle quali fatta mostra del terzo, occultarono le altre fra gli edifici e nei dintorni, e fecero segreto accordo col castellano per potere nella notte, da ogni lato, assalirlo nella città nuova, dove credevano che per essere piccola si sarebbe alloggiato con poca gente. Il quale tradimento avendo egli conosciuto, arditamente lo prevenne. E entrato in Sinigallia con tutti i suoi, fece pigliare prigioni i traditori, e all'improvviso dare addosso ai fanti di Oliverotto e degli altri. La lettera ai Veneziani terminava dicendo: "del che mi rendo certo che la Serenità vostra piglierà piacere." E quella ai Romagnuoli, scritta il giorno dopo, aggiungeva di credere "che tutto el mondo habia ad esserne contento et lieto et maxime l'Italia vedendo che in questi é repressa et extracta la publica et calamitosa peste de li popoli," e li esortava a ringraziarne Iddio, per essere imposto un termine alle tante calamità patite per colpa di que' perversi.

       È del 1° gennaio 1503, rifer. al n. 76 dei Documenti. — Un'altra let. del 2 ai Perugini fu pub. da G. B. Vermiglioli nella Vita di Malatesta Baglioni, Perugia 1839.

     Nella notte dal 2 al 3 di gennaio il papa ebbe nuova della presa degli Orsini, e la mattina fece subito ritenere nelle proprie stanze il cardinale con alcuni altri della famiglia che erano in Roma, frai quali Jacopo Santacroce, — diceva per una congiura che era stata da loro fatta contro il duca. E in un breve, scritto nello stesso giorno 3 ai Fiorentini, li avvisò che gli Orsini presi in Sinigallia sarebbero stati condotti dal duca a Civita Castellana, e loro raccomandò di custodire bene i passi, affinché Guidobaldo rifugiato a Città di Castello non potesse scampare:

       II breve é inedito nell'Archivio di Stato in Firenze.

    anche il duca aveva fatto la stessa raccomandazione all'ambasciatore fiorentino. Poi il 4, narrò al Giustinian come quella presa fosse avvenuta, che tosto la riferì ai suoi Signori : "E comenzò a dir, che essendo già sentenziato a morte Remiro disse voler far intender al Duca alcune cose per suo descargo, e li significò, come aveva ordine con li Orsini de darli la terra de Cesena, il che non essendo seguito, per l' accordo che nascette per la Ex.tia soa e questi Orsini, Vitellozzo se aveva disposto de far ammazzar el Duca, e che a questo era consenziente Oliverotto da Fermo (de li altri non nominò alcuno) ; e non li parendo aver altro modo de far l'effetto, aveva ordine con un balestrier che, cavalcando el Duca, 10 dovesse tuor de mira et ammazzarlo con la balestra. Il che inteso, el Duca se tenne in gran custodia, e mai se cavò le arme de dosso fino ch'el non fu a Senegagia; dove, avendo dato principio a bombardar la rocca, perché la terra libera se li dette, quelli che erano dentro se ne mandorono a domandar patti e si resero etiam loro, 11 che seguito, essendo il Duca nella camera del suo allozamento, vi andò tutti li altri ritenuti, armati etiam loro, come amici però; et essendo in camera el Duca li fece retegnir e subito dette principio a far el processo contra Vitellozzo, el qual de plano confessò esser vero tutto quello che Remiro aveva deposto de lui, e confessò che Oliverotto li tegniva mano al trattato: per il che el Duca li ha fatti decapitar tutti do. Li altri tiene presoni, e fa el processo contra di loro." E aggiunse : "Avendo noi inteso questo, per intender le cose tutte come sono andate, a verno fatto retegnir de qui il cardinal Orsino quelli di Santa Croce e l'abbate d'Alviano."

      1 Disp. di A. Giustinian 4 gennaio 1503 da Roma.

    E il di 6, quando l'intero collegio gli raccomandò il vecchio cardinale, replicò dicendo della congiura fatta di uccidere il duca.
     Così adunque da Alessandro VI era spiegato il tradimento che Cesare nelle lettere sue diceva avere i confederati macchinato contro di lui. È la stessa accusa notata da Fileno. Né il racconto dei cronisti romagnoli é diverso, i quali o riproducono le patenti di Sinigallia o chiamano traditori i ritenuti. Anche, il rettore Francesco liberti intitola a Cesare vincitore,


    Portiter et vitulos sternens ursosque furentes,

    una declamatoria lode per l'assueta Duci viatoria che perseguita i ribelli ovunque sono riparati, e li volge in fuga dovunque. In un libro di atti notarili Girolamo Benci di Savignano notava la nascita di una sua figliuola nel febbraio del 1503 "nel tempo che regnava lo Ill.mo S.re nostro Duca de Valentia et de Romagna, et era gran guerra infra el dicto duca nostro et li Ursini e Vitelocio: et dicti Ursini et Vitelozo havevano ordinato amazare dicto nostro duca in Senegalia, et como Dio volse el tratato venne discoperto et el duca nostro fe' morire parte de quelli Ursini et Vitelozo inseme in dieta terra de Senegalia."

       La memoria é trascritta in un libro di atti della cancelleria del notaio Antonio Guidoni, del 1540. Archivio di Savignano.

    E nella congiura, per conto dei Veneziani, parve che avesse mano ancora il vescovo di Cesena Pietro Menzi vicentino, uditore della Camera in Roma ; il quale benché infermo il 6 di gennaio fu tradotto assieme agli altri in Castel S. Angelo.

       "Grandi pecunia se redemit". Diar. Caesen.

     Ma della grande tragedia altra era la versione che doveva trovar posto nella storia. Al Giustinian che prima credeva a "qualcun' altra causa occulta" del supplizio di don Remiro, quando ne ode dal papa la narrazione, parve che "lui medesimo dicesse de narrar un figmento." E il Machiavelli, finché sta nella corte ducale, non mostra di negar fede al tradimento di cui anche giorni dopo gli discorsero Cesare ed i segretari suoi; ma ritornato a Firenze — poiché il dì 9 la Signoria inviò Jacopo Salviati a rallegrarsi col duca della estinzione de' comuni nemici — un mese dopo, detta una relazione del successo al tutto diversa dagli stessi dispacci suoi. Gli scampati da Sinigallia, il figliuolo di Paolo Orsini e il nipote di Vitellozzo, giungono la sera del 2 gennaio in Perugia dove pure cercano rifugio Guidobaldo e Gian Maria Varano ; e narrano la presa di Sinigallia come un gran tradimento loro fatto dal duca. Un frate Galasso ambasciatore di Perugia la sera del 3 affermava a Pietro Ardinghelli commissario di Castiglione Aretino, che essendo il duca entrato in Sinigallia andò a lui Paolo scusando Vitellozzo e gli altri che per sospetto non volevano presentarsegli e che essendosi il duca meravigliato di tale diffidenza, perché "le ingiurie erano perdonate" Paolo ritornò ai suoi ad esortarli e pregarli di presentarsi al duca che li avrebbe visti volentieri: ma che Vitellozzo più degli altri renitente, prima di andare raccomandò i nipoti ad un suo allevato "perché (diceva) io conoscho andare alla morte" aggiungendo : "et poi che cosi vi piace, io sono contento vivere et morire con chi m' ha conlegato la fortuna." E che, scavalcati all'alloggiamento del duca, questi "come li furono inanzi, si volse alla guardia sua et ad altri deputati, e gridò forte: Amaza amaza e' traditori... E mancò luogo alle ferite."

       V. La lett, di P. Ardinghelli, 3 genn. 1503 da Castiglione ai Dieci — Alla Cronaca del Matarazzo mancano le carte, nelle quali aveva ad essere narrato il fatto. Ma alla versione perugina appartiene pure la narrazione del Tanti, il quale aggiunge, che il duca ebbe tanto cuore di vederli così trucidati distesi per terra, e disse: "Vi sta bene indegni ribelli questa morte".

    Il racconto evidentemente é inesatto ne' suoi particolari; ma un punto, quello della raccomandazione fatta da Vitellozzo, può da solo far del successo formare un nuovo giudizio. Il Machiavelli, che nel ritorno lo intese, (nella relazione anzi lo amplifica) lo giudicò di tanta forza, che persuadendosi che i confederati non avessero mai tentato di prendere il duca, gli parve necessario scrivere una nuova relazione per dimostrare doversi al duca soltanto attribuire il "fatto mirabile." Ma la fantasia gli servi troppo alla prova di un fatto nelle stesse patenti ducali dichiarato, così che le cose avvenute nella sua ambasceria non furono rese come furono osservate. Delle molte diversità della descrizione dai dispacci, basta notar queste: la egli afferma di aver trovato Cesare in Imola "pieno di paura" mentre prima a lui stesso aveva detto che "sempre lo aveva fatto vincitore ;" né la defezione degli Orsini fu "fuori d' ogni sua opinione" se dal re il duca aveva ottenuto il consenso della disfatta loro; 2a dimentica i dubbi che lo tormentavano per la incertezza delle cose di Urbino, anzi fa fuggire Guidobaldo a Venezia, mentre questi rimase a Città di Castello sino al 2 gennaio ; 3a e per poter dire che Cesare licenziò i Francesi per mostrar di fidarsi dei confederati, già armato abbastanza, fa avvenire la lor partenza dopo la resa di Sinigallia e l'invito degli Orsini, mentre la partenza avvenne il 21 e la resa il 28 : né tanto meno il duca poté persuadere il Vitelli che lo aspettasse in Sinigallia, se questi partito il 26 da Castello (il dì stesso che l'altro si levava da Cesena) vi giunse soltanto il 30.
     F. Guicciardini, fondando il giudizio suo sopra questa versione, della quale accetta tutti i più minuti particolari (e certamente dal Machiavelli istesso ne ebbe la relazione), disse essere la presa di Sinigallia una grande "sceleraggine" perché l'offese l'inganno di un perverso anche se usato contro altri perversi. Ma il modo onde venne compiuta fu cosi ardimentoso, che tutti i politici contemporanei ne furono ammirati ; i principi la posero fra le "gloriose imprese" e il re di Francia la definì "un'azione degna di un Romano." E l'effetto suo fu tale, che i popoli la dissero una liberazione della patria dai tiranni. Considerando la qualità dei collegati tutti perversi, eccetto Francesco di Gravina ancor giovane, Cesare poteva ben dire: "È bene ingannare costoro, che sono suti li maestri de' tradimenti."
     Conoscitore della occasione, così bene la seppe usare, che egli in pochi dì poté vedere tutti i nemici suoi o presi o fugati. Guidobaldo il Varano il figlio dell' Orsini ed il nipote di Vitellozzo convengono in Perugia, e per un momento Gian Paolo Baglioni tenta di mantenervi la guerra; ma come egli é giunto a Gualdo il 5 gennaio, fuggono tutti; il feltrese scampa a Pitigliano ed il perugino a Siena presso Pandolfo Petrucci, lasciate le donne con i putti per via, perché siano prese dai ducali : fu tra esse la moglie di Bartolomeo d'Alviano, che malsicura della difesa del cognato Luigi nella rocca avita, preferì di seguire i parenti nella prima fuga. Le città liberate, Fermo Castello Perugia, chiedono di osservare la devozione chiesastica e il governo del duca, e a lui mandano incontro ambasciatori a rallegrarsi seco della cacciata dei "tiranni" ed a prestargli ubbidienza; ed egli come gonfaloniere della Chiesa le riceve per rimetterle al papa. E fa andare commissari Vincenzo Calmeta in Fermo, e Agapito Gerardino in Perugia. Il 7 in Assisi trova gli oratori di Siena, ai quali intima, che per rispetto alla protezione che la città ha col re di Francia, mandi fuori Pandolfo, volendo egli "poiché ha tolto ai nemici le armi torre loro anche il cervello." E attestando di voler ire con le artiglierie sino alle mura, discende con tutto l'esercito senza l'impedimento dei carriaggi a Castel della Pieve, dove il 13 fa pubblicare la lega sua con Giovan Bentivogli che subito gii manda il cav. Antonio dalla Volta con 30 uomini d'arme e 100 balestrieri.

       Nei libri Partitorum si trovano notate le spese per questi soldati che da Bologna "discesserunt die 17" januarii 1503 et redierunt die 12" maj.... in subsidium Ducis Valentini ex capitulis cum eo factis".
     Il 18 in Castel della Pieve fu stipulato il contratto del matrimonio della sorella del vescovo d'Elna e di Costanzo Bentivogli, dal detto vescovo e da Jeronimo da Sam pierò procuratore: fu la dote di 10 mila ducati. Vita di G. Eentivogli del Gozzadini.

    E andato a Sartiano, lascia che in quel castello si compia l' ultimo atto della tragedia di Sinigallia ; poiché il 18 dei tre Orsini che avevano da essere condotti nella fortezza di Civita Castellana, lasciato libero nel campo il cavaliere, Paolo e Francesco vi furono strangolati : e il vecchio cardinale era per morire in Castel S. Angelo. E perché Pandolfo non parte, da Sartiano il 27 scrive lettere ai Sanesi minacciando l' esterminio.

       V. ai n. 77 e 78 dei Docum. la lettera ed il breve papale.

    Poi conduce tutto l' esercito alla volta di Roma, capitani generali Lodovico della Mirandola Ugo di Moncada e Michele Corella, ad espugnare i castelli degli Orsini che non si erano arresi a don Jofré.
     Al Castel dell'Abbadia il 29 fu a trovarlo un uomo di Bartolomeo d'Alviano, mandatogli dall'orator veneto con un breve del papa per la liberazione della moglie del suo signore, rinchiusa nella rocca dì Todi. Egli dié al messo una lettera per il papa, in cui diceva di avere .dato ordine che la donna fosse subito rilasciata. Intanto Bartolomeo il 27 aveva ottenuto licenza dalla Signoria di andar a liberare la moglie, ed a difendere il castel suo d'Alviano ; ma la domanda era stata troppo tarda; i commissari ducali attendevano a spianarlo.

       Una lettera di "Gabbriello da Faenza et Marco Campion ducali commissarii" dei 7 febbraio 1503 chiede ai Todini 500 fanti per l'impresa di Alviano. Vita del Bartolomeo del Leonij.

     E ad Acquapendente il 1° febbraio era raggiunto da uno staffiero della marchesana di Mantova, il quale gli presentava una lettera accompagnatoria di un dono di maschere "perché (scriveva Isabella) credemo che doppo li stracchi et fatiche che la patisse in queste gloriose imprese voglia anche retrovare loco de ricrearsi." E Cesare ringraziandola, lodava la bellezza e l'opportunità del presente, come se ella gli "havesse prefisa lege et ordine de le imprese et de la tornata a Roma." E perché circa gli sponsali dei loro figliuoli la marchesana diceva di aspettare la risoluzione del pontefice, Cesare le rispondeva che al suo ritorno si sarebbe adoperato, affinchè quella "pratica caldissima" avesse avuto pieno successo. Anche il duca di Ferrara la sollecitava.
     Ridotto il campo a Sutri, ai primi di febbraio si dispose ad assediare Ceri, fortezza sopra un monte di macigno, in cui gli Orsini si erano rifugiati. Alessandro VI che aveva fatto proposito del suo papato di sradicare (come diceva) dalle terre di Roma tutti i baroni, e restituirle libere alla Chiesa — disposto anche a togliere quelle date ai duchini —- desiderava che il figliuolo in quel colmo di fortuna compiesse l'opera, cui da tanti anni egli attendeva. Ma altro era il pensiero di Cesare, necessitato a salvare parte di quei baroni, non potendo distruggerli tutti, per pure avere alla morte del padre qualche amico in Roma. Per ciò a Silvio Savelli lasciava Palombara; e se assediava Ceri in cui erano Giulio e Giovanni Orsini, non toccava Pitigliano del conte Nicolo già capitano della Chiesa ed allora dei Veneziani, e ricusava di prendere Bracciano di Gian Giordano che militava nel Regno per i Francesi. Né solo per la riverenza al re che per un valletto gli mandava lettere di raccomandazione, ricusava di offendere Gian Giordano, ma anche per l' obbligo di cavaliere di san Michele, del quale ordine essi due erano insigniti.

       "Se nasce alcuna contesa fra cavalieri... venuta la cosa a notizia del sovrano e capo dell' Ordine, difenderà per sue lettere che non seguano fatti, e nel prossimo capitolo le dette differenze saranno viste per il detto sovrano eco." V. Descrizione storica degli Ordini cavaliereschi di L. Cibrario, Torino 1846.

    E il Giustinian credeva che quel rifiuto fosse un artifìzio!
     E Cesare doveva pensare a mantenere il conquistato, perché le vittorie sue improvvise avevano fatto risentire i Veneziani ed i Fiorentini gelosi della sua potenza. Tutti gli stati suoi, anche i nuovi erano quieti, ma affaticati dai soldati e malcontenti della guerra che per tre mesi li aveva desolati ; e li facevano sicuri i supplizi di quei baroni che si erano dichiarati per i nemici, Luigi di Montevecchio e Ugolino di Pian di Meleto: il conte Nicolo di Carpegna era confinato in Cesena;

       "Ut si adversus praeceptum iret, tria aureorum millia ab eo praestanda essent". Diar. Caes.

    ivi pure erano carcerati otto dei Tiberti, ma poco dopo furono liberati. Ma il ducato di Urbino era ancora incerto : dei quattro castelli ritenuti da Guidobaldo, San Marino si era subito accordato, ma si sostenevano ancora Majolo e San Leo, in cui era entrato Ottavian Fregoso con Palmerio Tiberti ; e se i feltreschi di Urbino stavano fuori alla campagna "per non essere notati per sospetti," quelli di Cagli che avevan chiuso le porte al commissario erano impauriti del saccheggio minacciato e del supplizio del loro vescovo, ordinato da don Ugo di Moncada. E la incertezza veniva dalle minaccie dei Veneziani, che avevano mandato a Ravenna Bartolomeo d'Alviano e Giambattista Caracciolo, quel dalla moglie rapita. Il nunzio Leonini a metà di gennaio si doleva in Collegio, che la Signoria non gli avesse conceduta la tratta di diecimila staja di frumento per la Romagna ; ma il doge gli rispondeva essergli negata, perché non potevasi cavar frumento dalla Sicilia, e da parte sua lamentavasi che il duca avesse fatto mettere a sacco le robe de' mercanti della nazione in Sinigallia, e tenesse prigione in Rimini un tal Saraton.

       Diari di M. Sanuto.

    E i Veneziani procedevano cosi da nemici, che agli 8 di febbraio il duca spediva lettere a' suoi, che temevano non fossero per tentare un qualche movimento: ordini severi furono fatti contro i nemici dello stato ; e negli stessi giorni Annibale e Venanzio Varano, catturati in Rimini, un nipote di don Michele li fece strangolare alla Cattolica.

       "Adì 8 de februari 1503 soua Ex.tia per ordine dato a uno nepote de dom Michel spagnolo li fece strangolare come li altri suoi nemici". Hist. A. Bernardi.

    Cosi Cesare, come pochi mesi prima, non poteva più rammaricarsi di "essere stato clemente, e avere stimato poco le cose." I Veneziani fecero allora ritirare l'Alviano;

       "Consideratas maximas mutationes quae in paucis diebus euccesserunt in rebus ducis Valent." Senatus Secreta, 16 feb.

    ma cercando occasione di dolersi, il 17 scrissero al loro oratore in Roma una lettera di querele per il sacco di Sinigallia e le sinistre parole contro di loro. Intanto il duca per non lasciar più oltre mancante il governo di Romagna, il penultimo di febbraio fece le patenti per quattro Commissari, tutti spagnuoli, che in luogo del capitano di giustizia dovevano eseguir gli ordini del Consiglio ducale: furono, m. Cristoforo della Torre maggiordomo sopra Forlì Faenza e Imola, m. Jeronimo Boaadies sopra Cesena Rimini e Pesare, m. Andrea Cossa sopra Fano Sinigallia Fossombrone e Pergola, e m. Pietro Remires sopra il ducato di Urbino e il contado del Montefeltro. Avevano da avere particolar cura sopra le cose dello stato, e da "obviare a qualunche mala pratica de subditi."

       V. la lettera 27 feb. 1503 al n. 80 dei Docum.

     Poiché era alla corte, A. Giustinian non aveva mai discorso con Cesare né mai l' aveva veduto, se non qualche volta mascherato, dopo il suo ultimo ritorno ; e perché intese essere stato in Roma per alcuni giorni in abito da maschera assieme ai canl. Borgia ed Albret, non seppe spiegarsi quel travestimento benché di carnevale "perché le fantasie sue sono inintelligibili." Avendo il papa mandato a Sutri m. Trocces con la lettera dei Veneziani, il cameriere papale riferì all' oratore che il duca aveva trovato assai moleste quelle querele, e che gliene voleva parlare : ma il Giustinian rifuggiva dal vederlo. Par quasi che egli voglia evitar la presenza di quel "marrano duca" che desiderava o cacciato d' Italia dal re o distrutto dagli Orsini, per timore che il gentile aspetto e la facile parola anche lui non ingannino. E quando il papa volendo assicurare la sua "posterità" gli dice di voler metterlo sotto la protezione della Signoria, ne' dispacci par che sorrida di disprezzo, perché lo considera il più grande nemico de' suoi, sol perché loro ha strappato di mano la Romagna. Non lo ammira, come il Cappello ; lo odia tanto, che non é per ammettere nessuna virtù nelle azioni di lui, nessuna onestà nelle parole. Nel redigere i dispacci non si fa cura di accertare le notizie che da, le riferisce tutte minuziosamente come le ode contar alla corte da que' prelati maledici, fra' quali il Burcardo é sincero ; e su le notizie così raccolte fonda i suoi giudizi, diversi giorno per giorno, ma sempre avversi ad Alessandro ed a Cesare, che crede capaci di ogni scelleraggine. Fra le altre, quando ha sotto gli occhi la lettera del duca che ordina la liberazione della moglie di Bartolomeo d'Alviano, riporta la voce che l'abbia fatta condurre al suo campo: né trovata falsa la smentisce. I Borgia non meritavano tali riguardi ! Quando Alessandro gli ripete che il duca desidera parlargli, egli vuole prima un invito formale, per non esporsi, come dice, ad aspettar una udienza che non ha bisogno di chiedergli. Finalmente il 26 di marzo va a trovarlo al palazzo. Introdotto nella sala. Cesare che era al balcone col papa, gli si fece incontro alcuni passi "con allegra cera" e lo abbracciò. Dopo i primi discorsi ne' quali "se aforzò de chiarir el bon animo" sempre avuto verso la Signoria, si dolse che essa gli inimicasse gli stati ; e il papa mostrò due lettere del 23 del governator generale e del luogotenente di Urbino, che dicevano i rettori di Ravenna usare parole avverse contro il signore, e aver mandate artiglierie e munizioni a Castelnuovo e di là introdotte in San Leo, aggiungendo anche di sapere essersi tentata la fedeltà di un castellano. Nelle parole loro, il Giustian trovò tanta paura, "come se allora se vedessero tuor quel stado dalle man" ma le giudicò "ciancie ;" e riferendo ai suoi le proposte di amicizia del papa, dava loro ben altro intento, che cioé il papa procurasse una unione "a comun beneficio de nui Italiani" contro i Francesi cui male riusciva la guerra nel Regno.

       Leggansi i dispacci 25 marzo e seg. del Giustinian alla Signoria, e 4 aprile della sua Signoria all'oratore in Francia.

    Ma pure le assicurazioni dell'oratore dovettero essere tali, che hanno la data del giorno 27, lettere pubblicate in Romagna che annunziavano essere il duca in protezione dei Veneziani.
     Vincendo Orsini e Vitelli, Cesare aveva creduto che i Fiorentini avrebbero dovuto essergli grati, e particolarmente della cacciata di Pandolfo Petrucci che sempre era stato capo ad offenderli; ina non pensava, che appunto perché l'obbligo era troppo grande, i Fiorentini dovevano essergli ingrati per non aver da cominciare a pagarlo, tanto più che consumati gli Orsini, nemmeno lui stesso avevano da temere. Anzi dovevano evitare, che venendo Siena a discrezione sua, non li costringesse finalmente all' osservanza della condotta. Ai primi di marzo giungeva in Toscana un m. Francesco da Narni per praticare, dicevasi, una unione fra Firenze Bologna Lucca e Siena, tutte quattro sotto la protezione di Francia ; lo mandava non direttamente il re, ma forse il card. di Rohan. Era manifesto che la unione doveva essere fatta per assicurare quelle città dai pericoli che potevano correre, già state essendo quasi tutte tentate dal duca; ed era procurata dai Fiorentini, per rimettere in istato con quel pretesto Pandolfo Petrucci, perché dubitando del governo instabile di Siena preferivano piuttosto di rivedervi Pandolfo, benché non amico, che il duca signore. Ma la nuova Balia non voleva ricevere il ribelle. E quando l'orator regio fu a Siena, mandò a raccomandarsi al duca, affinché egli non acconsentisse a quel ritorno ; ma egli omai — sebbene assicurasse non essere per dar favore al ribelle — non poteva impedirlo. Cosi al 29 di marzo, avendo la fazione del Petrucci preso le armi, m. Francesco otteneva che questi fosse richiamato dall'esiglio e rimesso nel Collegio, per pubblica deliberazione. Città di Castello e Perugia furono più sicure: e perché non tornasse 'Gianpaolo, ai 10 di aprile il duca fece rientrare Carlo Baglioni e gli Oddi fuorusciti; ma perché ritornavano poveri dopo tanti anni, all'autor della cronaca "Peroscia al tutto pareva oscurata."
     Frattanto Giulio Orsini ed i suoi che erano in Ceri, dopo un mese di forte assedio, ai 6 di aprile domandarono un salvocondotto, e rimisero la terra e le persone a discrezione del duca; il quale li condusse a far riverenza al pontefice. E il giorno dopo nel castel delle Celle, l'ambasciatore francese ed un messo papale fecero l'atto per la consegna nelle mani del re di Bracciano e di Vicovaro di Giangiordano Orsini. Per questa resa si fecero allegrezze in tutti gli stati, e altre se ne fecero il dì 20 per l'espugnazione di Majolo. Il commissario Pier Remires aveva portato gravi ordini nel Montefeltro sempre incerto, sebbene nei nobili e nei popolani non mancassero i fautori del nuovo signore : ad Urbino nel Consiglio generale sono eletti dieci oratori da mandare a Roma, ma tutti temendo di essere ritenuti, rifiutano di partire; onde quattro di loro, ai primi di aprile furono confinati a Cesena. Ma preso ai 18 Majolo, il Remires sperava di ottenere fra breve anche San Leo che finalmente per la prossimità dell'altro castello poteva essere assediato : e vi andò con 1,000 fanti comandati, scelti e bene armati, e con tre falconetti ed un cannone — poveri arnesi per rompere quei muri di macigno. Ma altri fanti erano comandati a Castello, a Perugia, ad Urbino per condurre altre artiglierie, ed espugnare quell'ultimo propugnacolo del feltrese. Ma il castellano che vi era. un ser Lattanzio da Bergamo, si preparava a sostenere il lungo assedio dicendo di avere viveri e munizioni per più mesi, tanto da aspettar Guidobaldo che i Veneziani avrebbero aiutato a ritornare.

       Let. di P. Ardinghelli, 19 aprile 1503.

    Pure per quelle buone nuove i popoli si consolavano della guerra, di cui allora pativano uno dei peggiori effetti, la carestia. Fu tanta in Forlì, che si vide il luogotenente Gabriel Bonarelli anconitano andar per le case dei nobili, seguito da una turba di miserabili a far incetta di grano che con gran dolcezza di parole chiedeva, e che de' suoi denari pagava: cosi ne mandò anche ad Imola, per mille lire che gli dié il tesorier ducale Berto da Oriolo.

       "Andava per le case de' nostri nobili come gran numero de poveri miserabili dreto, et a luti come sua dolcetia de parole, a tuli come li soi denari provedea di pò per suo amore del papa del duca e de lui e de nostro populo". Hist. Bernardi.

    E perché la miseria era grande, per dar lavoro agli artigiani, ordinò alcuni lavori nei borghi che fece acconciare. Né il duca aveva potuto ottenere che una piccola tratta di frumento dal mercato dei Veneziani, sebbene egli più volte ne avesse fatto ricerca ; ma i Comuni se ne provvidero altrove.

       "Essendo grande carestia la città fece partito con mercanti che lo condussero da Sicilia e ne dette alle terre amiche quanto ne volsero". Annali di Fermo di anonimo.

    Di questo tempo é pure un suo decreto in benefìzio del Monte di pietà di Faenza, al quale fece rilasciare la casa ed i granai che Astor Manfredi durante l' assedio aveva ceduto a Marc' Antonio Siveroli. Fu quel Monte uno dei primi fondati, dicesi nel 1491, da fra Bernardino da Feltre ad aspidis judaicae morsum in usura latentis evitandum; ed i suoi Capitoli servirono a vari altri che sorsero in Romagna, raccomandati dai benefici francescani che l'opera di fra Barnaba da Terni predicavano alla oppressa povertà.
     Per l'entrata di Pandolfo in Siena e gli aiuti ai ribelli del Montefeltro, Cesare si accorse di non potere più fare fondamento su amicizie italiane, sebbene egli e particolarmente il papa le desiderassero, per pure avere un alleato nella mancanza della potenza francese in Italia ; giacché i capitani di Luigi XII avevano così male condotto la guerra nel Regno, — sol celebre per la disfida di Barletta — che consumato l'inverno in piccole fazioni, avevano dato tempo a Consalvo Ferrando di avere soccorsi, co' quali entrare vittorioso nella Capitanata. A mezzo aprile, Alessandro VI ai Veneziani ed ai Fiorentini fece rinnovare le proposte di una lega a difesa dei comuni stati, senza derogare a veruna altra che le parti avessero col re di Francia; e il papa sperava di trarveli "avendoci drento sua maestà qualche interesse." Ma le pratiche anche questa volta fallirono. I Fiorentini, dopo averne avvisato per il debito dell' unione Pandolfo Petrucci,

       V. l'istruzione 26 aprile 1502 a N. Machiavelli.

    passò poco che le esclusero, perché il sanese non poteva esservi compreso, e anche perché non vi erano tali condizioni che potessero loro assicurar Pisa benché promessa.

       Gli atti che riguardano la cessione di Pisa al duca Valentino sono nell' Archivio di stato in_ Firenze. Cesare doveva portare il titolo di duca di Pisa, con successione del primogenito: si obbligava a riconquistare Livorno, Porto Pisano e tutto il territorio occupato dai Fiorentini, coi quali non aveva mai da trattar pace né alleanza, né permettere che acquistassero beni immobili in tutto il paese. In una istruzione del Magistrato a suoi oratori presso Alessandro \'I appare che le insegne ducali avevano ancora da definirsi. V. il voi. 1° del Giornale storico, ed il tom. 15 dell'Archivio storico italiano.

    Né i Veneziani furono per dare la condotta a colui, del quale da tanto tempo desideravano la rovina. Mentre il papa si doleva del rifiuto con l'oratore, il 20 di maggio, entrò nella sala il duca, il quale saputolo "non replicò né disse altro" ma rivolse alcune parole in ispagnuolo al papa. E questi riprese a dolersi che la Signoria avesse scritto lettere al re, facendo credere che egli fosse per macchinare in Italia una lega contro Francia, con Spagna e Venezia. Negò il Giustinian, ma la cosa per questo non era men vera. E davano ombra ai sospetti la rotta della Cerignola, l'entrata di Consalvo in Napoli (16 maggio) e la fuga e il supplizio di m. Francesco Trocces cameriere papale.
     Di questa morte misteriosa le notizie sono incerte, né gli ambasciatori nei loro dispacci sanno dirne le ragioni, se non che questa, che m. Francesco il dì 22 maggio fuggì da Civitavecchia su un brigantino genovese per paura del duca del quale si era lagnato, per non essere stato compreso frai nuovi cardinali, oppure perché voleva "andare al re a svelare i maneggi tenuti dal papa col vincitore di Napoli. Ma é notevole, che nelle lettere dei Genovesi per la cattura di lui, si dice la fuga essere avvenuta per qualche suo delitto o pregiudizio perpetrato contro il papa il re ed il duca.

       V. il bando dei 27 maggio 1503 al n. 82 dei Docum.

    Il fuggitivo fu preso ad un porto di Corsica, e ricondotto a Roma, o si buttò in mare ad Ostia, come il papa disse, o fu strangolato in una torre di Trastevere come affermò l'orator ferrarese ; il quale anche aggiunse che il duca andò a parlargli, e che ritiratosi in un luogo non visto, volle vederlo morire per mano di don Michele.

       Disp. Qiustinian 8 giugno, e Constabili 11 giugno 1503.

    Il fatto non può accertarsi, ma probabilmente l'oratore ignaro degli usi della Corte pontificia l'arguì dall'essere il cadavere esposto a Torre Savella, di cui don Michele era soldano. E infatti poco prima il papa gli aveva donato quella prevostura, la cui giurisdizione si estendeva sopra gli ufficiali laici della Curia, superiore a quella dello stesso governator di Roma. Questo caso fece assai dire, perché il Trocces era imo dei migliori ministri del papa e del duca, al quale si mostrava singolarmente affezionato: il Giustinian scrisse: "Ormai sono rimasti senza servitori de quelli che exercitavano alle loro faccende. Resta al duca Remolines e don Micheletto, che aspettano far el medesimo fin fra poco tempo."
     Ma se a Cesare dei tre propositi suoi per mantenere il conquistato: "stare armato d' armi sue, vezzeggiare i sudditi e farsi, amici i vicini" falliva l'ultimo, non fallivano gli altri. Hanno la data di questi giorni alcuni diplomi di privilegi conceduti alle città di Romagna, I popoli erano stati assai travagliati dalla carestia dei grani ; ma pure si consolavano per i buoni provvedimenti presi e per le vittorie del duca. I Permani in un Consiglio generale avevano gridato il duca loro signore: ma il vescovo Ferentino che era nella città per il card. Farnese legato della Marca, non voleva dare il governo al conte Giacomo Nardino da Forlì commissario ducale, se prima non ne aveva ordine dal pontefice. Ma il conte "homo molto destro" come lo dice l' autor degli annali, dopo avere il 23 maggio nel Consiglio dei Sessanta ammonito che si avesse rispetto al vescovo, sebbene egli lo disapprovasse perché voleva immischiarsi nelle cose della città, fece in modo che in luglio i Permani ebbero il breve papale.

       Cronache della città di Ferino pub. da G. De Minicis, Firenze 1870. Uno strano errore é occorso in una nota, nella quale si dice che fu il vescovo che indusse i cittadini ad eleggere per signore il duca.

    E sotto Cesare così poco dubitarono della lor libertà, che in lui rimisero la ricostruzione del Girone inconminciata da Oliverotto Eufreducci, dai loro padri abbattuto dopo il dominio sforzesco. Tanto erano grati a chi aveva liberata la città dal "crudele tiranno!"
     Da Sinigallia andarono a Roma due nobili Sebastiano Passari e Bernardino Quartari, assieme ad Antonio Caputi agente della prefettessa. Chiesero al duca, che, confermati gli Statuti, la città potesse nominare fra i nativi gli ufficiali suoi, ad eccezione del luogotenente castellano podestà ed ufficiale della guardia, con privilegio che il podestà eletto giudicasse le cause di prima istanza; ed imporre collette reali e personali per i bisogni del Comune con consenso del Consiglio ducale : chiesero ancora che fossero dichiarate nulle le convenzioni fatte dai vicari in pregiudizio della città, e che per dieci anni le fosse concesso il provento dell'ufficio dei danni dati e del Notariato perla costruzione di un acquedotto e di una fontana a commodo pubblico. Queste grazie concedette il duca con un diploma del 10 giugno.

       V. il diploma al n. 83 dei Docum.

    E con un altro del 20 sanzionò una convenzione fatta fra quelli di Bertinoro per la buona amministrazione del Comune loro, desiderando di togliere la materia delle querele e delle contese che solevano avvenire fra gli abitanti delle città e del contado. Nello stesso giorno un altro diploma ottenevano gli uomini di Serravalle.

       Questi due diplomi sono ai n. 84 e 85 dei Docum.

    Nella ribellione del Montefeltro, questo castello soltanto era stato fermo, né anche aveva voluto ricevere i nemici, ma li aveva fortemente respinti, opponendo i vessilli borgiani a quelli della repubblica di San Marino cui apparteneva: tanta fede meritava una grazia speciale. Onde il duca, conforme alle istanze fattegli dagli oratori, non solo ne confermò gli Statuti, ma ordinò che più non dipendesse da San Marino, e che fosse libero ed avesse un vicario proprio. Allora finalmente, dopo un assedio di sei mesi, era levato il campo da San Leo, la cui resa faceva quietare tutto il Montefeltro.

       Nelle cronache feltresi si narra che il castello non fu mai preso, dopoché in maggio gli assediati uscirono a disperdere i ducali. Ma in un dispaccio del Giustinian del 9 giugno sono accennati i capitoli della resa. Anche in una nota del Reposati si dice che l'assedio fu tolto ai 3 di luglio.

     Nelle continue fazioni combattute in Romagna, fra la Chiesa ed i vicari, e fra Veneziani e Fiorentini per il ritorno dei Medici e la libertà di Pisa, i signori avevano procurato di fare milizie proprie con ordinanze come quella instituita da Ercole d'Este fin dal 1479, ma o non le proseguirono o le fecero di poco numero; così che nel 1499 Giovanni Sforza aveva bisogno di domandare fanti al Comune di S. Marino, e Caterina Sforza ne aveva appena 1500 scritti da lei. Eppure tanto i popoli si erano assuefatti alla guerra, che la Romagna portava tanto vanto di generare buoni soldati ;

       De re militari di Ant. Cornazano, Venetia 1515.

    e i fanti di Forlì e di Faenza dovunque si ricercavano perché ben armati e fedeli. A quelle ordinanze, Cesare fin dal principio del suo governo fece dare maggiore estensione e conformità; e primo di tutti i signori del suo tempo, per la volontà sua e per la valentia de' sudditi, poté istituire una milizia del paese che poi fu d' esempio in tutta Italia. Ritenne dapprima l'uso dei comandati, che fece applicare in tutto il ducato, e ad uno per casa fece dare armi, con le quali al suono della campana doveva recarsi in piazza :

       "Un bando ducale che tutte soue ciptà debiano vigilare che come el segno de la campana se sarà fatto intendere, che un homo per casa se debiano redure con soue arme in mano in piana". Bernardi.

    già alla guerra di Urbino l' ordinanza era applicata; dava 6,000 fanti, che in due di si potevano avere insieme, tutti scelti e buoni alla difesa dello stato: il duca stesso, cui piaceva vedere in viso gli uomini suoi, ne aveva fatto la mostra. Ma dopo, al mancar degli Orsini, pensò di valersi della buona disposizione de' Romagnuoli, e perché molti della va1 dell' Amone solevano ire al soldo, ne fece alcune compagnie che seco condusse a Roma, più di mille. Eran tutti armati di lanciotti, di asta tanto lunga per poter ferire i cavalli e non aver da metter mano alle spade, ed avevano fra loro schioppettieri: ed ogni venti aveva un caporale, cosi che quei cinquanta potevano all' occorrenza combattere una fazione a cavallo : andavano a suono di tamburini con le bandiere davanti. E con uso nuovo li vestì tutti di un gibone alla sua divisa. Il Giustinian, andato una volta al palazzo trovò il papa ed il duca alle finestre sopra la piazza di san Pietro, "a guardare circa 500 fanti di quelli di Romagna tutti vestiti a un modo alla divisa del Duca, e giboni bianchi, con i suoi petti, molta bella gente, li quali voltizzavano atorno la piaza a son de tamburini con le soe bandiere avanti." Anche gli uomini d'arme indossavano un sajone, a quarti gialli e rossi, e nel petto e nella schiena a grandi lettere portavano il nome: CESAR: quella dei gentiluomini della guardia era di broccato d' oro e di velluto.

       Delle milizie parlano i disp. Machìavelli 9 ottobre e 26 diembre 1502, e Giustinian 22 aprile e 3 luglio 1503.

    Nella guerra di Ceri i fanti romagnuoli fecero cosi buona prova, che in luglio Cesare ne ordinò un' altra levata di due mila, quasi tutti da Imola e da Forlì; anche da una di cento uomini d'arme in Faenza riuscì una delle più belle compagnie. Fu notato, che quando i Veneziani diedero forme alle proprie cerne imitarono non solo gli ordini delle fanterie romagnuole ma anche il colore delle lor casacche dimezzate di bianco e rosso.
     Cosi Cesare armava i suoi popoli, quando fino allora tutti i Signori d' Italia li tenevano disarmati per potere, come dicevano, più facilmente comandarli; ma se a' Veneziani avevano giovato i soldati forestieri, Lodovico Sforza avevano perduto. Né solo le milizie del paese istituiva, ma alle ordinanze poneva capi pur del paese anche se nuovi alle armi, come ai governi delle città, affinché i Romagnuoli si avvezzassero a difendere ed a reggere se stessi per l'onor suo. Era ben diverso il modo tenuto da Cesare nel trattare i popoli, da quello tenuto da altri potentati: egli aveva tanta opinione della loro fedeltà, che tutti romagnuoli erano i luogotenenti dello stato d'Urbino. Il memoriale di Lodovico Clodio arciprete di Caldarola mandato da Alessandro per il governo di Camerino, é ben più mite di quello celebre di N. Machiavelli per la ribellione di Arezzo.

       Si confronti la relazione puh. dal Liliì, al n. 81 dei Doc.

    E maggior assegnamento faceva su quelle milizie del paese. Già i nuovi commissari in tutto il territorio delle città loro assegnate, avevano subito fatto scrivere tutti i maschi dalla nascita alla morte.

       "Di poi fece scrivere tute le creauture mascholine da la soua natività per fine a la decrepita et a la morte per tato el territorio de dite tre ciptà". Bernardi.

    Nel luglio del 1502 i comandati avevano avuto lanciotti, con qualche petto e celata: ma per renderli atti ad ogni zuffa, fece commettere per loro alle fabbriche di Brescia corsaletti ed elmetti, ronche balestre e schioppetti per 12000 fanti, ed altri ordegni di guerra: un'armatura completa di un petto, due bracciali, una celata ed un bavero con un lanciotto costava poco più di quattro lire d'allora. Ma quelle armi troppo tardi erano in pronto.

       Ne parla Tommasino de' Bianchi, detto de' Lancellotti, nella cua cronaca modenese ali' anno 1508 : "Et se dice che queste tale arme fusse fatte a Bresa per el ducha Valentin e che el ducha Erchole ge fece promessa a la Signoria, et ha bisognato tore diete arme per essere stato preso el ducha Valentin".

    Intanto in Fermo ed in Cesena faceva fondere colubrine, e palle di ferro anche nelle quali il nome suo voleva impresso: si ha memoria di una che attorno portava una iscrizione che diceva come fosse stata fusa sotto il papa Alessandro VI da Cesare nel 1503.

       Guerra di Campagna di Roma di D' Andrea, 1560.

    Forse per questi suoi bisogni di armi più volte mandava il famigliare suo Catullo Faentino ai Genovesi per riaver le cave di Portoferraio da coloro che le avevano avute in appalto dal signor d' Appiano.

       V. Documenti ai n. 79 e 87.

     In questi giorni in Cesena avevano principio le sessioni della Rota, istituita fin dall'anno prima. I migliori giureconsulti della provincia erano stati chiamati a comporla, e fra essi il greco Tommaso Diplovataccio al quale, sebbene avesse per alcuni anni servito il signor di Pesaro, non sdegnò il duca di affidargli un alto ufficio, quello di procurator fiscale. Di lui resta un'opera manoscritta De praestantia doclorum composta pare nel 1500, quantunque vi si leggano aggiunte fino al 1511; e da lui fu dedicata probabilmente a Cesare che chiama Princeps clementissime : il nome forse fu levato, quando dopo il supplizio di Pandolfo Collenuccio, in Pesaro nessuno più osò di profferirlo. Il Diplovataccio seguì ad Urbino il presidente Antonio dal Monte, e assai cooperò al governo di Romagna; ma é da lamentare che in quel libro egli non faccia che un brevissimo cenno di lui e della sua presidenza.

       Una copia nis. dell' opera, rinvenuta nello scorso secolo, trovasi nella Biblioteca dell' Università di Bologna. Vi si leggono molte notizie intorno ad Alessandro VI ed ai giureconsultì del suo papato.

    Il di 24 giugno per tanto sedettero per la prima volta i giudici della Rota. In questa occasione, nella maggior piazza della città fu data una gran festa: il presidente ed i dottori erano sopra un palco altissimo di più gradi, ornato d'oro e pitture ; vestivano grandi toghe con cappuzzastri in testa foderati di taffetà rosso. 11 presidente era forse vestito, come nel quadro che di lui rimane. È in età di 40 anni al più, con la barba rasa, in capo ha un berretto nero a tre faccie di forma clericale, e sopra la veste nera ha un' ampia cappa rossa con larghe maniche foderate di seta a rabeschi: é davanti ad un tavolo a tappeto verde, sul quale posa un fascio di carte. Da un lato, sul tavolo vedesi una piccola scimia. Il quadro é forse del 1503, probabilmente prima che m. Antonio divenisse vescovo di Città di Castello ; e dicesi di mano di Raffaello Sanzio, allora di venti anni, che fino al 1504 restava in Urbino.

       Il ritratto del card. Dal Monte di L. M. R. Roma 1846.

    — Alla solennità tutto il popolo di Cesena era nella piazza. Furono fatte varie rappresentazioni sacre e profane, e infine comparve un carro trionfale di Cesare e Cleopatra con un coro di fanciulli e fanciulle, che "recitorno tanto bene i loro versi che pianse il presidente e li circostanti d' allegrezza."

       V. la disputa del Braschi al n. 70 nell'App.

    La Rota tenne sessione per quasi due settimane, fino al 5 di luglio. Fu cantata nella chiesa di san Giovanni una messa dal vescovo di Sarsina, Antonio Monaldi riminese, alla quale assistettero i dottori accompagnati dai notari di Cesena con le mazze: e ritornati in palazzo, con gran cerimonie e "trionfo di trombe e bombarde" si lesse un editto sull' amministrazione della giustizia. Era fatto in nome di Cesare dal Consiglio ducale. Vietava ai giudici sotto pene gravissime di accettare presenti, costringere i litiganti a depositare le sportule, e far altre cose che fossero per aggravare o molestare i sudditi ; e vietava pure con aspre minaccle le cosidette trasversali.

       Questo editto perché Dat. Caesenae in Constilo nostro ducali 3 julii a. 1503 fece credere che Cesare allora fosse in Cesena; ma é certo che era in Roma. 11 decreto é dato in nome suo, come quelli del Senato di Milano in nome di Luigi XII. Non mi fu possibile di trovarne il testo.

    Dopo che, la Rota per tre mesi faceva vacanza.
     Con questi ed altri ordinamenti che al duca davano lode di principe giusto, era preparato alla Romagna quel "governo buono" che anche i più acerrimi nemici del nome borgiano dovevano ammirare. La severità di don Remiro di Lorqua aveva fatto la provincia pacifica ed ubbidiente alle leggi, la mitezza di Antonio Dal Monte la faceva perseverante nel dominio di Cesare, sotto il quale viveva quieta dai tumulti delle fazioni e dalle offese dei cacciati signori. E i poeti cantavano la pace ridonata alla Romagna dal "divo Cesare" che faceva rifiorire le arti e le industrie. E il Justolo, finiti i dodici panegirici del suo eroe, componeva un poemetto De croci cultu, che dedicava al segretario Agapito Gerardino. In Faenza erano fatte nuove matricole sull'arte della lana, ed i vasari di Rimini con la terra cottile di Montescudo e di Mondaino facevano vasi "egregiamente pincti e victreati" a concorrenza di quelli di Pesaro, dove pure era "facto più bello lavoro che in terra d' Italia ;" onde anche anni dopo un discepolo del Bramante, il Cesariano, li aveva a celebrare "per la egregieta de le vitreate picture" — descrivendo le fornaci a fuoco continuo che solevano farsi dai figulini di Romagna.

       Dell' Architettura di Vitruvio, Comm. di C. Cesariano, Como 1521.

    I vini cesenati e pesaresi erano ricercati per le mense delle corti. Nella montagna di San Benedetto, sopra Forlì, mandre di cavalle erano allevate dai maestri di stalla del duca. Le gabelle dei singoli Comuni, le bollette di confine restringevano i commerci, ma erano resi più facili dal salvocondotto dei Fiorentini e dei Veneziani, che pure agli stessi Ravennati avevan tolto ogni traffico.

       La convenzione con Venezia rilevasi dai Capitula del 1503 accordati ai Faentini: "Item che gli uomini di detta città conti et. non abbia a pagare di robbe, mercantiej che cavaranno di Venetia o di qualunque altri luoghi di quella, se non come é solito et consueto daì duoi anni avanti, et non più". Bibl. com. di Faenza.

    Signori del mare adriatico da loro appellato veneto, mal poterono vedere da Leonardo da Vinci restaurare il porto Cesenatico.
     In Fano continuava a stampare Jeronimo Soncino. Ai 7 di luglio egli finiva un canzoniere del Petrarca in bellissimi caratteri corsivi, e lo dedicava a Cesare "per dare cognitione a sua excellentia (come diceva) de la sua devotione et servitù verso quella et de quella nova et inusitata stampa." Erano quei caratteri scolpiti da Francesco da Bologna, il migliore artefice che l' Italia vantasse, lo stesso che aveva lavorato per Aldo Manuzio in Venezia. Nella dedica dell'elegantissimo libretto, il Soncino narra che Francesco fu primo inventore e disegnatore di tutte le forme di lettere che mai Aldo abbia stampato ; e anche Aldo in un epigramma premesso all'edizione del Vergilio del 1500 altamente se ne loda; ma non dice perché ne abbandonasse la stamperia, bensì protesta essere la nuova forma di lettera corsiva di Francesco suo e non d'Aldo Romano né d'altri "che astutamente hanno tentato de le altrui penne àdornarse."

       V. la dedica al n. 86 dell' App.

    Probabilmente il Soncino faceva quella protesta, per le inibizioni di contraffare o di imitare le stampe aldine fatte dal doge il 14 novembre e dal papa il 1 7 dicembre 1502: ma pure il valente intagliatore di quella protesta era partecipe, se anni dopo in un libro pubblicato in Bologna amaramente si doleva di avere scolpito per Aldo quei caratteri "de li quali egli non solo in grandissime ricchezze é pervenuto, ma nome immortale presso la posterità s' é vendicato."

       Alcuni sostengono che questo Francesco da Bologna fosse Francesco Raibolini, perché fra le altre ragioni dal Gaurico e dal Leonardi il Francia é pur detto "Franciscus Bononiensis". V. l'opus, di A. Panizzi, Chi era Francesco da Bologna? Londra 1864. Ma basta la sola indicazione delle opere del Francia dal 1500 al 1503 per accertare la diversità. Di più ultimamente fu trovato in Bologna un'altra stampa di Francesco di qualche anno dopo la morte del Francia.

    E moriva povero, quasi sconosciuto, fantasticando la gloria perduta!
     Degli artefici di Romagna, in questi anni, non restano molte notizie. Nella pittura Marco Melozzo, giudicato il più solenne maestro della prospettiva dai lavori fatti in Roma per Sisto IV, aveva lasciato molti discepoli, dei quali il più caro Marco Palmeggiani ; di lui ebbe a dire il Pacioli : che "alle figure sua lo spirito solo par che manchi." Nella chiesa di san Domenico in Forlì fece le storie della cappella di Giacomo Feo, castellano e marito di Caterina Sforza ammazzato dai Forlivesi; ma perché l'odio era ancor grande dopo la cacciata dei Riarì, qualcuno delle famiglie offese ne sfregiò le figure con un pugnale, come ancor oggi si vede. Nell'ottobre del 1500 é in Castrocaro a dipingere una tavola da altare per i Corbizi, né si conosce altra opera di lui fino al 1505, in cui fece un' altra tavola per gli Agostiniani di Forlì. Né minore di lui era Marco Valerio Morolini, del quale nella chiesa della Trinità pure ia Forlì é una gloria dipinta nel 1503 : forse anch'egli discepolo del Melozzo, ne ritrae la maniera del dipingere più grandioso del Palmeggiani nel fare le teste. Un altro pittor forlivese, Giambattista de 'Rositi, nel marzo del 1500 lavorava a Velletri. Leon Cobelli, vecchiissimo, era morto in Forlì il 14 maggio del 1500. In Faenza vivevano Carlo Mengari, e Giambattista Bertucci, detto il Raffaello delle Romagne, al quale assomiglia nella prima maniera, per disegno esatto e vaghe tinte: in un rogito dei 22 gennaio 1503, il Bertucci assumeva di fare nella Confraternita di sant'Antonio in Faenza una madonna per tavola dell'a1tar grande, così bella (si dice nell' atto) come quella che ebbe a fare per Nicolo Paganelli, già agente generale del Manfredi. Ma nessuno di loro lasciava una scuola, superati da Francesco Raibolini, al quale accorrevano Lorenzo Costa da Ferrara, Timoteo dalla Vite da Urbino, Girolamo Marchesi da Cotignola, Bartolomeo Ramenghi da Bagnacavallo, Innocenzo Francucci da Imola. Di scultura resta il monumento che nella chiesa dei Serviti in Forlì Luffo Numai fece costrurre per sé e per la moglie nel 1502 : i bassorilievi sono di due diversi scultori, e inelegante ne é l' architettura con gli ornamenti di rilievo messi ad oro ed a colori secondo il gusto del tempo.
     Dei nuovi edifici costruiti, frai quali il palazzo della Rota ed il Ginnasio, non é fatto cenno nel Diario cesenate, come di molti altri ordinati da Cesare a Leonardo da Vinci o a Donato Bramante: la chiesa del Piratello fuori d' Imola sulla strada bolognese porta ancora l' arme borgiana. Sono in Romagna alcune chiese che si vogliono edificate dal Bramante, e fra tutte principale é il duomo di Faenza, che incominciato nel 1474 non era finito nel 1510. Il grande architetto, dopo i lavori del giubileo, forse fu fra gli artisti che seguirono il duca nella seconda e nella terza guerra di Romagna, e forse — non sapendosi altrove occupato — vi fece il disegno del duomo faentino, disegno che poi servi anche per quelli di Bertinoro e di Bagnacavallo ; e veramente se non la esecuzione, almeno sue ne sembrano le proporzioni generali.

       Il can. A. Stracchi, nelle Mem. star, del duomo di Faenza, 1837 crede che il Bramante ne fornisse il disegno al vescovo de' Manfredi prima del 1478. È credibile ?

    Sono pure bramantesche le chiese di santo Stefano in Faenza e di santa Maria a Monte fuor di Cesena. Né di Leonardo si hanno altre notizie certe. Potrebbe credersi che egli fosse l'ingegnere di quella macchina bellica, che il duca fece costrurre per assediar Ceri, se in un dispaccio del Giustinian non si dicesse che l' autore peri nell'esperimento di essa; ma probabilmente l'orator veneto fu in errore, poiché appunto all' aver fatto applicare quella macchina il duca in una sua lettera attribuì la resa della fortezza.

       V. i dispacci Giustinian 12 marzo 1503 e seg. — Nella cronaca ms. del Bernardi é rifer. una lettera del duca 25 aprile 1503 nella quale dice di aver fatto "aplicare certe nove machine et scoperto le cave".

    Ma é certo, che il Vinci a metà di luglio aveva lasciato il servizio di Cesare, non perché avesse a temere che anche per lui nessuna opera si finisse, come gli era accaduto con Lodovico Sforza, ma perché richiamato in Firenze da Pier Soderini ; il quale dopo avere riordinata la repubblica, le restituiva tutti gli artisti suoi. Ed egli partiva dal duca per andare ingegnere al campo sotto Pisa (dove era ai 24 di luglio) — mentre appunto i Perugini deliberavano di spendere mille ducati d' oro per una grande statua a cavallo di bronzo che volevano erigere a Cesare, nella piazza maggiore della città. Almeno Antonio da Sangallo, che pur ritornava in Firenze, per viaggio trovava tempo di disegnargli la rocca di Montefiascone, prima di lasciarlo per sempre.
     Frai disegni di Leonardo uno, in carta bianca, reca una figura di un giovane capitano, di cui la testa é diligentemente condotta con matita a due colori, ed il berretto e l' abito sono appena indicati da poche linee. È il ritratto di Cesare Borgia.

       V. il n. 233 dei Disegni di Leonardo poss. da G. Vallardì, Milano 1855.

    In esso si riscontra tutta la somiglianzà con quello del Vaticano, creduto di Raffaello da Urbino. È un' alta figura a mezzo busto ; l' agile persona fortissima é chiusa in una cappa di raso nero serrata davanti da una fila di piccoli bottoni d'argento, e dalle spalle quadrate escono le maniche con rigonfi a striscio bianche strette attorno da altre quattro nere: dai bottoni aperti sul petto, vedesi luccicare un giaco di fittissima maglia di acciajo. La testa é animata, espressiva, i biondi capelli folti discendono sulle spalle, e la barba pur bionda é leggermente increspata sul mento: la fisonomia é regolare, un po' allungata alla fronte, gli occhi sono piccoli e chiari ; la faccia piuttosto che cupa, é meditabonda, e la bocca chiusa é atteggiata ad uu confidente sorriso. Chi del quadro fosse autore non si conosce, ma certamente artista sommo, se poté credersi Raffaello Sanzio; ma forse fu Leonardo. Il Pinturicchio, di nuovo assunto ai servizi di Cesare, dai primi mesi del 1501 non lavorò per lui; e il 29 agosto 1502 fece il contratto col card. Piccolomini per la libreria di Siena, dove era a dipingere ancor nell' aprile di quest' anno.

    VI.

     Mentre la Romagna cosi ordinavasi, sin dai primi di giugno si diceva, che Cesare era per ritornarvi non solo per assicurare le vecchie città del dominio ma anche per prendere possesso delle nuove che a lui volevano darsi. Fantasie infinite di grandezza gli erano attribuite ; e se nelle loro cabale gli astrologi lo vantavano figlio della fortuna,

       "Et astrologo et nigromante el descrivevano filium Fortunae" Matarazzo.

    dai politici la cagione de' suoi buoni successi era trovata nella certezza che le offese dei nemid non potevano nuocergli e che non erano per mancargli i favori del papa e del re. Il card. Francesco Soderini, fratello del gonfaloniere di Firenze, ultimamente eletto, soleva dire che "fra le laudi che si potevano dare di grande uomo al papa e al duca, era questa : Che siano conoscitori della occasione, e che la sappiano usare benissimo." E il Machiavelli aggiungeva, che tale opinione era approvata dalla esperienza delle cose condotte da loro con la opportunità.

       Del modo dì trattare i popoli della Valdìchiana.

    I dispacci degli ambasciatori come le notizie dei cronisti, son pieni di questi sospetti; e gli uni dicono che il papa tratta con gli Spagnuoli vincenti di far avere al figliuolo il regno di Sicilia, gli altri temono che egli aspiri a quello di Toscana. Nel frammento del discorso citato, il grande segretario fiorentino scriveva che "avendo (il duca) sempre stimato poco i Veneziani ed i Fiorentini meno.... conviene che e' pensi di farsi tanto stato in Italia che faccia da un altro potentato la sua amicizia desiderabile," ed era per concluderne che egli aspirasse al dominio della Toscana "come più propinquo ed atto a farne un regno con gli altri stati che tiene." Ma forse nel giudizio hanno troppa parte le paure de' suoi coetanei ; anche il Buonaccorsi nel diario se ne mostra compreso. Probabilmente le voci della corona che si diceva aversi Cesare proposto, si divulgarono alle pratiche incominciate da Alessandro VI per erigere il ducato di Romagna in regno di Adria, che già nel 1379 Clemente VII aveva instituito per un principe di Angiò. Ma quel titolo regio non pare che importasse nuovi acquisti; Città di Castello e Perugia erano state rimesse alla Chiesa, e di Fermo che il duca desiderava, il papa volle fare una signoria per il piccolo Rodrigo di Biseglie figliuolo di Lucrezia — in compenso di Sermoneta.

       "In principio d' agosto mandò il Papa che se chiamasse il Signore Roderico Borgia figlio della Signora Lucrezia dalla città per Signore". Annali di Fermo.

    Il papa voleva restituire alla Chiesa tutte le terre della Campagna; e perché dopo la resa di Ceri, in Palestrina era rimasto Francesco Colonna, decise che egli pure gli lasciasse quel castello, sebbene marito di una Borgia. Così Alessandro VI si preparava a compiere' il proposito del suo papato di sradicare i baroni dalle terre romane, e di ritornarle tutte alla "libertà chiesastica."
     Ma l' andata di Cesare in Romagna fu impedita dalla nuova spedizione che Luigi XII mandava nel Regno in soccorso de' suoi assediati in Gaeta. Per i patti di Genova egli pure aveva da seguirla, e già aveva lasciato partire per il campo francese alcuni de' suoi capitani, il Fracasso ed il conte della Mirandola ; e alla metà di luglio aveva raccolto nel territorio di Perugia 3,500 cavalli, e vi avevano da andare i 2,000 fanti levati in Romagna. Al vedere tanto esercito ai confini, il Buonaccorsi dubitava che Cesare "come i Francesi fussino passati avanti potessi subito assaltare la città" a questo consigliato da Consalvo Ferrando; per contro il Matarazzo diceva che egli aveva raccolto l'esercito del Perugino per prevenire la guerra che aveva inteso voler muovergli i signori cacciati "per lo favore che avevano dal re di Francia la signoria di Siena e quella di Fiorenza." E forse era nel vero. Alla corte del re i sospetti che il papa ed il duca trattassero accordi con gli Spagnuoli, diffusi dai Veneziani e dai Fiorentini, erano continui e persistenti ; ed i signori cacciati se ne valevano per chiedere al re il consenso di far contro il duca. E più di tutti era in isperanza Guidobaldo di Urbino, che il marchese di Mantova suo cognato un de'capitani dei Francesi, gli avrebbe dato assai autorità per un secondo ritorno. In questi giorni furono carcerati in Urbino alcuni cittadini che avevan ricevuto lettere di lui, nelle quali esortava i popoli alla costanza nella fede verso di sé, e prometteva che sarebbe fra loro, fra pochi di, il 20 di luglio. E in altra sua lettera del 10 commetteva ad un suo agente in Firenze di chiedere per lui al gonfaloniere, se occorrendogli di passar in persona per la Toscana per l' interesse dello stato suo, n' avesse avuto il passo libero e sicuro, e posto che non pubblicamente si potesse, almeno sconosciuto e segreto.

       Questa lettera a Federico Bonaventura fu veduta dal Baldi, che la riassume nella Vita di Guidobaldo.

    Ignorasi l' esito della pratica, forse sventata dal card. Soderini, che appunto il dì 13, ritornato di Francia, in S. Maria del Fiore dal commissario pontificio, alla presenza dei Signori e del fratello gonfaloniere, riceveva il rosso berretto.

       V. Elogia dar. vir. Pisanae Academiae, di S. M. Fabrucci.

     Frattanto il papa nel concistoro del 28 luglio solennemente annunziava la partenza di Cesare per il campo, ed il 7 agosto all'orator veneto diceva che sarebbe avvenuta fra due o tre di. Faceva un caldo grandissino, e in Roma come in tutte le città d'Italia infieriva una peste che ogni giorno di qualche morte funestava la città ; il 1° del mese ne era colpito il card. Borgia di Monreale, arcivescovo di Ferrara. In luogo di lui, il di 9 Alessandro faceva stendere una bolla, per cui nominava il card. d'Este amministratore perpetuo di quella diocesi ; ma non doveva spedirla.

       Ne dà notizia un breve di Pio III al popolo di Ferrara dell' 8 ottobre 1503, che si conserva in queir Archivio comunale.

    II giorno dopo egli era colto dal morbo, e con lui anche il duca. Solo il di 13 si seppe per Roma che la lor malattia era gravissima. Il 15 sopravvenne al papa la febbre terzana, ed i medici cercarono di mitigarla con salassi e di rinfrescarla con manna; e perché quella del duca era più forte (si diceva avesse i parossismi subentranti) lo immersero in un gran vaso d' acqua fredda : gli si distaccò la pelle da tutto il corpo. Il 18 il papa mori : e Cesare mezzo vivo si poté alzare dal letto, ritirarsi in Castel S. Angelo, dove già tutti quelli della sua famiglia si erano ritirati. Ma la città era quieta, e gridavasi per le vie Duca, Duca: il borgo era pieno delle fanterie di don Michele, il quale ne fece la mostra per ordine del Collegio dei cardinali.
     Come era uso della corte, la camera del defunto fu messa a ruba dai servi di palazzo ; e perché la bara era troppo piccola, il cadavere già gonfio ed annerito vi fu spinto a forza di pugni: cosi esposto in S. Pietro, andarono i romani a baciargli il piede. Fu allora, tra quella folla che attorniava il feretro, e che alla fiamma dei ceri vedeva farsi ognor più nera la faccia del morto, che prima si divulgò la voce che Alessandro VI fosse stato attossicato : pure, né il Burcardo che tante notizie & nel Diario, né alcuno degli ambasciatori in Roma la riportano. Pochi giorni prima della malattia, il papa ed il duca con vari prelati (fu la sera del 5) erano stati ad una vigna del card. Adriano da Corneto ad una cena, cui il segretario pontificio li aveva invitati. Dalla cena alla malattia passarono cinque di, e tredici alla morte ; ma pure quella notizia diffusa alla vista del defunto dié credito al sospetto. La prima versione, quale si trova narrata in qualche cronaca fu questa, che in quella cena il papa ed il duca con altri prelati del seguito fossero attossicati, senza dire come: nella cronaca orvietana di Tommaso di Silvestro ai 22 di agosto si ricorda "come lo prefato papa Alexandro era morto lo venerdì passato, con certi altri prelati et veschovi ; et come erano stati attossicati ad uno convito quale haviva facto fare messer Andreano cardinale." Ma non tardò ad udirsi la seconda versione, corretta ed ampliata come richiedeva la mala fama dei Borgia. E la sinistra nuova, che al principio stentava a trovar posto in un umile diario, ben presto si diffuse. In una lettera del 10 di novembre di Pier Martire da Anghiera, che era a Segovia alla corte di Spagna, si racconta distesamente che il veleno era stato messo in un vaso per ordine del pontefice, e che per errore del coppiere fu dato ad Alessandro ed a Cesare, che si salvò perché più giovane sostenne i medicamenti.

       Le giudicarono già una favola il Raynald sulla fede dei Diari romani, il Muratori su quella dei dispacci di B. Constabile ferrarese e N. Dormano fiorentino, e il Gar su quella de' dispacci del Giustinian ; ma pure anche da qualche scrittore moderno fu creduta vera! — II Martire nella cit. Jet. dice di Cesare: "Inter mularum viscera interemptarum, jacere adhuc dicitur obvolutus ", ai 10 di novembre! In vece il Giovio udì narrare al card. di Corneto che il duca fu messo in un gran vaso d'acqua fredda. Fino nella cura é diverso il racconto.

    E altre particolarità furono aggiunte dagli storici, dal Bembo, dal Guicciardini e dal Giovio. Quando consolava Lucrezia della morte del suo "gran padre," il Bembo non sapeva che poi avrebbe visto "la mente e volontà divina essere presente stata" nella imprudenza del coppiere che al padre ed al fratello di lei dié a bere il veleno preparato per il cardinale. Costantemente ripetuta per anni e anni, perché fu "secondo la fama più comune," il Guicciardini le dié posto nella solenne storia; e perché fosse meglio creduta, citò nomi di cardinali e di prelati con veleno uccisi dal papa o dal duca, per toglier loro le ricchezze. E il Giovio su essa più volte, come poté, esercitò la sua penna di ferro.
     Discorrendo un mese dopo con N. Machiavelli, il duca gli disse che "avea pensato a tutto quello che potesse nascere morendo il papa, e a tutto aveva trovato rimedio, eccetto che non pensò mai in su la sua morte di stare ancora lui per morire." E questa fu la causa della sua ruina. Egli instruito dall'esempio di Pier Lodovico, che morto Calisto III perdette in un di il principato, poté restare in Roma, nel palazzo, benché mezzo vivo; ma allora non evitò la sorte del suo maggiore, se non per farsi più degno di compassione.
     Dei segretari di Cesare, era il primo Agapito Gerardino di Amelia, di una famiglia che aveva dato molti magistrati ai pontefici. Il suo nome si legge in tutti gli atti principali del dominio, da lui redatti o stipulati ; e qualche volta, quando la cosa lo richiedeva, fu procuratore del duca a Fano, a Perugia, a Siena o per prendere possesso delle nuove città o per concludere leghe; a lui qualche onore era toccato, come quando i Perugini alla cacciata dei Baglioni lo ascrissero fra i loro cittadini e gentiluomini. Ma né quegli atti, né quelle commissioni bastano a farne conoscere la personalità. È la lingua cortigiana quella che egli scrive, e che poi Vincenzo Calmeta diceva migliore di ogni altra, perché parlata in Corte di Roma; ruvidamente forte. Se ne riscontrano le formali parole ne' lunghi discorsi fatti del duca col Soderini od il Machiavelli, durante le loro ambascierie. Ma de' grandi fatti compiuti sembra più ammiratore che consigliere, felice quando può appartarsi dalle grandezze della corte in un fondo in riva al Tevere, che egli coltiva, della qual romana semplicità é lodato dal panegirista Justolo. Ma pure, affezionato com'era alla parte Colonnese, dalle parole dette al segretario fiorentino si comprende come la distruzione degli Orsini fosse da lui desiderata. E forse, nel pericolo in cui era Cesare alla morte del papa, solo, in mezzo a tanti baroni offesi, con l' esercito spagnuolo vicino ed il francese ancora lontano, gli diede il consiglio di riconciliarsi con i Colonna, restituitesi le terre loro, per opprimere insieme gli Orsini. Erano i nemici più temibili perché più vicini, e subito il di 20 agosto avevano tentato in Roma un movimento, onde don Michele aveva fatto por fuoco ai loro palazzi di Montegiordano. E Cesare ne accettò il consiglio, anche perché gli oratori e particolarmente il Giustinian, istigando gli Orsini, dai tumulti avvenuti volevano trar pretesto per fargli mancare la riputazione presso il Collegio dei cardinali; così, dopo quel tumulto egli, ricevendoli a letto, ancora ammalato a morte, ebbe a dolersi del sospetto che da lui si volesse impedire la elezione del nuovo pontefice. Incominciate le pratiche al principio della malattia, il 22 Prospero Colonna era in Roma a formare col duca i capitoli dell'accordo, dei quali primo era un parentado col piccolo Rodrigo promesso ad una fanciulla di quella casa. Nello stesso dì, il Collegio radunato alla Minerva gli confermava tutte le dignità avute sino alla nomina del nuovo pontefice.

       Se ne ha notizia da una lettera ducale, data in Roma il 22 agosto 1503 cit. nelle cronache romagnuole. I dispacci del Giustinian non ne fanno cenno.

     Così il duca poteva dirsi assicurato dagli Orsini, i quali benché ritornassero a Roma non potevano restarvi, per timore di non offenderlo ; e Fabio e Lodovico che il 23 ricomparvero a Montegiordano, nella notte dovettero uscire dalla città, dopo aver saccheggiato alcune case di cortigiani. Intanto dal Perugino gli giungevano un 200 cavalli che faceva accampare nei prati; ma i 2,000 fanti di Romagna che Jeronimo Remolino conduceva, si fermavano in Orvieto, forse per ordine suo, perché non li poteva ricevere in città. Secondo la consuetudine, durante il conclave nessun armato aveva da rimanere in Roma; e per quei giorni il duca doveva con l'esercito ritirarsi a Nepi, come anche chiedevano gli oratori.
     Ma intanto l' accordo coi Colonnesi, perché concluso senza darne avviso agli ambasciatori di Francia, fece credere che egli si fosse pure dato agli Spagnuoli. Avendone fatto lagnanze mons. di Trans (che pure ai primi sospetti aveva stimolato gli Orsini a ritornare a Roma), egli protestò che nessuna capitolazione da lui erasi fatta con i Reali di Spagna, e che in quella dei Colonnesi aveva riservato il re della difesa, come era debito suo ; anzi fece offerta di servirlo con tutto il suo esercito. Allora in un atto del 1° settembre gli ambasciatori ed il cardinale di San Severino gli promisero che il re di Francia avrebbe avuto in protezione lui con tutti i suoi stati e lo avrebbe aiutato a conservarli ed a ricuperare contro chiunque tutti quelli che avesse perduto.

       V. l'atto al n. 88 dei Documenti.

    E gli ambasciatori mandarono copie dell'atto a tutti i confederati del re in Italia, perché si astenessero dal favorire i nemici di Cesare, che già da ogni parte si erano mossi per offenderlo. E il giorno dopo, 2, lo accompagnarono fuori di Roma, portato su una barra ancora ammalato. Con l'esercito lo segui a Nepi il fratello don Jofré, non riconciliato con la moglie Sancia, la quale tolta da Castel S. Angelo, dove per ordine del padre era rinchiusa, fu da Prospero Colonna ricondotta a Napoli.
     Intanto la notizia della morte di Alessandro VI e della malattia del duca faceva scoprire i loro nemici, mancare i loro amici. Giovan Bentivogli mandò famigli per le case de' cittadini a dar "la migliore novella della morte del papa." Ercole d'Este il 24 agosto commetteva all' orator suo a Milano di far sapere segretamente al governatore che egli non l'aveva udita con dispiacere, perché da Alessandro, fuor della dote, non era stato compiaciuto in cosa alcuna né grande né piccola per colpa del duca di Romagna, che con lui si era contenuto da estraneo ;

       "Per non bavere fatto de Nui quello che haveria voluto." Let. 24 agosto 1503."

    e diceva ciò per scolparsi del sospetto che anch'egli, come Cesare, fosse per inclinare a Spagna. Ma poi, passata la paura, il 28 scrisse all' orator di Roma lettere di congratulazione per la salute che Cesare ricuperava; e perché Cesare prima di recarsi a Nepi l'aveva pregato di inviare alcuno dei suoi segretari in Romagna per mantenere in fede quei popoli, vi mandava Pandolfo Collenuccio. I Veneziani subito danno uomini a Guidobaldo, che il 24 penetrò in S. Leo ; ed i Fiorentini lasciano che il Baglioni con cento loro cavalli prenda il castel della Magione, dove l' anno prima si era fatta la famosa lega, e si presenti sotto le mura di Perugia. E altri soldati danno a Jacopo d'Appiano perché ritorni in Piombino. E in pochi di tutti riprendono gli stati perduti. Il governatore Antonio dal Monte, che era in Urbino, da le armi ai cittadini che per qualche di difendono la città dai villani che a frotte discendono dal Montefeltro ; ma la città é presa, e il governatore si ritira in Cesena. Nel tumulto é ammazzato il luogotenente Luca Scaglione faentino, e nelle lor case saccheggiate sono cercati e morti i cittadini ducheschi, delle principali famiglie di Urbino.

       II Baldi ne vuoi tacere i nomi "non dovendo macchiare di eterna infamia famiglie per altro nobili ed onorate, e nuocere a' buoni nipoti per le scelleratezze degli avi".

    Guidobaldo vi entra a due ore di notte del 28. E tutto lo stato é perduto, eccetto la rocca del Tavoleto. Gian Paolo, non potendo entrare in Perugia difesa dagli Oddi, va ad aiutare Gian Maria Varano che con lui ed il signor di Matelica rientra in Camerino: poi il 9 settembre, con maggiori forze ritorna sotto Perugia. Il governatore papale Tommaso dall' Aste vescovo di Forli disceso sulla piazza esorta i cittadini a prender le armi contro il ribelle, e per quattro ore alle porte, per le vie, si combatte; ma Carlo Baglioni e gli Oddi debbono fuggire. Anche i nipoti di Vitellozzo rientrano in Città di Castello . e fan portare in processione per le strade un vitello d'oro. All'Appiano ricevuto da' suoi in Piombino, benché la rocca si tenga per il duca, i Genovesi il 13 settembre scrivono lettere di congratulazione per il ricuperato dominio.

       V. la lettera al n. 91 dei Documenti.

     Nella grande rovina soltanto la Romagna era salva. Il 27 agosto in Cesena, e poi in tutte le altre città, un trombetto annunciava per le vie la lettera del duca, che notificava ai popoli avergli il collegio dei cardinali confermato le dignità sue, e li esortava alla difesa dello stato. Ma fino a quel di nessuno dei cacciati signori si era ancor presentato per rientrare, e il governatore, dopo la perdita di Urbino, aveva atteso in Cesena a dar ordine alla difesa. Né i Veneziani, né i Fiorentini pareva che volessero entrare in Romagna. per rispetto al re di Francia, alla cui protezione era Cesare raccomandato ; ma erano pronti piuttosto a dare aiuti ai signori che ne li richiedevano. In una istruzione a G. B. Ridolfi commissario a Castrocaro i Dieci lo avvertono che in qualunque impresa non si ha da offendere Cesare ancor vivo e amico di Francia ;

       "E dato etiam che morisse é da considerare che gli ha una figliuola in Francia, che é franzese, e vorranno forse far reda di quelli stati." Istruz. dei Dieci, 22 agosto 1503.

    ma gli commettono, se i Veneziani entrano in Romagna, di ovviare che non rimettano Antonio Ordelaffi in Forlì, dove desiderano Ottaviano Riario, confortando quei cittadini alla libertà, e che non rimettano in Faenza Francesco di Galeotto Manfredi cugino d'Astorre, valendosi dei Naldi e massime di Dionigi:mase i due sono rimessi, gli ingiungono di non farseli nemici. Cosi gelosi gli uni degli altri, i Fiorentini volevano che il dominio della Romagna non cadesse sotto i Veneziani, ma non osavano di contrastarlo loro con la forza. Frattanto alla notizia della morte di Alessandro, Bartolomeo d'Alviano era partito da Venezia senza chiederne licenza alla Signoria dicendo di volere andare a Roma prima che il conclave fosse serrato. E giunto a Ravenna, vi trovava Pandolfo Malatesta desideroso di ritentare il ritorno, che già per mare Giovanni Sforza aveva impreso ; onde per aprirsi una via verso Urbino, con un centinaio di cavalli della sua compagnia condusse il Malatesta sotto Rimini, e si provò a metterlo nei borghi, divisi dalla Marecchia dal resto della città. -Ma quel colpo ardito dispiacque ai Veneziani, i quali subitamente il 29 d'agosto scrissero ai rettori di Ravenna, perché mandato un messo a Bartolomeo gli imponessero di ritornare, non volendo che egli si mettesse in impresa alcuna né in nome suo né di altri ;

       "Per quanto l' ha cara la gratia de la Signoria". Senatus Secreta 29 agosto 1503.

    ma nella stessa occasione facevano intendere di avere udita con piacere la relazione fatta da un Marco da Rimini e commettevano ai rettori di far buona accoglienza alle offerte che venissero da quei cittadini. Già in quel dì stesso 29, il tentativo di Pandolfo era fallito. Ma presto gli scrupoli cessarono. Il 1° settembre, con la scusa che era stata tolta una lettera ad un cavallaro, occuparono il Porto Cesenatico, donde si ritirò Dionigi di Naldo che vi era a guardia, non potendo difenderlo. E il 3 misero lo Sforza in Pesaro, e tre giorni dopo il Malatesta in Rimini, e si prepararono ad assalire Cesena, assieme ai Feltresi di Guidobaldo.
     In quell'estremo pericolo, il governatore aveva raccolto in Cesena un migliaio di buoni fanti, cui aggiunti si erano quelli di Dionigi di Naldo, con i quali qualunque assalto si poteva respingere: erano andati a trovarlo anche molte lance del paese, benché loro non potesse dar denari, per essere (come dicevano) alla difesa del signore.

       V. la lettera 8 settembre 1503 nei Docum. al n. 90.

    Mentre adunque i Veneziani occupavano Porto Cesenatico, Guidobaldo, senza curar di prendere quelle sue terre che ancora non gli si erano arrese, lasciava che i suoi discendessero in Romagna. Palmerio Tiberti conduceva un 150 cavalli, e 700 fanti Sebastiano Brancaleoni priore del monastero di Morimondo, che fattosi capitano traeva seco i frati ed i villani suoi vassalli.

       Un breve di Giulio II al vescovo di Urbino assolse e dispensò i sacerdoti regolari e secolari che presero le armi eccettuata l'abilità all'altare per tutti meno il Brancaleoni. Della zecca di Subbio del prev. R. Reposati, Bologna 1772.

    Il 5 prendevano Sant'Arcangelo, e respinti da Savignano mandavano avanti i cavalli a devastare il contado fin sotto le mura di Cesena; ma il 7 contro loro uscivano i ducali, che li ponevano in rotta, e li inseguivano per buon tratto scacciandoli da Carpineto. La vittoria ingagliardì talmente i soldati, che subito volevano spingersi a Rimini e cacciarne Pandolfo che il dì prima vi era entrato ; ma il governatore a stento li conteneva, per non lasciare Cesena esposta ad un assalto dei Veneziani che dal Porto la minacciavano. Di questa fazione, il di dopo, Antonio Dal Monte dié avviso al commissario Cristoforo della Torre che era in Forlì. Né l'assalto tardò a farsi. I Veneziani avevano in Cesena alcuni cittadini a loro affezionati, per mezzo dei quali speravano di avere aperte le porte : e nella notte dall'll al 12 il provveditore Jacopo Veniero con l'esercito si accostò alle mura; ma perché troppo fosse il ritardo, o perché il trattato si scoprisse, i ducali vegliarono alle mura fino all' alba, e usciti ruppero i veneti a Martorano, con grande strage. Andarono poi gli oratori della Comunità di Cesena a Ravenna a dolersi con quei rettori, che la Signoria facesse guerra al duca ed ai Cesenati senza cagione alcuna; ma i rettori risposero che la Signoria non intendeva prendere Cesena per sé ma voleva liberarla dalla soggezione del duca, nemico della repubblica, e si dolsero che a Martorano un loro conestabile fosse stato ucciso da un balestriere con una freccia avvelenata, e la mostrarono agli oratori minacciando vendetta. Dall'altra parte, il Bentivogli aveva mandato fanti e cavalli a Castelguelfo per fare spalla ai fuorusciti ; ma né Ottaviano Riario fu ricevuto in Imola, né Francesco Manfredi in Faenza, benché con 40 de'suoi si presentasse alle porte della città.
     Salvata cosi la Romagna dal primo impeto, il governatore attese a dar ordini, affinché la discordia delle fazioni non distogliesse i cittadini dall'ubbidienza del duca. Non favorendo più una parte che l'altra, guelfi e ghibellini avevano trovato ugual grazia presso Cesare ; ma in quei giorni di pericolo, un incitamento di nemici, un desiderio della libertà chiesastica o degli antichi signori poteva far mancare la confidenza nel duca. Quindi il governatore, fatte riparare le fortificazioni, fece in Cesena proscrivere a suon di tromba tre cittadini che avevano gridato S. Marco, e sotto pena del capo proibì che altri gridasse Chiesa! E mandò il commissario, Pietro Remires, a rivisitare le rocche. In Forlì, perché alcuni cittadini erano sospetti di parteggiare per Antonio Ordelaffi, il 12 Luffo Numai che era stato segretario di Pino e di Girolamo Riario, fu sostenuto nella cittadella; e in quella di Cesena furono condotti due de' Moratini, Bartolomeo ed il conte Baldassare. Dei Riarì per il troppo odio che vi avevano lasciato, non si aveva alcun sospetto. E perché in Imola era Guido Vaini capo de' ghibellini, Cesare da Nepi vi mandò l' altro suo gentiluomo Giovanni Sassatelli, per mantenere in fede i guelfi.

       Di questa commissione é parola negli Elogi di illustri imolesi di T. Papotti," Imola 1830.

     Alla notizia della capitolazione fatta da Cesare con gli ambasciatori di Francia (comunicata ai confederati del re con tarde lettere del 5 settembre) i Veneziani desistettero dalle offese, non senza dolersi che loro fossero impedite. Allora Ercole d'Este, dopo avere fatto offrire al maggiordomo ducale 200 cavalli, il 15 scriveva altre lettere al duca rallegrandosi con lui della ricuperata salute e della capitolazione fatta, perché sperava che l' aderenza del re gli sarebbe di onore e di aiuto.

       La minuta della lettera é al n. 92 dei Docum.

    Anche i Fiorentini per gelosia dei Veneziani facevano offerte. I signori ritornati tentavano di fare una lega per la comune loro difesa: proposta prima da Pandolfo Malatesta a Guidobaldo di Urbino, se ne facevano capi G. B. Baglioni e Bartolomeo d'Alviano, il quale — avuta finalmente licenza di partire da Ravenna —, il 16 settembre era in Perugia a firmare l' atto della procura per concludere quella lega con tutti i signori ritornati in istato, di Urbino Sinigallia Rimini Pesare Camerino e Città di Castello: é notevole che nel mandato non si dica aqualfinesia l'accordo né si nomini il duca.

       Fin dall' 8 settembre Pandolfo Malatesta aveva fatto procura a Carlo suo fratello per presentarsi al duca d' Urbino e far lega e confederazione con lui: l'atto conservasi nella Collezione Zanotti nella Biblioteca com. di Rimini. — II mandato perugino del 16 settembre é pubbl. dal Fabretti.

    Probabilmente i Veneziani la favorivano, ma i Fiorentini pregati di aderirvi si ricusarono ; anzi fecero sapere al duca il rifiuto gli ri nnovarono le proteste che erano per aiutarlo in quanto gli occorreva in Romagna. Saputa l'offerta, Cesare li ringraziò con una lettera, nella quale voleva che si persuadessero "indubitatamente" che gli aiuti che gli avrebbero prestato erano non meno per lui che per loro medesimi.

       V. la lettera ducale dei 22 settembre nel n. 93 dei Docum.

     Intanto in Roma era per serrarsi il conclave per la elezione del nuovo pontefice. I tre maggiori cardinali che si dividevano i voti, erano Sforza Roano e della Rovere tutti e tre giunti di Francia, precedendo di pochi giorni l'esercito che con mons. della Trimoglia ed il marchese di Mantova aveva da aspettare nella Campagna la nomina del papa, prima di recarsi nel Regno; ai due capitani Cesare mandò da Nepi lettere e doni. Un valletto aveva portato ai cardinali una istruzione di Luigi scritta di tutto suo pugno per pregarli di dare i voti "in gratificazion sua" al card. di Roano, e un messo di Ferdinando li chiedeva per il card. Carvajal di Santa Croce, che pure (se non poteva eleggersi lo Sforza) era desiderato da Massimiliano ; ma il francese era "sconciato" dal genovese e questi alla sua volta dal milanese : né i cardinali spagnuoli potevano fare un papa, ma per il loro numero lo potevano impedire. In queste pratiche, Cesare, cercando un papa amico, e non potendo fare il card. di Roano che aveva italiani e spagnuoli avversi, raccomandò ai 10 o 12 suoi cardinali affezionati di eleggere il card. Piccolomini nipote di Pio II. costante fautore di Alessandro VI, né dall' una né dall' altra fazione avversato, che prometteva di confermargli il vicariato di Romagna ed il gonfalonierato della Chiesa. Cosi celebrate le esequie del morto (di cui allora "vituperosi epitafii" si sparsero per la città) i cardinali si raccolsero in conclave il 16 settembre, ed il 22 elessero Pio III. Fino dai suoi primi atti, il nuovo pontefice si mostrò favorevole al duca; e all' oratore veneto che fu a visitarlo il 23, disse dispiacergli che la Signoria avesse cercato di fargli rivoltare la Romagna : e perché il Giustinian gli raccomandava i signori spogliati "tristamente" da Cesare, gli rispose che "Dio li aveva voluti castigar anchor con un tristo instrumento." E negò al card. della Rovere un breve per il nipote di Sinigallia, né ascoltò le preghiere del card. Riario per i nipoti suoi d' Imola e di Forlì. Per sventare la lega che trattavasi dal Baglioni e dall'Alviano, mandava un commissario a Perugia con un breve del 25 ad imporre agli autori di essa di desistere dalle offese contro le città della Chiesa e contro il duca. E altri commissari mandava in Romagna con brevi del 26 a raccomandare obbedienza ai popoli.

       La notizia del breve 26 sett. 1503 é nelle Mem. Caes. del Braschi. — Del 7 ottobre é un rescritto di Cesare ad un memoriale dei fratelli della Volpe. MS. Ferri, nella Bibl. com. d' Imola.

    Così assicurato, Cesare la sera del 3 ottobre rientrava in Roma con una parte dell' esercito, accompagnato dai card. Sforza Roano Sanseverino ed Albret, e andava ad abitare nel palazzo di S. Clemente. Era ancora ammalato, e avea la faccia livida, senza pelle; ma la speranza lo faceva forte ed ardito : onde il Giustinian, che già lo aveva giudicato perduto, dispiacente notava nei dispacci : "Non sta tanto mal quanto si crede, parla con arroganza, e dice che presto tornerà in possesso di tutto il suo." E, dopo l'incoronazione, Pio III con una bolla dell'8 di ottobre lo confermava vicario e gonfaloniere.

       La bolla é rammentata dal Vecchiazzani. Anche il Diario Caes. sotto il 12 ottobre cita lettere di Pio III, per cui i Cesenati prestarono nuovo giuramento di fedeltà.

    Cosi al "figlio della fortuna" la fortuna voleva ancora una volta sorridere.
     E per dargli speranza giungevano ogni di buone nuove dalla Romagna. Avendogli i Cesenati alla fine di settembre inviato un ambasciatore, egli lo ricevette festosamente, gli chiese più volte dello stato della città, ne lodò e ringraziò la fede, e lo rimandò con grandi doni. Poi alle vittorie di Carpineto e di Martorano, scriveva lettere ai Romagnuoli esortandoli a non temere i nemici, perché egli rimesso in salute sarebbe andato al loro soccorso e avrebbe fatto un esercito da proteggerli da qualunque offesa. Dopo le lettere del re, i Veneziani non osarono più di entrare in Romagna, nemmeno per aiutare i signori che con i loro aiuti vi erano ritornati; ma in vece favorirono i Feltreschi che si disponevano a sostenere il Malatesta e lo Sforza e ad occupare Sinigallia, dove il 29 di settembre entravano: tentavano anche di rivoltare Fano e Fermo, ma i cittadini le difendevano. I commissari ducali, rassettati alcuni fanti, attendevano a dare aiuti ai castellani che ancora si sostenevano ; don Francesco Sribano che era nella rocca nuova di Pesaro, il di dell'entrata dello Sforza, aveva con le artiglierie tirato contro il duomo e ne aveva guastato il campanile.

       Atterrò anche il campanile di S. Francesco. V. Dell'antico Battistero della Chiesa pesarese di A. Olivieri, Pesare 1777.

    E agli ultimi di settembre attendevano a cacciare il Malatesta da Rimini: il maggiordomo Cristoforo dalla Torre conduceva 200 cavalli e Dionigi di Naldo 600 de' suoi fanti di Val dell'Amone : li seguivano molti esuli rifugiati in Cesena. In un giorno (1° ottobre) la città fu ripresa, e Pandolfo scampò verso Pesaro, abbandonando i suoi partigiani alle vendette dei vincitori, che nell' assalto avevano avuto Dionigi ferito da una pietra gettata giù dai bastioni : fu trasportato in Cesena nelle case dei Fantaguzzi, dove Giuliano l'autor del Diario lo vide. Ma i ducali non poterono proseguire oltre. Il 3 ottobre in Forlì si ebbe qualche sospetto dell'Ordelaffl, onde usci a batter la campagna Andrea Moratini con alcuni cavalli. Il 6 si fece vedere all'Osservanza, alle porte di Faenza, con 60 cavalli e 150 fanti, Francesco Manfredi accompagnato dai cugini suoi ; non "fu né messo né ributtato ;" ma i suoi fautori. — poiché lo videro ritirarsi a Modigliana presso i Fiorentini, — tentarono un movimento, e preso un figlio del castellano, gridarono il nome degli antichi signori ; ma non ebbero seguito, perché subito si recò in Faenza il governatore. Pochi giorni dopo, maggior pericolo corse Cesena. I Feltreschi, respinti la prima volta, con un più grande esercito tornarono contro la città, e si spinsero fin sotto le mura, guastando gli acquedotti e alcuni edifizi. Ma prima di uscire a respingerli, i ducali aspettarono che da Gaggiolo giungesse il conte Nicolo da Bagno, mentre accorrevano nella città 500 villici in ordinanze e con bandiere borgiane:

       "Rustici nostrales quingenti, Borgiano vexillo sumpto, ad tuendam civitatem accurrerunt". Diar. Caesen.

    poi condotti dal commissario Pietro Remires li cacciarono da Montebello dove si erano fortificati, e disordinati e rotti li inseguirono fino a Marano. Fu la vittoria ai 15 di ottobre. Dei Feltresi morirono 300, e Carlo Tiberti capo dei cavalli. Si dice nel Diario, che se il conte Nicolo da Bagno per uccidere il nemico non avesse ritardata la battaglia, nessuno dei Feltreschi sarebbe scampato. Vi ebber nome di valorosi i cesenati Giacomo Masini, Scipione Tiberti e Cesare Fabregola, capitani delle milizie cittadine.
     Per queste buone nuove, Cesare sollecitava la sua andata in Romagna ; ma la fede a Francia ed il rispetto a Spagna gli avevano fatto perdere l'esercito, che sarebbe stato tanto necessario alla difesa de' suoi stati. Dell'esercito che egli possedeva alla morte del padre, 600 uomini d'arme e 6,000 fanti, forse non gli restava più nemmeno la metà, avendo dovuto mandarne molti al campo francese al Garigliano, e dar licenza ad altri, fra i quali agli spagnuoli di don Ugo di Moncada, che per l'onore della nazione non potevano far contro i loro re. Ma una più grave perdita aveva patito, quella dei 2,000 fanti fatti fermare attorno ad Orvieto. Impazienti di non poter andare avanti o indietro, per non essere assaliti o dagli Orsini o dai Baglioni, il Remolino non seppe contenerli : ne fece chiudere nella rocca cinque capitani nobili d' Imola e di Forlì, ma quella diffidenza avvili i soldati, dei quali molti ad uno e a due abbandonarono gli alloggiamenti. La Comunità di Forli ebbe poscia a scrivere a quella di Orvieto lettere di ringraziamento per il ricovero accordato a' suoi cittadini.

       V. la narrazione nell'App. al n. 89. —, Non é giusto il giudizio che ne dà il Fumi nelle Notizie cit. di Orvieto.

    Senza la capitolazione del 1° settembre, assai diversa sarebbe stata la condizione di Cesare; ma egli era uomo di maggior fede che i coetanei non credessero. E di questi mesi un anello che egli usava per sigillo: é d'oro leggermente smaltato, nel cerchio interno porta la data del 1503 e il motto : Fays ce que doys, aviem que pourra ; e nel castone leggesi a lettere rovesciate il nome di Borgia circondato da un altro motto : Corunum una via.

       Fu esposto pochi anni fa dal rev. C. H. Hartshorne ad una riunione della British Archaeological Association di Londra.

    Né i fatti smentivano le parole. Quando i capitani spagnuoli gli chiesero licenza di andare a servire il loro re nel campo di Consalvo, benché grande fosse il danno che ne risentiva egli stesso, liberalmente la diede, non perché avesse segrete intelligenze col gran capitano ma perché "poteva molto più in lui la cura dell'honor publico che '1 rispetto del privato interesse." È il Giovio che ne riporta il racconto.

       Vita magni Consalvi.

     Ma vivo, amico di Francia e favorito dal pontefice, Cesare credeva di non aver più a temere. E gli Orsini stessi erano in pratiche con mons. di Trans e con Roano di riconciliarsi con lui, per mezzo della condotta che prendevano col re ; e il 12 a nome di tutti i suoi Giulio Orsini firmava i capitoli dell'accordo. Il giorno dopo, Pio III spediva un breve ai Fiorentini per raccomandar loro Cesare che diceva di amare ob ejus pracstantes et eximias mrlutes paterna dilectione, e per fargli avere un salvocondotto, avendo egli con la corte e l'esercito da passare lungo il loro dominio per recarsi in Romagna.

       V. il breve 13 ottobre 1503 al n. 94 dei Docum.

    E il card. di Roano, chiamato Gian Giordano Orsini, gli commetteva per i sacri istituti dell'Ordine di accompagnare il "fratello" per le terre sue e di proteggerlo dai parenti.
     Ma quando le cose del duca sembravano così accomodate, apparivano nuovi pericoli che travolgerlo dovevano nell'ultima rovina. I Fiorentini non erano cosi amici suoi come gli si dicevano, né i baroni romani potevano accettare i patti convenuti. Non era l'affetto a Cesare che faceva desiderare ai Fiorentini che la Romagna non gli si ribellasse, ma la paura che i Veneziani non la occupassero; onde quando li videro cessare dalle offese e rifiutare gli aiuti ai signori che lor si erano raccomandati, non potendo rimettere i Riarì prima desiderati, per l'odio grande dei Forlivesi, fecero accogliere il Manfredi in Modigliana, e chiamarono a Firenze l'Ordelaffl. E mentre ricevevano il breve del 13 ottobre, davano al commissario P. F. Tosinghi nuova istruzione di procurare il ritorno di quei signori, ma senza servirli di armi loro per non dare occasione ai Veneziani di farsi avanti.

       Istruzione del 16 ottobre 1503.

    Ma dal canto loro i Veneziani, se non offendevano gli stati del duca, ne offendevano la persona — intenti a prender per loro la Romagna, non potendo rimettervi i vecchi signori non desiderati dai popoli.

       I Diari del Sanuto hanno estratti di lettere del 22 dei Rettori di Ravenna che accennano alle pratiche fatte dal Duca di Urbino per la cessione di Rimini, cui il Malatesta era disposto.

    II Senato richiesto dagli Orsini se avevano da mettersi al servizio di Francia o di Spagna (come dalle due parti avevano offerte) faceva loro intendere che "si guardassero dal tornare nelle mani del duca Valentino che avea posto le mani stesse nel sangue loro."

       Di questa risposta riferita nei Diari del Sanuto, come di altre cose, non é cenno nei Dispacci del Giustinian.

    Con questa risposta improvvisamente giungevano in Roma Bartolomeo d'Alviano e Giampaolo Baglioni ; e nella notte del 10 si presentavano nella stanza dell' orator veneto a dirgli che erano per "aver in le man il duca de Valenza el qual al tutto volevano perseguitar fino alla morte:" feroci d'ira, venivano da Todi e da Viterbo donde avevano cacciati e morti i nemici della loro parte, non perdonando a donne ed a fanciulli. E rotto l'accordo fatto da Giulio, il 13 Bartolomeo faceva nuova condotta per tutti gli Orsini con l'ambasciatore spagnuolo; ma perché Gian Giordano, rimasto francese, poteva inibirgli di offendere il duca, la sorella di lui per impedire "le pazzie del marito" gli suggeriva di ritenerlo. Ma il duca avvertito del pericolo (sebbene l' Alviano non si fosse ancora scoperto) la mattina del 15 si ritirava in castel S. Angelo, e richiamava da Rocca Soriana don Michele con i fanti che vi aveva e dal Regno Baldassare di Scipione e Taddeo della Volpe con gli uomini d'arme. Dicendo quella ritirata una fuga, gli orsineschi tentarono di assalirlo, e domandarono quel che prima non avrebbero mai domandato, cioé che il papa — essendo il duca nel castello — ve lo ritenesse "per la giustizia che loro pretendono di domandar contro di lui." Una notte, che Taddeo dalla Volpe usciva dal castello, dove era stato a riverire il duca, al principio del ponte fu assalito, ma egli cosi si difese, che apertasi una via in mezzo ai nemici, incolume ritornò a' suoi.

       "A cujus salutatone, dum nocturno tempore revertitur.... ita strenue pugnavit, ut, inter confertissimos eosdem viarum obsessores ferro sibi viam aperiens, solus, incolumis ad suos, maximae cum totius urbis admiratione se se receperit". De gestis Th. Vulpiensis.

     Forse il favore del pontefice e dei cardinali poteva salvare ancora il duca; ma il 18 ottobre ad ore 12 di notte il vecchio Pio III moriva. Questo caso gli faceva di nuovo mancare quella riputazione che i ventisei giorni di papato del Piccolomini gli avevano mantenuto, e dava occasione a' suoi nemici di ribellargli tutti gli stati che ancora gli rimanevano fedeli. Ma nemmeno allora la sua "animosa confidenza" lo abbandonava. II Giustinian ne faceva la causa cosi perduta, che fra le altre ciarle riporta questa, che egli avesse risoluto di ritornare in Francia e che domandasse agli Orsini sicurtà del viaggio ; ma il Machiavelli, che il 26 giungeva ambasciatore in Roma, scriveva a suoi : "Il duca si sta in castello, ed é più speranzoso che mai di fare gran cose, presupponendosi un papa secondo la voglia degli amici suoi." E Bartolomeo d'Alviano doveva lasciare la città, senz' altra vendetta, che il saccheggio di alcune case dei Colonnesi fatto da Fabio e Renzo di Ceri, con pretesto che vi si nascondessero robe dei ducheschi. Ma intanto la Romagna, alla notizia della morte di Pio III, rovinava; né la elezione di Giulio II avveniva in tempo per salvarla. Il 28, due giorni prima che si chiudesse il conclave, giungevano in Roma le notizie che da ogni parte gli stati erano assaliti; onde il card. di Roano alterato mandava un suo uomo mons. di Milon a Firenze Bologna Venezia e poi ad Urbino a dolersi delle ingiurie fatte al duca. Ma già Forlì e Faenza erano perdute. All'annunzio del tumulto degli Orsini e della morte del papa, i partigiani dell'Ordelaffi, occupata la porta di Schiavonia, lo ammettevano in Forlì la sera del 22; e quattro giorni dopo, il 26, il Manfredi entrava in Faenza, dopo una lunga battaglia. Il governatore Antonio dal Monte che era ancora nella città, ritiratosi nella rocca, ne parti la notte del 29 con una scorta di cavalli di Galupino Dando ; nella rivolta, il suo segretario P. F. Justolo perdette gli esemplari dei suoi carmi, frai quali i panegirici del suo eroe.

       II Justolo ne fa memoria in una let. ad Angelo Colocci di Perugia, preposta alla edizione di Roma del 1510.

    Soltanto Cesena ed Imola si sostenevano: nella notte del 31 il Bentivogli (cui i figliuoli del conte Girolamosi erano raccomandati) spediva 2,000 fanti e cavalli ad Imola, ma furono ributtati perché "vi era gente fidata," come Fileno dice.
     Frattanto la mattina del 1° novembre era eletto Giulio II. Di tutti i cardinali di fazione francese, che il duca poteva proporre a' suoi (non potendo far papa Roano per rispetto a loro devoti a Spagna né Santa Croce per rispetto a sé, amico di Francia) Giuliano della Rovere era il più accetto; ed a lui fece dare i voti. Riputato osservantissimo della fede, Cesare non aveva da dubitare- di lui, vecchio di 60 anni ; al quale più non restavano figliuoli da mettere in istato dopo la morte di Raffaele avvenuta ne' primi mesi dell'anno : aveva, é vero, il nipote di Sinigallia, in cui era ridotta tutta la speranza della propria casa, erede di Urbino ; ma prometteva di darlo alla figliuola del duca, di 13 anni l'uno e di 4 l'altra: e perché era pur sua nipote la figlia di Venanzio Varano diceva di darla all'infante Giovanni di Camerino. Così Cesare, uscito dal castello, andava subito a stare nel palazzo, nelle stanze del Belvedere, con 40 de' suoi: i cardinali a lui affezionati vi si recavano a corteggiarlo, ed egli ogni sera aveva udienza da Giulio che si intratteneva con lui in "ragionamenti piacevoli." Né Giulio mancava alle sue promesse. Il 3 di novembre inviava suoi commissari in Romagna con brevi in data di quel giorno per raccomandare ai popoli obbedien/a al duca, che diceva da se amato con "paterna carità" e per ingiunger loro di difenderne il dominio anche con le armi come buoni e fedeli sudditi e figli della Chiesa.

       I1 breve é nei Docum. al n. 93. — Quello ai Cesenati "ut in obsequio Borgiae perseverent" é cit. dal Braschil

    E il breve ai Faentini aveva degli altri maggiore importanza. L'entrata dei Fiorentini in Romagna vi aveva tratto anche i Veneziani. Mentre l' Ordelaffi era messo in For1i, Pandolfo Malatesta — non ancora ritornato in Rimini difesa dal maggiordomo ducale — riprendeva Meldola, toltagli in passato dal conte Girolamo Riario ; e il provveditore veneto di Ravenna teneva pratiche con alcuni di Faenza per la cacciata del Manfredi. Il 1° novembre invadeva con l' esercito la valle dell' Amone, col favore di Vincenzo di Naldo cugino di Dionigi, che per l' odio ai Manfredi ed ai Buosi loro parziali preferiva di darne il possesso ai Veneziani;

       "Die primo nov. D. Nicolaus Balbus factus fuit provisor et capitaneuB Brisighellae et vallis". Nota, Bibl. com. di Faenza.

    e si accostava alle porte di Faenza, credendo che il popolo fosse per aprirgliele "col nome di Cristo e del vangelista misser san Marco :" non era ricevuto, ma era per tornarvi ad assedio. Negli stessi giorni in Imola, dopo l' assalto dei Bolognesi, cessava la concordia delle fazioni. Guido Vaini capo de' ghibellini, o per sospetto che la rocca fosse per arrendersi, o per difesa della propria parte, chiedeva di parlare al castellano Gomelio di Lorqua, e ammazzatolo entrava nella fortezza ; ma subito Giovanni Sassatelli faceva prendere le armi a' suoi guelfi.
     Allora i Fiorentini, vedendo di non potere mantenervi i signori da lor rimessi, ad un tratto divenuti teneri della libertà della Chiesa, fecero predicare che "il papa diventerebbe cappellano de' Veneziani." E il Machiavelli andò subito a comunicare al papa ai maggiori cardinali ed al duca le notizie dell' assalto di Faenza e della rivolta d' lmola. Il gran segretario trovava molto mutato il duca ! Quando l' altra volta lo aveva visto, gli era sembrato cosi potente, che allora quasi dispiacevagli di ritrovarlo in quello stato. È notevole la diversità di giudizio che si riscontra ne' dispacci di lui e del Giustinian: ambedue lo credono perduto, ma se al veneto par di vedere che Cesare sia nel palazzo "con riputazione e pompa, ma tutto pavido e spaventato" il fiorentino quando ode parlar dei parentadi promessi da Giulio scrive : "Et il duca si lascia trasportare da quella sua animosa confidenza, e crede che le parole d' altri siano per essere più ferme che le sue, e che la fede data de' parentadi debbe tenere." Fin da quei giorni, egli faceva debito al duca di essersi fidato del card. della Rovere, che — come diceva — non poteva avere dimenticato i dieci anni di esiglio patito sotto Alessandro VI; ma egli non sapeva che appunto in quell' esig1lo (se pur vero) il cardinale lo aveva sempre favorito anche nelle imprese contro la propria famiglia. E gli rincresceva, che si lasciasse ingannare con tanta facilità, mentre non aveva ancora ragione di dubitare del pontefice che gli aveva promesso di trattarlo come figliuolo. Eppure que' due ambasciatori, così accorti, non prevedevano che quel papa, perduto Cesare, avrebbe poi tolto ai Veneziani la potenza ed ai Fiorentini la libertà!
     Dei discorsi fatti con lui ne' dispacci del 6 novembre, Nicolo non riporta che quei pochi che occorrevano a' suoi ; ma nel libro del Principe ne riportò altri. Udendo che la Romagna era in rovina, il duca fortemente si turbò, e gli disse che si doveva dolere non con i Veneziani ma con i Fiorentini, i quali con cento uomini d' arme glie la potevano assicurare, e aggiunse volere che fossero i primi a pentirsene, essendo egli deciso — poiché Imola era persa — di dare il resto di sua mano ai Veneziani. E ne mostrava davvero intenzione.

       II dì stesso 6 il Giustinian fu fatto chiamare dal duca per cose di "grande importanza" ma non vi andò "per non dar materia ad altri che fazino un po' di lui mazor exstimazion di quel che fanno, quando lo vedessero in parte alcuna favorito".

    Poi come se presentisse di parlare a chi doveva fare di lui un modello di principe, gli rammentò non essere in quella condizione per colpa sua, ma perché alla morte del padre, tra Francesi e Spagnuoli, egli pure era stato per morire: onde poi il Machiavelli scrisse: "Ed era velli che sapeva dal suo cardinale l'intenzione che avevasi di perderlo si maraviglia vedendolo "vario irresoluto e sospettoso!" — Stanco di tante avversità, delibera di mettersi allo sbaraglio, e di andare in Romagna. Forse era meglio per lui recarsi con tutto l'esercito che gli restava al campo francese, rimessi gli stati suoi nel re che si era obbligato a farglieli ricuperare : era al Garigliano anche Pier de' Medici, dove lo scultore Pier Torrigiani lo vedeva morire; ma disperando dei Francesi, prescelse di portare soccorso alle città di Romagna che da tre lunghissimi mesi lo aspettavano. Così ottenne da Giulio che Lorenzo Mottino, capitano papale, allestisse per lui cinque galeoni ad Ostia, sui quali egli con la corte i gentiluomini ed i fanti intendeva passare a Livorno od a Genova e di là a Ferrara, lasciando che don Michele si arrischiasse con i 700 cavalli verso la Toscana. La sera del 17, al segretario fiorentino che sempre gli prometteva il salvocondotto. diceva, che se la Signoria gli mancasse, egli "si accorderebbe co' Veniziani e con il diavolo, e se ne andrebbe in Pisa, e tutti i danari e le forze e le amicizie che gli restavano spenderebbe in farle male." E la mattina del 19 prendeva la via di Ostia, mandato a Firenze per l'accordo Ennio Filonardo vescovo di Veroli, suo procuratore.

       II card. Soderini gli die una commendatizia, del 20 nov.

     Ma questo fu il peggior consiglio che egli potesse fare. Alla sua partenza, un senso di "soddisfazione" fu notato in tutta la corte. Il Machiavelli udì ridere del duca : solo il povero Giustinian si dolse del favore fattogli dal papa lasciandolo partire ! — Ai 18, cioé il giorno stesso che egli lasciava il palazzo, Giulio II spediva brevi in Romagna, ne' quali diceva avere egli disapprovato che Alessandro VI conferisse il vicariato al figliuolo, ed esortava i popoli a sollevare le insegne della Chiesa, sotto le cui ali si proponeva di volere egli sempre conservarli.

       V. il breve 18 novem. 1503 al n. 97 dei Docum.

    Poi la mattina del 21 — alla notizia che i Veneziani erano sotto Faenza — mandava a chiamare il card. Soderini e gli diceva "come quella notte non aveva mai possuto dormire per queste cose di Faenza e di Romagna, e che aveva pensato che fussi bene ritentare il duca Valentino se voleva mettere in mano di sua Santità la rocca di For1ì e le altre fortezze e luoghi di Romagna con promissione di restituirgliene, pensando che fussi meglio vi fussi drento il duca che li Veniziani." II card. Soderini va ad Ostia a far la proposta a Cesare, preso seco il card. Remolino; ma ne ritorna con un rifiuto. Allora ai 24 il papa da ordine al Mottino suo genovese di ritenerlo, e col Soderini si accorda per far mal capitare i cavalli di don Michele. E in quello stesso dì fa le patenti per il vescovo di Ragusa Giovanni Sacchi governatore di Romagna e di Bologna, e gli commette di prender possesso a nome della Chiesa di quella provincia, e nuovamente impone a tutte le città di sollevare le bandiere papali.

       II breve 24 novem, é nei Doc. al n. 98. — Della stessa data è un altro ai Fiorentini per il vescovo di Ragusa, a cui nel passare che faceva al suo governo di Bologna, il papa aveva commesso di trattare diversi affari con la Signoria.

    Quando la sera del 25 i suoi vanno a portargli la nuova che il duca é stato ritenuto, ai cortigiani che erano nell'anticamera par di udire essere stato gettato nel Tevere come aveva ordinato : e "da tutti gli sono benedette le mani." Ma la sera dopo torna da Ostia m. Remolino fratello del cardinale, e si getta ai piedi di sua santità piangendo e raccomandando il signor suo, e gli promette che avrebbe dato i contrassegni con sicurtà di restituzione: allora mandò la sua guardia a prenderlo, e per il fiume lo fece condurre su un galeone alla Magliana. I gentiluomini, i fanti che erano ad Ostia si videro ritornare scorati a Roma. Parlandone in concistoro, Giulio disse che essendo i Veneziani entrati in Romagna non per offendere la Chiesa ma il duca Valentino, egli per rimuovere la causa di questa guerra aveva chiesto al duca i contrassegni delle fortezze che ancora per lui si sostenevano, e aggiunse: "Ma perché potria essere che li contrassegni che li darà non seranno i veri, pareva ben al proposito eh' el duca dovesse vegnir a Roma e tenuto in luoco securo."

       Disp. Machiavelli e Giustinian 26-28 novembre 1503.

     A scusare tanta mancanza di fede, F. Guicciardini scrive che il papa si astenne dal mandare il duca in Romagna, come prima era suo proposito, "dubitando che l' andata sua la quale da principio sarebbe stata grata a tutti i popoli, non, fusse hora molto odiosa; poiché già tutti s'erano ribellati da lui." Ma la cosa non é probabile, nemmeno per le città che avevano ricevuto i vecchi signori. Potevano i Fiorentini dubitare che al ritorno del duca i parziali del Manfredi o dell'Ordelaffi non si abbandonassero ai Veneziani; ma ben sapevano che i ducheschi, finché avevano certezza che Cesare fosse per ritornare volevano aspettarlo. E se ne vide l'effetto, all' apparire dei brevi di Giulio II. Quando i commissarì giunsero in Romagna con il primo breve dei 18 novembre, Faenza era già perduta. Mentre l' 1 1 del mese il Bentivogli rioccupava Castel Bolognese, i Veneziani trattavano l' acquisto di Rimini, che il Malatesta loro cedeva, non così forte da poterne espugnare la rocca, né cosi ricco da poterne comprare il castellano, come poco prima aveva fatto lo Sforza.

       L' atto del 14 nov. fu ratificato il 16 dicem. 1503.

    E andavano contro Faenza. Per sostenere il Manfredi, i Fiorentini avevano inviato a Modigliana il miglior loro soldato Antonio Giacomini con ordine di trasferirsi anche nella città; ma i 500 fanti che aveva, non bastavano a difenderla.

       Molte notizie leggonsi nella Vita del Pitti, desunte dal carteggio tenuto dal Giacomini con i Dieci.

    Il 19 all'Osservanza fuor delle mura Giacomo Pasi a nome degli Anziani e dei Sedici davanti a Nicolo Foscarini e Cristoforo Moro conduceva gli oratori di Francesco Manfredi dett o Astor IV per la cara memoria del defunto signore, i quali a nome di lui e de' suoi cugini rinunciavano ad ogni diritto sopra la città..

       È inedito nella Bibl. coni, di Faenza. Il Tonduizi pab. solo i Capitula posteriori.

    E avuta Faenza, i provveditori Veneti furono subito contro Rimini, onde il maggiordomo ducale Cristoforo della Torre non potendo difenderla, il 21 si ritirò in Cesena: condusse seco alcuni ostaggi che fece porre nella rocca di Forlimpopoli. Anche in Fori} avevano aderenze, ma non furono i Fiorentini che la salvarono, essi che non volevano credere al Giacomini che "le parole non valgono contro la spada." Ma in tanta mina i ducheschi non disperavano. Tutte le fortezze erano ancora di Cesare, eccetto quella d'Imola, ma gl'Imolesi cosi lo desideravano che pure il 23 ributtarono dalle mura Òttaviano Riario che Ermete Beativogli per la terza volta tentava di rimettere in istato. Né il breve papale li fece mancare. Come l'ebbe ricevuto, il presidente Antonio dal Monte, volendo pure essere fedele al duca suo signore ed obbediente al pontefice, il 25 fece convocare i Cesenati nella piazza, e fatto loro leggere l'ordine, li richiese se volevano ritornare sotto il governo della Chiesa oppure rimanere sotto quello del duca: ed i cittadini con alte grida risposero volere essere di Cesare.
     Il duca fra tanto, tradotto a Roma, era messo a stare nel palazzo, nelle stanze del tesoriere Francesco Alidosi, e poi in quelle del card. di Roano; il quale mostrò, di fargli qualche buona dimostrazione. Per averne i contrassegni delle fortezze, Giulio II continuava ad usargli carezze; ma egli non era per darglieli, quando il 1° dicembre udì, che i suoi uomini d'arme che per la Toscana si recavano in Romagna, assaliti dalla compagnia di G. P. Baglioni condotto dai Fiorentini, erano stati disfatti presso Castiglione d' Arezzo, e che vi eran rimasti prigionieri Michel dorella Carlo Baglioni Taddeo dalla Volpe e gli altri che li capitanavano. Andò a dolersene col papa ; e Giulio gli dié buone parole, ma poi nello stesso dì, inviò un breve alla Signoria, per significarle il piacere provato a quella buona nuova.

       In questo breve 1 dicemb. 1503 Giulio prega di mandargli "Micaletto" ben custodito ad Acquapendente ed ivi consegnarlo a suoi commissari, per che intento leggesi nei dispacci del Machiavelli. Ma i Fiorentini si fecero pregare di nuovo con altro breve dell'ultimo di detto mese Arch. di stato in Firenze.

    I cronisti fiorentini asseriscono, che i ducali furono in quel modo svaligiati, perché senza salvocondotto erano penetrati nel dominio; ma il salvocondotto fosse o no conceduto al vescovo di Veroli. é certo che senza una qualche sicurtà i ducali non si avventurarono a quel passo. A questo punto il commentario vulpiense narra, che quando essi di notte furono assaliti tra Castiglione e Cortona, riposavano inermi, fidati degli ostaggi scambiati: né l'improvviso assalto li fece mancare alla difesa, nella quale molti perirono; ma vinti prima dai soldati di Gian Paolo, finirono svaligiati dai villani di Castiglione e di Cortona.

       "Sub fide subque datis ultra citraque obsidibus" De gestii T. Vulpiensis.

    Il vescovo di Veroli al suo ritorno alla corte, fu arrestato perché non commettesse imprudenze!
     A quella disfatta, mancava a Cesare l' ultima speranza che fosse per restargli, perché ben prevedeva che la Romagna non soccorsa a tempo, avrebbe dovuto alla notizia della sua prigionia, dopo i brevi del 24 novembre, o darsi ai Veneziani o ritornare alla Chiesa. Ma pure egli, disperato, prima di dare al papa i contrassegni insisteva per avere la sicurtà della restituzione. Fidando in Roano, domandò che egli sottoscrivesse di suo pugno alle parole del papa, dopo che sarebbe andato in Francia con lui ; ma il cardinale che sotto voce faceva intendere di averlo ricevuto nelle proprie stanze "mal volentieri" non voleva contrariare il papa, di cui troppo sapeva i propositi. E Ercole d'Este non osò di insistere nella proposta di prenderlo a Ferrara. Allora provata la perfidia degli amici, cercò la lealtà dei nemici. Nella stessa sera che egli lasciò Roma per andare ad Ostia, vi entrava Guidobaldo d'Urbino: era stato chiamato da Giulio II per nominarlo, dicevasi, capitano della Chiesa, ma più per fargli dimenticare con le grazie sue i favori dei Veneziani a' quali era obbligato. A lui Cesare chiese di parlare, e Giulio istesso lo pregò di ascoltarlo. Il 2 decembre i principi si incontrarono in una delle stanze papali. All'entrare, Cesare sull'uscio si cavò la berretta e fece un profondo inchino; e Guidobaldo alzatosi dal lettuccio su cui la podagra lo faceva sedere, si cavò anch'egli la berretta e per tre o quattro passi andò a riceverlo: all'incontro, Cesare fece un'altra riverenza, e Guido gli stese ambe le mani e lo invitò a sedere accanto a lui. Quale ritrovo! Nessuna sicura notizia si ha dì quel colloquio; ma l' esito fu tale, che la sera del 3, Cesare consegnò all'urbinate i contrassegni delle fortezze, per ricevere le quali il papa subito firmò i brevi.

       V. il breve 3 dice mbr. 1503 al n. 99 dei Docum."

    Probabilmente Guido die promessa di sé al duca; il quale dispose perché gli fossero resi i libri ed i tappeti preziosi di Federico che eran stati trasportati in Cesena. Cosi riconciliati i due nemici, il 5 — mentre il palazzo era in festa per la incoronazione di Giulio II — Guidobaldo sali a parlargli nelle camere del tesoriere, nelle quali per la partenza di Roano era ritornato ; si fecero gentilezze, e Cesare lo accompagnò nel partire fino alle scale. Si udirono allora ripetersi le voci, che il papa voleva sposare il prefettino alla figliuola del duca, la cui dote era la Romagna ; ma ben altre erano le intenzioni sue. Egli nel breve ai Cesenati li esortava a voler essere ubbidienti alla Chiesa, sotto la cui immediata protezione prometteva di volere sempre conservarli. E quelli del seguito di Guido, nelle lettere che scrivevano ad Urbino, traevano pretesto da quei ritrovi per rendere disprezzato dai popoli il nome di colui che un di avevano salutato signore. In una del 5 si dice, che fu Guidobaldo che fece ritenerlo ad Ostia prigione, e che Cesare chiestogli in grazia speciale di parlargli gli domandò perdono di quanto gli aveva fatto, maledicendo l'anima del padre ecc.

       È la lettera rifer. dall'Ugolini, non diversa nella sostanza dal racconto dei Commentari. È notevole questo, che se nella lettera Cesare "fa una riverenzia fino a terra" a Guido, nella orazione dell' Odasio dìventa "ejus genibus advolutus." O i retori!

    Ma é il racconto cosi inveritiero, che di quel colloquio il duca d' Urbino, il di dopo, si "volse iustificar" con l' oratore veneto, dicendo che erasi fatto a fin di bene, per riavere la libreria: anzi glie ne nascose l'esito, perché ben sapeva che alla Signoria sarebbe stato discaro, che egli si fosse adoperato per il riacquisto della Romagna.
     Intanto a portare i contrassegni delle fortezze erano mandati per il duca m. Pier da Oviedo, per il papa m. Carlo da Moncalieri, e insieme a loro "n commissario del feltrese. — L'andata dell'arcivescovo di Ragusa in Romagna con i brevi del 24 novembre non ebbe per se- stessa grandi effetti. Dopo l'ingresso dei Veneziani in Rimini, il castellano lasciato solo aveva loro dato la rocca. Quello di Faenza per i primi giorni tirava con le artiglierie contro la città ; ma perché la fortezza era in basso luogo, e si era scavato un fosso per impedir le uscite dei soldati, non fece gran danno: onde il 25 per suggestione di Vincenzo di Naldo e di Cesare Viarano che con altri c1ucheschi vi era ricoverato, dovette renderla ai Veneziani. Guido Vaini che era in quella d'Imola, consigliato dall'Alidosi cognato suo, vi mise il Ramazzotto che .era divenuto capitano del governatore ; ma fu necessario un altro breve, perché gli Imolesi si inducessero finalmente ad innalzare gli stemmi della Chiesa.

       Questo terzo breve é del 13 dicembre 1503, Ardì, d'Imola.

    Il presidente Antonio dal Monte non poté più resistere, e lasciò che i Cesenati il 6 dicembre nominassero un Consiglio nuovo; ma lui partito, Pier Remires il vincitore dei Veneti e dei Feltresi si preparò a difendere la rocca all'estremo, assieme al castellano don Diego Chignone. I tre commissari per la via di Modigliana giunsero in Romagna alla meta del mese; vollero prima andare a Forli, ma quei cittadini e Antonio Ordelaffi con buone guardie impedirono loro di accostarsi, per timore che il papa, avuta la fortezza, non fosse per rimettere i Riarii. Allora, non osando di andare a For1 impopoli od a Bertinoro — lasciata una lettera al Giacomini perché nascostamente la rimettesse al castellano ducale Consalvo da Mirafonte — per vie traverse in mezzo alle nevi, si fecero condurre a Cesena. Presentatisi alle fosse della rocca, il Remires fece introdurre Pier d'Oviedo: ma avuti da lui i contrassegni, disse che "voleva vedere il duca fuori di prigione et in sua libertà prima di rendere la rocca ;" e pigliato il messo, lo fece gettare appiccato dai merli, pieno di ferite, con stupore e spavento degli altri che erano fuori ad aspettarlo. Con tale obbrobrio il fiero spagnuolo mostrò di punire in colui la mancanza di fede verso il suo signore, perché — come ebbe a dire — non gli pareva ufficio di buon servitore dover fare quel che il duca libero non avrebbe mai voluto, cioé mancargli di fede.
     Giulio II si mostrò "alterato come il diavolo," quando Carlo da Moncalieri giunse il 19 in Roma a recare la triste nuova, e disse voler mettere il duca in castello prigione per la vita. Né le preghiere di Guidobaldo lo calmarono.

       Se ne ha cenno nella cit. orazione dell' Oda sio e in una lettera di B. Castiglione in una lett, ad Arrigo VII d'Inghilterra che dice: ut eidem a Pontifico ignosceretur, enixe operam dedit, effecitque".

    Allora i cardinali Francesco Remolin o e Lodovico Borgia fuggono con i duchini a Napoli implorand o per lui la protezione di Consalvo, e gli altri parenti e la madre sua Vannozza cercano di mettere in salvo le robe. Ma Giulio inasprivasi di più, perché avendo mandato a pregare i Veneziani di restituire alla Chiesa le città da loro occupate in Ro magna, e avendone avuto un formale diniego, capiva che senza Forlì e Cesena egli non poteva esige re Faenza e Rimini.

       Ai 6 dicembre al nunzio Leonini il doge "gagliardamente rispose: Che mai se li renderla ditte Terre se dovessero spender li fondamenti di le caxe". Diari di M. Sanuto.

    Onde disfogando l'ira sua sul duca, cui faceva colpa della fedeltà del castellano, tentava di rovinarlo anche nella riputazione : con piacere accoglieva le domande di rifazioni degli offesi da lui, il card. Riario chiedeva per i nipoti 50 mila ducati, 200 mila Guidobaldo, altrettanti i Fiorentini e il Bentivoglio: faceva confiscare le sue robe dovunque fossero, e ritenere in Ancona i castellani di Rimini e di Pesaro che vi si erano rifugiati con le loro famiglie. Ma dei carriaggi spediti a Ferrara sotto il nome del card. d'Este, alcuni di Roma son fermati dalla Signoria di Firenze, e altri di Cesena da Giovan Bentivogli, per conto loro.

       Sotto i primi di gennaio 1504 nella cronica ms. di Fileno é data una breve descrizione degli oggetti preziosi, fra cui la clamide e la corona ducale, ritenuti dal Bentivogli, ma poi restituiti ad Ercole d'Este.

    E mentre in un processo contro un servo del card. Grimani lasciava dire, che lo avesse avvelenato per ordine di Alessandro VI e di Cesare, con un breve de1 30 dicembre insisteva nuovamente con la Signoria di Firenze perché don Michele fosse consegnato ad un cancelliere che spediva apposta per riceverlo, non per altro fine se non per fargli un processo, in cui il nome del duca fosse disonorato. Poi ai 5 di gennaio del 1504 ne scriveva un altro ai Bolognesi, accusando di grande ribellione il castellano di Cesena, perché teneva la rocca per il duca, e li incitava a dargli artiglierie per espugnarla.

       V. il breve nei Documenti al n. 100.

    Ma, é notevole, più miti erano i brevi ai Veneziani, che pure continuavano ad occupare la Romagna, minacciando Imola con la presa di Tossignano, e Cesena con quella di Savignano e di Sant'Arcangelo già occucupato dai Feltreschi. In quel suo furore Giulio sperava che i castellani visto il duca perduto facessero proposte di resa per liberarlo; ma s'ingannava : cosi che se alcuno di loro accettava proposte, queste non erano le sue. Il 5 gennaio Bravo da Sila per 800 scudi rimetteva la rocca di Forlimpopoli ad Antonio Ordelaffi, e con lui Consalvo di Mirafonte trattava per quella di Forlì, chiedendo un 10,000 ducati di spese fatte nel mantenerla.
     In mezzo a tanti odi, che la passata grandezza gli aveva procurato, Cesare non pareva risentirsi di quel nuovo colpo della fortuna. Paziente, calmo, passava le lunghe giornate della sua prigionia nelle stanze del tesoriere, con i pochi segretarì e gentiluomini che gli erano lasciati : de' cardinali amici suoi, qualche volta poteva vederlo e parlargli il suo precettore Giovanni Vera che mostrava di avere per lui una particolar cura. Ancora infermo, con la faccia senza pelle, debole per la malattia e l'inerzia, "facevasi beffe" di quelli che mostravano di temer lui, di cui niuno avrebbe voluto assicurare un' ora della vita. E pensando alla sua condizione, quasi per scherzare sulla propria sorte, prendeva piacere a vedere i suoi giocare agli scacchi per intere giornate.

       V. i dispacci Machiavelli e Giustinian. . .

    Oh allora come gli doveva essere grata la fedeltà di quei servitori che pure volevano partecipare alla propria avversità, non corrotti dalle seduzioni né avviliti dalle minaccie dei nemici! Egli che creduto aveva di poter fare e disfare gli uomini a sua voglia, con quanto sconforto e insieme con quanta soddisfazione, doveva profferire le parole rammentate da Paolo Cortese "non avere egli conosciuto più fedeli amici di quelli che per le loro virtù aveva beneficato."

       "Caesarem Borgiam dixisse ferunt, tum cum esset in custodia palatina detentus, nullos fideliores amicos cognovisse, quam eos in quos beneficia propter virtulem coatulisset". De cardinalatu.

    Molti erano stati travolti nella rovina di lui, ma pure finché egli viveva, non volevano accomodarsi con altri: Alessandro Francie suo tesoriere gli conservava, dicevasi, più di 300,000 ducati deposti ne' banchi fiorentini e genovesi . Baldassare di Scipione capo delle sue lance spezzate lo aspettava in Roma, e Taddeo dalla Volpe prigione a Firenze, rifiutava il servizio di quella Signoria.

       "Deinde Florentiae ab eodem praeclariesimo Soderino comiter accept.us, honestissimas ejus comlitiones tunc et quandiu de ipso Valentino sperar! valuit, undequaque oblatas recusavit". De gestis Th. Vulpiensis.

    Tanta fedeltà meritava migliore destino!
     Quando N. Machiavelli a mezzo dicembre parti da Roma, gli parve che il duca "a poco a poco sdrucciolasse nell'avello." E in vero avrebbe secondo ogni probabilità fatto mala fine, se un grande avvenimento non fosse venuto a rialzare l'autorità dei cardinali spagnuoli presso quel papa francese, — la vittoria riportata il 31 dicembre da Consalvo Ferrando al Garigliano, che assicurava definitivamente il Regno alla Corona di Spagna. Per ciò il 18 gennaio, per intromissione di don Diego di Mendoza ambasciatore spagnuolo fu convenuto, che Cesare avrebbe dato i contrassegni delle rocche che ancora gli rimanevano, e che intanto per sigurtà sua sarebbe andato ad Ostia in custodia al card. di Santa Croce il quale, restituite le fortezze, l' avrebbe lasciato partire per Francia. Ma l'accordo fu ritardato dalle novità avvenute in Imola ed in Forlì. Pur di rimettere i nipoti in istato il card. Riario aveva acconsentito di dar Imola a Galeazzo fidanzato di una figlia di Giulio — invece di Ottaviano primogenito, malgrado le querele della madre : ma a Guido Vaini che tolto dalla cattedrale il gonfalone del conte Girolamo tentò di farne acclamare il nome, si oppose Giovanni Sassatelli gridando Chiesa! E in Forlì — morto improvvisamente ai 9 di gennaio Antonio Ordelaffi — i Numai non volendo che gli succedesse Lodovico fratel suo naturale ebbero le case saccheggiate dai Moratini. Ma finalmente, dolendosi i cardinali spagnuoli del ritardo del papa ad eseguire l'accordo, il 14 febbraio il duca poté andare ad Ostia: nel dargli commiato, Giulio II "gli fece carezze assai e promissione di averlo per ricomandato."
     Andarono per tanto i commissarì in Romagna con i nuovi contrassegni ; ma neppure questa volta ottennero le fortezze. I castellani di Cesena e di Bertinoro, non fidandosi delle promesse del papa, mandarono loro messi a Roma a dirgli che eran pronti a rendere le rocche per la libertà del duca, ma che se questa non era seguita "non vedeano come per onor loro potessero consegnarle:" a tale risposta, il pontefice adirato ingiuriò i messi e li fece cacciar fuori dalla stanza. Per quella di Forlì, pretendendo il castellano 15,000 ducati, si era convenuto che se la restituzione seguiva fra venti di ogni spesa doveva essere a conto del papa, e se dopo a conto del duca che dei denari dié sigurtà in un banco. Ma per una grettezza del commissario pontificio Pier Paolo da Cagli che offri carta e non denari, nulla si fece.

       V. il breve 6 marzo 1504 al n. 101 dei Docum.

    Cesare per un segretario del card. di Carvajal inviò lettere al papa pregandolo di voler ordinare la sua libertà, perché egli avendo soddisfatto a tutte le sue obbligazioni non poteva essere tenuto alle difficoltà di Forlì. Ma il papa che pel ritardo cercava di far pagare al duca i denari, non gli dié buona risposta, aspettando che fosse pronto l'esercito che il vescovo di Ragusa preparava in Romagna, con il quale sperava di fare il riacquisto di tutta la provincia. Era il vescovo con Ramazzotto e Sassatelli passato agli stipendi della Chiesa sotto Forlì per cacciarne Lodovico Ordelaffi, quando ai 10 di marzo Giulio concluse col duca una nuova convenzione, cioé che egli intanto facesse restituire le rocche di Bertinoro e di Cesena, e che per quella di Forlì valessero i 15,000 ducati dati in sigurtà. E Cesare pur di esser libero accondiscese.
     È indubitabile, che Giulio non aveva 'intenzione di farlo rilasciare così facilmente, — tanto che il Mottino che doveva condurlo in Francia aveva da ricevere gli ordini suoi, prima di salpare dal porto. Ma Cesare questa volta non si fidava più alla parola del pontefice. Quando giunsero i messi a recare la nuova che i castellani di Cesena e di Bertinoro avevano restituite le fortezze, e che da quello di Forlì (donde ai 6 di aprile fu cacciato l'Ordelaffi) erano stati chiesti ostaggi e denari in Venezia, il card. di Santa Croce non aspettò il consenso di Giulio per liberare il prigioniero, ma il 26 lo lasciò partire, dopo essersi fatto lasciare una promessa scritta che egli mai sarebbe andato contro il papa ed alcuno dei suoi parenti. Ed egli con due de' suoi a cavallo, per il littorale, scampò a Napoli, da Consalvo Ferrando cui i cardinali Remolino e Borgia avevano per lui chiesto un salvocondotto. Lo aspettavano a Napoli tutti i suoi parenti, il fratello Jofré con la moglie Sancia, e i più affezionati dei suoi gentiluomini, che ancora dopo tante vicende non disperavano della sua buona fortuna.
     Fra le festose accoglienze di Consalvo, riavutosi ad un tratto delle tante avversità patite, Cesare pensò subito al riacquisto dello perduto stato. Per la morte di Pier de' Medici al Garigliano, i baroni romani che erano nell'esercito spagnuolo, non avevano perduto l'occasione di fare qualche novità in Toscana; onde i Fiorentini inquieti per gli armamenti fatti ai confini di Siena. fin dal mese prima avevano inviato soccorsi al signor di Piombino che contro sé risentiva "mala dispozione del suo popolo." Bartolomeo d'Alviano doveva fare l'impresa, ma Consalvo a lui preferì Cesare per le amicizie che gli restavano in Piombino ed in Pisa. E ai primi di maggio i preparativi subitamente incominciarono. Baldassare di Scipione va a Roma a far lance spezzate, e pubblicamente dice che il signor suo "presto ritornerà in bon essere e darà da pensare alli soi nemici." I Pisani gli mandano un ambasciatore, ed egli spedisce loro Ranieri della Sassetta che arditamente con 60 cavalli e molti fanti passa per la Campagna. Giulio degli Alberini nel porto di Napoli intende a caricare sulle barche le artiglierie, 5 tra cannoni e cortalti ed 8 falconetti, mentre gli altri capitani rassettano i fanti. Pochi giorni mancavano alla partenza, quando Cesare andato nella notte del 26 al 27 maggio a visitare il gran capitano al Castelnuovo, come era solito, nell' uscire fu ritenuto dal castellano Nugnio Campeio.
     Giulio II ne fu contento come di "un' opera divina" perché da lui provocata. Qualche settimana dopo la fuga di Ostia, l'11 maggio Giulio aveva scritto ai Reali di Spagna un breve, in cui narrando quali capitoli eransi fatti tra lui ed il duca per la restituzione delle fortezze di Romagna, si querelava con loro del card. di Carvajal e di Ferrando Consalvo che avevano favorito il duca, cosi che questi aveva avvertito il castellano di Forlì di non dare la rocca e gli aveva mandato denari per sostenerla.

       V. il breve al n. 102 dei Docum. — Nei dispacci del Giustinian nulla appare. In uno dell' 8 maggio si dice che i messi del Castellano erano ritornati da Venezia in Forlì "senza denaro".

    E si doleva che in Napoli non cessasse di macchinar cose che sarebbero state dannose al pontefice ed alla Chiesa, perché ben temeva che — conservandosi per Cesare quella cittadella — egli sbarcato a Pisa potesse per la Garfagnana ricomparire in Romagna. Ma erano giuste le querele ? Il duca, irritato, a Consalvo che lo andò a pregare in carcere .negò di dare altri contrassegni, dolendosi con lui della mancata fede; ma il gran capitano per sdebitarsene, fece ricercare Baldassare di Scipione che aveva il salvocondotto di Cesare e che si era ricoverato in casa di Prospero Colonna, e non si senti tranquilla la coscienza se non quando lo ebbe riavuto! Dopo tre mesi finalmente, per promessa della libertà scrisse uno speciale ordine al fedele castellano di consegnare la rocca ai ministri del papa, "giacché la sua fortuna era troppo seco adirata." Il 10 agosto per tanto, dati gli ostaggi e deposti a Venezia i 15,000 ducati, Consalvo di Mirafonte usciva dalla cittadella : era tutto armato, con la lancia sulla coscia, a cavallo, preceduto da un paggio: alla destra aveva il Fracassa e alla sinistra Luffo Numai che da nove mesi era seco ; lo seguivano 200 balestrieri. Eran presenti alla partenza, il vescovo di Ragusa governatore ed un messo di Lucrezia.
     Restituita la fortezza, secondo i patti aveva Cesare da essere liberato: ma nemmeno quella volta il gran capitano mantenne la sua parola; e dieci dì dopo, il 20 agosto per mare lo fece portare in Ispagna. Allora Baldassare di Scipione per il grandissimo amore verso l'imprigionato signor suo, arditamente fece un cartello di sfida contro chiunque della nazione spagnuola avesse osato di dire : "II duca Valentino non essere stato ritenuto in Napoli sopra un salvocondotto del re Ferdinando e della regina Isabella, con grande infamia e molta mancanza della fede delle loro Corone."

       V. la let. 16 marzo 1510 di Luigi da Rorto, nelle Lettere storiche pub. da B. Bressan. Firenze 1857.

    E quel cartello fu affisso nei luoghi pubblici "in tutta la Christianità ." senza che alcuno spaglinolo osasse raccoglierlo.

     Fu per lungo tempo desiderata la signoria di Cesare in Romagna, nelle tristissime fazioni che ne ridussero le città squallide deserte votate di abitatori. I Comuni quando passarono sotto il dominio dei Veneziani o della Chiesa pretesero la riconferma dei privilegi ottenuti. E le famiglie che da lui furono onorate dell' arme propria . o che a lui o al padre diedero magistrati o capitani, nelle private memorie vollero notato il lungo amore verso il tradito signore. Giambattista della Volpe narra la fedeltà del fratello Taddeo alla Signoria della quale era divenuto capitano generale : Gentile Arnolfo sul suo sepolcro in San Francesco a Rimiui fa mettere essere egli figlio di Giuliano medico e matematico di Alessandro VI. I Numai conservano l' arme borgiana, pur nella loro cappella nella chiesa dei Serviti in Forlì, e cosi i Lampergi di Rimini. Giovanni Sassatelli si diletta . quando é già vecchio, a sentir cantare le lodi di Cesare dal Cortese di Bagnacavallo.

       II selvaggio di Giambattista Cortese, Venezia 1535.

    Seguiva un altro poi che già se prese
    Diletto in cumular argento et oro
    Ma in guerreggiar altrui lo spaDse e spese,
    Dandogli co '1 favor anche il tesoro
    A Cesar Borgia, e Valentin cortese
    De quale poche fu maggior di loro.
    Fece tremar d' Italia ogni confino
    Fortuna il spense centra suo destino.

    E Dionigi di Naldo conduce al servizio dei Veneziani i suoi fanti di Val di Amone con le ordinanze e le divise ducali, eroi della battaglia di Ghiara d' Adda. E la loro fedeltà trova grazia presso i nuovi signori. Non così a Pesaro. Giovanni Sforza vi era rientrato con profondo odio contro i cittadini che avevano acclamato a Cesare: ne bandi alcuni ed altri ne uccise: poi nel giugno del 1504 chiamatovi con false promesse di perdono Pandolfo Collenuccio lo fece strangolare nella rocca, reo di avere felicitato Cesare quale legittimo principe per la espulsione del tiranno.

       V. la supplica al n. 35 dei Docum. — In una lett. 3 luglio 1504 dallo Sforza si dice che il Collenuccio fu reo, perché produsse quella supplica in una lite di beni. MS. Almerici, Bibl. Oliveriana di Pesaro.

    E nell' istesso anno Gian Maria Varano in Camerino celebrò le esequie del padre con vittime umane, primo di tutti Gio. Antonio Ferraccioli che con costanza sostenne il supplizio, perché (come disse) moriva per la patria. Più umano di loro — forse perché meno di loro aveva a temere — Giulio II dopo essersi fatto 'consegnare dai Fiorentini don Michele, nel gennaio del 1504 lo aveva fatto chiudere in Tor di Nona e interrogare della morte di quanti si diceva avere egli ucciso per ordine del duca ; ma poiché quel processo era fatto solamente per disonorare il suo signore, mandato questi in Ispagna, lo fece nell'aprile del 1506 restituire ai Fiorentini. Così don Michele diveniva capitano del contado e del distretto di Firenze.

       Sono di questi anni i giudizi di lui e di Cesare che si leggono nelle Cronache del Malarazzo e di Branca de'Talini romano, ancora inedita; il quale, finito il processo, contìnua a dire: "Questo Micheletto era lo boja suo". — I dispacci puh. dal Canestrini non passano il 1507, dopo il qual anno mancano le notizie del Corolla.

    Entrava Giulio II in Bologna, dopo la cacciata di Giovan Bentivogli, nel dicembre del 1506, quando Cesare fuggito da Medina del Campo perveniva a Pamplona alla corte del re di Navarra suo cognato; — donde mandava in Italia con lettere dei 7 il cancelliere Federico per la sorella Lucrezia, ed altri parenti od amici, ai quali voleva annunziata la sua liberazione. Giulio ne fu turbatissimo. E fece prendere il cancelliere che era andato in Bologna a portar una lettera al marchese di Mantova. Dopo i passati inganni, egli che ancora non aveva potuto scacciare da Faenza e da Rimini i Veneziani, temeva che Cesare trasportato dalla ardimentosa giovinezza, non gli avesse dato commissioni per i fedeli suoi di Romagna, del titolo della quale persisteva ad insignirsi: quelle lettere erano bollate col grande sigillo in cui dicevasi: Caesar de Francia dux Romandiolae. E in Romagna durava il desiderio di lui. Allora appunto, nella causa intentata alla Comunità d' Imola dai figli del conte Girolamo Riario, gli Anziani, enumerate tutte le gravezze imposte dai tiranni alla città, dicevano averle il duca come ministro della divina giustizia cassate ed abolite nella sua cesarea liberalità.

       "Illm. Dux Valentinensis tanquam minister divinae iustitiae a vicario Christi f. m. Alexandro sesto poni. max. missus per sua capitala civitate Imolae concessa sua liberalitata Caesarea cassavit et abolevit". Atto, Arch. Com. d' Imola.

    Ma la paura passò presto a Giulio, quando tre mesi dopo, nell'aprile del 1507, udì essere Cesare morto in un agguato presso Viana.

       V. la narrazione 12 aprile 1507 al n. 103 dei Docum.

    A quella fine avventurosa, Jeronimo Casio bolognese, stato a lui ambasciatore più volte, compose il migliore de' suoi epitafli :

    Cesare Borgia, che era dalla gente Per armi e per virtù tenuto un sole, Mancar dovendo, andò dove andar sole Phebo, verso la sera al Occidente.

       Epitaphii di Hieronimo Casio, Bologna 1525.

     Per consolare Lucrezia, Ercole Strozzi canti pure l'epicedio, e il Justolo stampi i suoi panegirici : Jacopo Sannazzaro inviterà gli amici a ridere sopra quel lepidum factum. DOCUMENTI. Dedica della Syllabica di Paolo Pompilio a Cesare Borgia, (Ediz. di Roma 1488). Caesari Borgiai Protonolario Sedis Apostolicae Paulus Pompilius salutem. Quas tibi divitias afferò, clarissimo Caesar Borgia, festus agatur liic tam felix dies, quo tui unius gratin toti prosperitati utilissimum opus si quid iudicio valemns, editum est. Docemus in hoc libro quaemadmodum carmon fieri possit, omnibus angulis rei syllabicae exploratis et patefactis. Quod esse tibi iucundissimum me profecto non fugit : cum apud divum Hieronymum legeris sacrarum etiam literarum bonam partem carmino esse conscriptam, et cum in divinis cerimoniis quotidie et in sacris aedibus multipliciura generum versus plaudantur. Accedit studium illud tuum ingens et perquam fertile bonarum li terarum : in quo hac in aetato seris quod mox ut ex tua generosissima indole clarissima patct coniectura, cumulatissime multiplicatum uiotes: frngequo quam felicissime frueris. Non deorit surgenti tuae virtnti commodus aliquando et idoneus, praeco. Nam ut ex tam laetis initiis prospicero licet quem tua dignitas ? quem antiquae nobilitatis Borgius splendor? qui longe lateque et olim et nnnc per Italiam Gallias Hispanias omnemque Europam coruscavit non ad scribendum excitabit profecto omnes. Verum de tuis rebus haec satis.... At tu Caesar profecto non parum laudandus es qui in hac aetate tam facile senem agis. Perge nostri temporis Borgiae familiae spcs et — 458 — decns libentique animo syllabas nostras cape, amicissimi clientis munns. Sic enim arbitror tui tuorumque omnium perquam aeterno nomini meum adherens et ornabitur et dnrabit. Nam ut amicissimus noster et tui devotissimns Spannolins Maioricensis vir nobilis et optimus, et qui ine maxime ut haec ederem gloriaeque tuae dedicarem impulit, dicere solet : Etiam vitrum in auro electrove prò gem ma oculos tenet et delectat. Bene vale. 2. Lettera di Caterina Sforza al vescovo d'Imola, 24 agosto 1 489 (Biblioteca comunale d'Imola). Eeverendissime in Christo pater. In resposta de le let tere de la S. V. li dico il medesimo, che a principio li dixi, che senza respecto epsa debia procedere ad la castigatione de quelli, che veramente ha retrovato esser degni da es ser castigati. Nam pestilente flagellato stultus sapientior fiet. Ben exorto la S. V. ad haverse maturamente in omni sua operazione, a ciò iustamente altri non possine darli graveza: che per qualche passione epsa proceda tanto se veramente, rendendome ex nunc certissima che la S. V. non habia fare se non institì a, et però da me non li serà in modo alcuno impedito, quo minus el possa fare. De li excesi de Pernioni ho scripto al mio Gubernatore che de bia dire a la S. V. che non ne vogli far altra provisione che quella di' io ho facto, et in questo restarò molto sa tisfatta. De le altre enormità che la S. V. desyderaria mo derare et castigare per bora epsa non ne farà altrimenti che li habia resposto epso mio Gubernatore, et como io serò lì, se ne farà bono examine et providerasseli oportnnamente. Valete. Ex citadella Forlivij XXIIII angusti MCCCCLXXXIX. CATHEEINA SPOETIA vICECOMES DE EIAEIO IMOLAE ET FOELIVIJ D. Kevrend. in Christo patre Domino Scj. Bonadies epi scopo Imolensi dignissimo. — 459 — 3. Lettera di C. Borgia a Pier de' Medici, 5 ottobre 1 492 da Spoleto (Archivio di Stato in Firenze). Magnifice vir uli frater amantissime. Per la mia re pentina partita da Pisa et accelerato camino a venir qua non posseti parlare con V. M.tia come era mio desiderio de certa facenda che assai me stageva in animo: tamen comisi al E. M. Joan Vera mio preceptore che per me sa tisfacesse, e così me ha riferito haver facto con reportatione de grata resposta. La materia di questo é che di sponendo M. Francesco Eemolino mio famigliar carissimo exhibitor presente homo docto et virtuoso insistere nel studio et retornare a Pisa dove meco stageva, maxime non harendo animo a le cose ecclesiastice, desiderarla se li con cedesse una cattedra o vero lectura in iure canonico sotto più utile et honorevole conducta fosse possibile. Et perché so quanto la M.tìa V. possa in questa cosa satisfare al desiderio honesto de ipso M. Francesco et mio, con singular fiducia la chiedo et prego etiam strectamente dare in ciò tale opera che omniffo siamo facti compoti del voto nostro, come spero farà por humanitate sua voluntieri. Del che le resterò non poco obligato offerendomi per quanto possa et vaglia qui et in corte di Eoma sempre a tutti beneplaciti di quella paratissimo. Quae optime valeat. Ex arce Spoletina die V octobr. Prego la M.tia V.rahaia recomandato questo servitore mio. VE. UTI FE. CESAE DE BOEJIA ELECT. VALENTI". Minuta del duca di Ferrara a Felino Sandeo, 5 feb. 1 494 (Archivio di Slato in Modena). Ad dilectum fllium Sandeum. Messer Felino. Havessimo a questi dì la vostra lettera, per la quale ne significasti, como la S.ta de n.ro S. motti proprio vi haveva tolto aprcsso de se in palazo molto honorevolmente. Et si come scrivessemo allora al r.do ve scovo de Modena nostro oratore lì cussi dicemo anchi; a vui, che non potressimo bavere recevnto maiore gau dio et consolatione, che sentire tale vra exaltatione, la quale é da stimare assai, perché oltra che se potremo molto hen valere de vuj in ogni nostra occurrentia, le virtute vostre meritano maiore suhlimatione. Et perché ne tochati che vogliamo scrivere una bona lettera al E. °° Car dinale de Valentia rengratiando sua E.ma S. del favore pre statovi ec. ve dicemo che il faremo molto voluntieri, et cussi per la qui allegata gli scrivemo in oportuna forma, rengratiandola del tuto e pregandola a volere proseguire in favorirvj apresso la S.'" de nro S.re in ogni vostra oc currentia. Cussi pregamo nro S. Dio che vi prosperi secundo il desiderio vostro. Et bene valete. Ferrariae 5 feb. 14M. 5. Lettera di Cesare al capitano del popolo in Siena, per un suo benefìcio, 2 settembre 1496 da Roma (Archivio di Stato in Siena). Magnifice vir amice noster carissime salutem. Nnper nobis provisum fuit Apostolica reservatione de beneficio sive plebe de Sancti Felicis extra muros Senenses Aretinae — 461 — dioecesis, quod quidam Kaphael de Petrucciis clericns sonensis et prothonotarins Apostolicus ut asseritur absque aliquo jure hucusque iniuste tenuit et detinet occupatimi. Nos vero sitnoniam centra eundem Eaphaelem obtinuimus prout ex literis executoribus M. V. latissime aparebit. Itaque decrevimus eandem hortari atque rogare ut pro curatori nostro exhibitori presentium ita faveat et assistat ut auxilio et opera sua possessio pacifica et expedita benefici praedicti una cum integra restitntione omnium fructuum obtineatur et cum negotium huiusmodi nobis cordi sit. Iterum rogamus nostra contemplatione ita in eo se habeat ut illa fides que Mag.'" V. ad scribendum nos impulit augeatur potius quam minuatnr. In hoc N. et justitiae et hnic Apostolicae prò visioni bene consuletur et nobis illa gratificabitur supra quam scribi aut etiam dici queat prò cujus honore paratos nos offerimus. Eomae ex Palatio Apostolico die ij septembris MCCCCLXXXXVJ. C. CAE.Iia VALEN. 6. Dedica a Cesare della traduzione del Discorso di Cleomede, di Carlo Valguglio (Impr. di Erescia, 3 aprile 1497). Ad Eeverendissimum et clarissimntn Caesarem Borgiam Sanctae Eomanae Ecclesiae Cardinalem Valentinum Charoli Valgulii Brixiani: ipsius secretarli. Cum in rebus humanis atque divinis nichil est veri- _ tate beatius et nichil praestabilius : tum hac ipsa nil e magis abstrnsura generi mortalium : magisque reconditum. Quare clarissime et excelse Caesar Borgia a Deo suiumo deprecandum est ut compotes simus veritatis.... In his ita— 462 — que principiis ut in silìcibus latet ignis, ita semina insunt virtutum omnium et humanae felicitatis. Quae qui excitant et consuetudine sapientium virorum optimisque institutis et eruditione exercent et colunt uberrimos atque excellentissimos edunt fructus virtutum et verae gloriae atque felicitati?. Ea semina cum aliis minora et hebetiora, aliis majora magisque vigentia dare natura consueverit tibi tam grandia, tam clara, tamque ardentia c oncessit nt non semina virtntum, sed ipsas virtntes ingenuisse et in te uno formando occupata tam corpus praestantissima forma, dignitate et omni pulchritudine exornando, tum a nimum moderatione, decoro, gravitate cum humanitate t emperata, regalique in primis liberalitate excolendo, ipsa se natura superasse videatur. Qnae tu postea, tum sponte tua, tum praestantissimis adhibitis institutoribus ita excoluisti, nt divus Alexander VIBorgia, cujus sanctitas scmper prona et ardens ad extollendam virtutem, ad ingeniaque exornanda fuit; merito et jure optimo, ad preclaram te extolluerit dignitatem et opes addiderit, ne instrumenta tantis virtutibus deessent. Perinde enim est in principe virtus sine facultatibus, ut in nauta navigandi peritia a ventis destituta. Cum igitnr te excelse princeps amplissimis splendidissimisque muneribus et naturae benignitas et aequitas sanctitatis Alexandri VI illustraverit; danda tibi opera est, ut summum laudis et gloriae cumulum compares. Comparabis autem si ventate quae in rerum cognitione versatur, qua nihil esse beatins et nihil esse magis occultum diximus, perpetuo stu dio coles. Sic non fiet ut qui te propter fortunata et ornamentum morum suspicere videntur, propter sapientiam in admiratione habeant. Alexander macedo cum summam gloriam quaereret non satis sibi esse putabat, si ampli tudine tantum Imperii omnibus regibus anteiret nisi etiam doctrina Aristotelica excelleret; qua cum solns oraatus esse cuperet, aegreferabat in alios demanare. J. Caesar inter strepitus etiam armorum legendo et scribendo, magis atque magis, laudem gloriamque suam angeri putabat, — 463 — ut etiam perceptis solis Innacquo cursibus, de ratione dierum et mensium et annorum, librum posteris legendum eviderit. Ego vero qui post mortem Diarissimi et optimi viri Palconis Sinibaldi a negotiis vacuus et liber fui, cum nulla mihi esset facultas prae me ferendi fructum aliquem meae erga sanctitatem Àlexandri VI servitutis de tuenda corporis valetudine et philosophia morum libellos duos e Plutarco in orationem latinam a me conversos illius sanctitati dedicavi. Cleomedem autem veterem philosophum de orbe terrarum, de sole atque luna ac rebus de quibus et docti pariter et indocti magnoque locuuntur accuratissime et eruditissime scribentem in linguam ut puto romanam verti, et amplitudini splendorique tuo dedicavi, ut et illum et me humanitate ac gratia quibus es ornatissimus amplectens, utrique aliquam lucem afferres; mequo quem tibi et mea voluntas et clementia Àlexandri VI Borgiae iamdiu consecravit, intelligeres summo animi ardore cupere amplitudinem tuam, omni genere laudis et gloriae cnnctis praestare mortalibns. 7. Altra dedica a Cesare del Tractatus cantra Pudendagra di Gaspare Torrella (Impr. Romae 22 nov. 1497 per M. Petrum de Laturre). Ad Reverendissimum et Illustrissimum in Christo patrem et DD. Caesarem de Borgia titulo Sanctae Mariae novae Diaconum cardinalem Valentinum. Cum his diebus inter loquendum fuerim abs te illustriss. princeps interrogatns, quaenam esset haec pesti fera aegritudo, ab aliquibus nominata morbus sancti Se menti, a Gallis morbus Neapolitanus, seu grossa variola, ab Italis morbus Gallicus, et an doctores aliquid scripserunt, et quamobrem in tanto temporis curriculo non fuit — 464 — aliquod peculiare . remedium comportala et approbatum, et quare dolores magis infestant in nocte quarti in die, grave onus et humeris meis impar impositum video. Facile enim est quaestiones petere, solvere non facile, nam sol vere vinculum nou est ignorantis primo Elench. Nihilomiirns ut tibi unico benefactori, et domino morem geram quoad vires sufficient, conabor in hoc brevi compendio inserere ea, quae hinc inde in libris tam antiquorum medicornm reperirà poterò. Accipe igitur illustrissimo Domine, has meas rudes lucubrationes, quas cum maximo labore con gregavi, agitur enim annus decimus, a quo circa ecclesia stica occupatus arti medicinali minime vacare potui. Erunt profecto quamplures hujus Apollineae artis opifices, qui hunc tractatum, et corrigent et ampliabnnt facillime, cum sit ratione, auctoritate, et experimento vallatus. Quantum enim tibi genus humanum obnoxium sit, non est qui ambigat, nam tempestate tua ac tua causa, morbns qui ab omni bus imaginabatur incurabilis, in praesentiarum non solnm ejus essentia, verum etiam curationis modus cognoscitur. Ex qua quidem cognitione infecti confident et bonam spem suscipient, quae sola ipsa confidentia poterit esse causa ut perfecte sanentur et sani praeserventur.... Ex quibus manifeste liquet Dominationi tuae illustriss. spem salutis infectos curasse, et sanos praeservasse. Sed tempus est ut, unde digressus sum, redeam, et problematibns tnis respondeam. 8. Credenziale di papa Alessandro VI a re Luigi XII per Cesare, 28 settembre 1498 (Biblioteca na zionale in Parigi). I. H. S. Maria Alexander PP. VI manu propria. Carissime in Christo fili noster, salutem et apostolicam benedictionem. Desiderantes omnino tuae et nostrae sati — 465 — sfacere voluntati destinamus Maj estati tuae cor nostrum, videlicet dilectnm filium ducem Valentinensem, quo nichil carius habemus, ut sii certissimum et carissimum signum nostri in Celsitudinem tua caritatis, cui ipsum non alter commendamus, sed eam tantum rogamus velit eum fide i Eegiae tuae commissum eo modo tractare, ut omnes etiam prò consolatone nostra intelligant a Maj estate tua in suum omnino acceptum fnisse. Datum Eoraae apud Sanctum Petrum, die XXVIII septembris. Dilectissimo in Christo filio nostro Eegi Prancorum Christianissimo. Lettera di re Luigi XII al Comune di Bologna," 5 novembre 1499 da Milano (Archivio di Sta to in Bologna). Loys par la grace de Dieu Koy de France de Sicille et Iherusalem duc de Millan. Tres cheresetgrands amis. En obtemperant a la requeste de notre Saint-Pere le pape et voulant comme protecteur de l' Eglise et Sainte Siege ' apostolique luy aider a recouvrer les terres seigneuries et dommaines de celle et maximement les chastaulz, places terres et seigneuries de Imola et Furly, qui sont comme dernonstré nous a esté du dommaine de la dicte Ecclise, Nous baillons promptement pour recouvrer les dictes places certain aide a notre dicte saint Pere tant de nos gens d'armes d'ordonnance de pie et artillerie que autres pour la conduite des quels Nous avons faict et constitu notre tres-chere et tres-ame cousin le duc de Vallentinoys notre Lieutenant. Et vous prions le plus affectueusement que vous veuillez faire proyision que tout le sort faveur et aide que pourrez donner a notre dicte cousin notre lieutenant 30 — 466 — au faict do sa dicte charge tant au faict de son passaige que ad vitaillement de la dicte armee Vous le faictes en faveur de notre Saint Pere et de Nous. Et quosy faisant Nous ferez tres grant et agreable plaisir. Donne a Millan le V.mc jour de novembre. LOTS. EOBEETET. A nos tres cheres et grands amis les Seigneurie Conseil et Communité de Boulogne. 10. Lettera di Gio. Antonio Flaminio a Cesare Borgia, 1499. (Ex epistolis). Joannes Antonina Plaminins Caesari Borgiae Duci Valentino S. D. Magnitudo et claritas rerum a Te jam gestarum tanta est, ut certare cum omni antiquitate tua possit gloria. Quis enim dux, si tuae copiae, quae non admodum amplae sunt, cum copiis veterum Imperatorum comparentur, majora tam parvo tempore, ac tam feliciter gessit ? Admiratur antiquitas Alexandrum Macedonem, Alcibiadem, Periclem, Themistoclem, Amilcarem ac ejus filium Annibalem, et noStros Fabritium, Curium, Maximum, utrumque Africanum, aliosque pene innumerabiles, et jure quidem admiratur: sed certe nulli homìnum sis inferior, si talis non dico miles, quem sane optimum atque lectissimum habes, sed tanti et tam numerosi exercitus contingant. Quis enim tam brevi, et tanto successìi tot loca, tot florentes et non barbaros quidem, quod minns mirandum esset, sed Italiae sibi populos subegit ? Gratulor igitur, Princeps invictissime, tantae felicitati tuae, tanto rerum successui, quo Caesar Caesarem animo, Caesarem fortitudine, militari arte — 467 — ac disciplina, quae nunc demara Itala militia restituta videtur, magnitudine ac splendore rerum gestarum et celeritate perficiendi repraesentas. O felicem nostra aetate virum ! O heroicis parem temporibus et cum omni vetustate comparandum ! Quem quis dubitet posse sibi magnam brevi orbis terrae partem subdere, si tantis caeptis annuat Deus, et altis parem consiliis vitam tribuat ? Sed unum cum tot bonis, cum tot virtutibns, cum rerum tuarum immortalitate, quod certe amplecteris, constanter Tibi amplectendum est; in victos a Te benignitas atque clementia. Quae si tua praeclara ac prope divina facinora comitentur, non video quid tibi ad parandam, imo j am partam nominis immortalitatem desii: ut Tibi quoque, quod jam multi dicere coeperunt, jure dici quoeat quod divinus Poeta cecinit: Tu regere imperio populos, romane momento : Hae Tibi erunt artes, pacisque imponere mores, Parcere subjectts, et debellare superbos. Ad nostram urbem ac Patriam fert fama te mox cum exercita venturum: et ita quidem credimns. Si quid in potiunda Tibi difficultatis erit, ne quaeso Forocorneliensibus, qui jamdiu animo et votis omnibus tui sunt, et qai Te colunt et admirantar ac si possint patentibus Te portis continuo recipiant, adscribas; sed violentiae acjugo quo premi nos intelligis. Quare, si quid erit apud eos quod tuis obstet coeptis ac felicem rerum tuarum cursum paulisper remoretur, aliena quidem, non nostra vis illa fuerit. Si nobis igitur ita quidem adversabitur fortuna, ut vi expugnes ac in tuam, quod minime futurum dnbitamns, potestatem urbem hanc redigas, obsecramus ac obtestamur Te, invitissime ac clementissime Prenceps, ut nostri misereare, vim et aviditatem cohibeas militum, nec sinas ur bem certe amantissimam Tui direptioni ac incendiis tradì. Qnam, ubi in tuam potestatem redegeris, sic Tui amantem, adeo Tibi obsequentem continuo, adeo denique in fide erga Te constantem experiere, ut afflrmare audeam nnllam adhuc urbium in tuam venisse potestatem aut ven — 468 — turam imposteram, quam his omnibus ac deinceps caeteris, quae a fidelissimis et amantissimis subditis optimo Prin cipi debentur, nobis anteponendam putes, et quam sic tibi peculiarem ac tuam ipsius et propriam nrbem velis, et uti a laboribus interdum respirare et conquiescere maxime libeat. Vale. 11.1 Frammenti della bolla che priva i figli di Girolamo Riario e la loro madre del dominio di Forlì Imola e San Mauro, e ne investe Cesare, 9 marzo 1500. Cum itaque iniquitatis filli Octavianns, Galeazns, Caesar et Sfortia alias Pranciscus fratres, filii, et haeredes quondam Hieronymi de Eiario Forolivii, Imolae et Sancti Mauri prò Sancta Ecclesia vicarii,.... ac etiam ini quitatis fllia Catherina etiara Sfortia eorum mater, tntrix, et curatrix, et administratrix nulla subsistente causa, te mere, et defacto in solutionem dictorum censuum mnltis annis cessaverint, ac in continuata mora et manifesta dictum censum non solvendo fuerint, (riferito come il Ca merlengo della Chiesa li avea con sentenza dichia rati incorsi nella pena di privazione, ed in tutte le altre pene contenute nelle lettere apostoliche) Nos praemissa, quae adeo notoria sunt, et manifesta, ut nulla possint tergi versatione celari, prò iurium ejusdem Eom. Eccles. conservatione, ut ex debito pastoralis tenemur officii, debita considerantes, habita super his cum Ven. fratribus nostris eiusdem S. E. E. Card. deliberatione matura, de illornm unanimi consilio pariter et assensu, sententiam, declarationem, privationem, et amotionem praedictas, quarum tenores ac si de verbo ad verbum insererentur praesentibns, haberi volumus prò sufficienter expressis, et insertis, auctoritate apostolica, et ex certa scientia nostra, ac de apostolicae potestatis plenitudine tenore praesentium ad — 469 — probamus et confirmamus et plenitudine tenore praesentinm approbamus et conflrmamus, ac plenum et perpetnae flrmitatis robnr obtinuisse et obtinere debere decernimus, supplentes omnes et singulos tam iuris quam facti defectns, si qui forsan intervenerint in eisdem; proque potiori cautela Octavianum, Galeatium, Caesarem et Sfortiam alias Franciscum praefatos, ac illorum posteros et successores a vicariato, illosque et ipsam Catherinam tutricetn, et curatricem regimine, gubernatione et administratione Civitatum Terrarum, ac Sancti Mauri, et aliorum castrorum, locorum.... prorsus excidisse, ac illis omnibusque bonis et inribus eis competentibus privatos fuisse, et esse. (Ne investe quindi il diletto figlio Ce sare Bargia di Francia duca Valentinese, del quale dice:) Ad personam tuam, quam plurimis raeritis pollentem singularibus virtutibns ac aliis multiplicium gratiarum muneribus Altissimns insignivit, tuamque devotionem et praeclaram fldem, quam in Nos et eamdem geris Ecclesiam, grata quoque et accepta servitia, quae Nobis et praedictae Ecclesiae hactenus impendisti et continuo sollicitis studiis impendere non desistis, grandia quoque et landabilia prudentiae tuae merita, Nobis ab ipsa experientia dudum cognita et perspecta, postea dirigentes, considerationis intuitum; et ad ea quae.... ita probe, strenue, fedeliter et intrepide, nullis laboribus, nullis expensis, nullisque parcendo periculis, tanquam fldelis vigilans et curiosus Praefectus nostri exercitus.... effecisti, debitum respectum habentes etc. 11." Capitoli accordati alla città. d'Imola, 11 marzo 1500 (Archiviò comunale d'Imola). In Christi nomine amen. Haec sunt capitula privile gia et gratiae quas et quae benignitate et beneficio Illustris. Ducis Dni nostri Dni Caesaris Borgiae de Francia Comunitas et populns suae Civitatis Imolae humiliter siti denari expectat et petit. ' - In primis quod ipse 111. Princeps et Dominus noster dignetur populum ipsum et Civitatem Imolae cum toto ejus districtn et comitatu, cum institia et misericordia regere et gubornare ac regi et gubernari facere et committere et eundem populum districtum et comitatum in pace conservare et a bello ipsum tueri defendere ac marmtenere. Item quod festum Sanct. Cassiani et Petri Eavennatis patronor. et advocator. hujus Civitatis solemniter cum oblationibus a Comunitate Imolae debitum celebrar' faciat, nec non et in festo Sancti Cassiani praedicti Massarios seu Sindicos terrarum et locorum Civitatis praedictae subditorum cogat et cogi ac compelli faciat ad seipsos praesentandum et nomine locorum praedictorum cum certis dnplenis et oblationibus in similibus offerrendis consuetis, et quod festum Sancti Cassiani praedicti in honorem et landem ac reverentiam ejusdem excellentiae suae equibus cnrsoribus tranio Suao Excellentiae convenienti decorari fa ciat et ornari sumptu tamen einsdem prout fieri solitam fuit et consuetum. Item quod omnes et quaecumque condemnationes et sententiaecriminales contra quoscumque cives districtuales et comitatinos iurisdictionis Imolae hactenus factae datae et latae, nec non et omnes processus criminales pendentes sint cassi nulli et vani et prò cassis nullis et irritis habeantur teneantur et reputentur, eo tamen salvo quod si per condemnationem prò homicidio bannitus quis fuerit praetextu praedictae impetrationis non liberetur nisi pace prius ab offenso petita et obtenta. Item quia mutatione temporum inra variantur humana et propterea statata constitutiones et decreta civitatis et districtus Imolae quaecumque sint morum mutatione casuum varietale et iniquitate quorumdam ex ipsis reformatione indigere noscuntur, petitur quod auctoritate hujusmodi Capitulorum concedendorum liceat et licitum sit — 471 — populo et comuni Imolae per eligendos ab ipso 111. Duo. et Antianis ac Consili ariis ejusdem reformare mutareque in melius corrigere et emendare ipsisque mutatis reformatis correctis et emendatis sua et apostolica conflrmatione subsequenti uti eorum quod iure regi et gubernari statntis ordinamentis et decretis hactenus factis de me dio sublatis. Item quod prò supportandis honeribus contingentibus et seu quae contingere possint annuatim Communi et Po pulo praedicto cui nichil penitus est in peculio et attentis expensis quae contingere possunt ipsae Commutati, ipse II- 1.""" princeps actualiter titulo et ex causa donationis pure libere et inter vivos perpetuo et irrevocabiliter donet et det Commutati populi antedicti et seu hominibus ipsius nomi ne ejusdem recipientibus officium damnorum datorum nec non buletarum, seminis carcerum, Massaroli et tubicinis Comunis Imolae quibns iam gaudere et uti consuovit una cum officio Notariatus et Cancellariae Comunis et damno rum datorum praedictorum. Item quod omnia et quaecumque officia Civitatis districtus et Comitatus Imolae Potestaria Civitatis Castellanariis et Gubernio exceptis dare et concedere dignetur Civibus dumtax et hominibus Civitatis Imolae praedictae cum honoribus et oneribus consuetis et emolumentis ac salariis deputatis. Item et quod omnes officiales qui prò tempore in ipsis officiis deputabuntur obligati sint et teneantur ultimo mense sui officii servire in co prò comodo et utilitate dicti Comunis et quod salarium dicti ultimi mensis cedat, co modo et utilitati Comunis ejusdem et prout alias servari consuevit. Item quod omnia inra Comunis Imolae tam in revocationibus quam in pensionibus et facultate absolvendi et liberandi caducaque in comissum revocandi et indebite occupata vendicandi prò ipso Comuni et populo Imolae in terrenis et circa terrena territorii Cantalupi ad ipsum Comune iure directi utilis vel quasi domimi vel posses — 472 — sionis spectantia libera sint eorumque administratio ad ipsum Comune libere spectet et pertineat. Et similiter praedicta intelligantur in aliis bonis et iuribus ejus alibi existentibus. Item quod Civibus vel Districtualibus Civitatis Imolae oppressis olim per comitem Jeronimum ejusque successores, et creditoribus veris eorum periculo rerum et bonorum ab ipsis licite quaesitorum satisfactio fiat et restitutio ablatorum damnorum et interesse reintegrando prins ipsos Cives et districtuales ad iura et bona sibi oblata vel titulo emptioso quaesita et tamen non solata vel quomodocumque iniuste et indebite ab ipso Comite et ejns successoribus ut potentioribus retenta et occupata. Item quod taxarum militibus praesentarum nulla solutio fiat nisi prò ipsis qui personaliter et revera in exercitio et arte militari equis et armis militando ipso 111."" Dno serviat nec prò palea et lignis occasione taxarum hujusmodi debitis pecuniarum exactio fieri possit ab invitìs. Item quod omnes gravetiae angariae et perangariae tam contra cives et districtuales Imolae quam contra comitatinos et liomines Comitatus terrarum et locorum Ci vitatis ejusdem cujuscumque conditionis existant palea et lignis praedictis ex datiis ordinariis exceptis, de medio tollantur ac in desuetudinem abeant cum malivolorum subgestione proximis antecessovibus suis facta molitae fnerint et inductae contra id quod iustum principem deceat et contra bonos et laudabiles mores. Item placeat eidem damna et interesse occasione adventa militum Excellentiae suae per homines et singnlares personas tam in Civitate quam extrafacta et passa ac nomine ejusdem Excell. suae refici promissa adimplere modis et formis quibus eidem fuerit in animo. Item dignetur civibus ipsis in Comitatu Imolae bona habentibus vel acquirentibus in futurum concedere ut ab ipsis de Comitatu ad soluti onem collectarum pretextu bonorum in futurum non gravautur nec compellantnr sed imuuitate et exemptione gaudeant ad similitudinem civium Bononiensium et aliorum.... — 473 — Item placeat postremo Ill.mae Dominationi suae omnes et singulos homines praedictae Civitatis et ejus Territorii siti devotissimos ac fìdelissiiuos perpetuo sibi comissos et comendatos habere. Adprobamns confirmamus et concedimus stiprascripta. CAESAE BOBGIA DE FEANCIA Dux VALEN. GENEEALIS LOCUMTENENS. Datum Eomae in Palatio apostolico XI martii MCCCCC. 111. Dns. Dnx mandavit expediri ut supra doscripta sunt (sigillo}. Io. AECHIEPS. AEELATEN. AGAPITUS. 12. Breve di papa Alessandro VI al Comune di S. Ar cangelo (Archivio com. di S. Arcangelo). Alexander PP. VI. Dilecti filii salutem et apostolicam benedici Per dilectum filium. oratorem vestrum ad Nos nuperrime destinatum intelleximus damna quao passi fuistis in recipiendo gentes armigeras dilecti fili Nob.lis viri Caesaris Borgiae de Francia Ducis Valentinen. dum centra nonnullos nostros et sanctae Eomanae Ecc. in temporalibus vicarios censum Camerae apost. debitum non solventes, ad executionem sententiae contra eos propterea latae procederet: Nos damna huiusmodi vestra attendentes ac statui vestro, p1eno comparentes aflfectu, yobis censum per vos annnatim dictae Camerae debitum prò tribus annis inceptis XV octobris proximi praeteriti et ut sequentur flniendis, auj ctoritate apostolica tenore praesentium gratiore remitti mus et elargimur. Nec non uttaxasmilitibus seu stipendiariis nostris solvi solitas in ista vestra terra actu non ospitantibus solutas minime teneamini einsdem auctoritate et tenore concedimus et indulgearas, mandantes gnbernatori civitatis nostrae Cesenae ac aliis ad quos spectat, ut hniusmodi nostras remissiones et concessiònes vobis observent ac observari faciant nec vos permittant propter ea molestari. Non obstantibus contrariis quibuscumqne. Datum Komae apad Sanctum Petrum sub annulo piscato ria die X aprilis MCCCCC Pont, nostri anno octavo. HADEIANUS. Dilectis filiis Comunitati et homiuibus Terrae nostrae Sancti Arcangeli. 13. Patente ducale di procura a Giovanni Olivieri ve scovo d'Isernia luogotenente generale, 10 aprile 1500 (Archivio com. d'Imola). Caesar Borgia de Francia Dux Valen. Comes Dien. Porlivij Imolaeque Isoduni Dnus ac S. E. E. Confalonerius et Capitaneus generalis E.a° in Christo patri Duo Johanni Oliverio Epo. Isernien. salutem. Civitatum nostrarum Imolae Forlivij aliarumque terrarum nostri Dominij ac eorum districtuum et Comitatuum enixi status conservationi fructuosique regiminis solicitis studiis in tenti ad Vestrae Patern.is eximias virtutes mentem vertimus plaenissime confidentes quod per eas et singularem quem ad nos gerit affectum statui et regimini antedictis saluberrime consuluerit. V.ram igitur P. in dictis Civitatibus nostris illisque adiacentibus Terris nostri Domimi iurisdictioni subiectis ac earumdem Comit. et District. locumtenentem nostrum generalem ad nostrum beneplaci — 475 — . tum constitnimns dantes eidem plenam et liberam facultatem atque potestatem quascumque causas tam civiles et criminales quam mixtas et summarias audiendi illasque sine debito initio judicii terminandi, delinquentes et malefactores puniendi omnibusque praedictis subditis sub poenis de quibus P." V. videbitur mandandi inobedientes debita poena efficiendi omniaque alia et singula gerendi exequendi et administrandi quae tam de jure quam de consuetudine gerì administrari et exequi est solitum, demandantes quibuscumque officialibus nostris et Civit.m terrarumque eaurumdem Comit. Civibus comitativis districtualibus et aliis personis supradictis ut V. P." in omni bus et per omnia tamque Nobis.... pareant et obediant, contrariis non obstantibus quibuscumque. Datum Eomae in Palatio apostolico X aprilis MCCCCC. CAESAE. Ill.mi Dni Ducis mandata Agapitus Geraldinus Bap. Orphinus. 14. Credenziale del Duca agl'Imolesi per il vescovo di Sessa suo Commissario generale, 13 aprile 1500 (Arch. d' Imola). Magnifici viri fideles nostri dilectissimi, salutem. Man dando la S.u del N. S. lo exhibitore de questa M. Mar tino Zappata vescovo de Sessa comissario suo generale in tutta Eomagna havemoli anchora noi data simil comissione in quello nostro Stato ad effecto de molte cose ne cessario al vostro più quieto esser a le quali lui cum opera del Mag.co M. Eemyro nostro locotenente provederà. A le qual cose perché tutte resultano in benefltio et ornamento vostro e de la patria assistereteli cam el re cordo e cum l'opera vostra prestandoli integra obedientia — 476 — et ad quanto da nostra parte ne riferirà piena fede. Da tum Eomae in Palatio Apostolico XIII aprilis MCCCCC. CAESAE BORGU de Francia Dux Valent. ac S. K. E. Confalonerius et gnlis. Capitanens. AGAPITUS. Magnificis viris fldelibus nostris Dilectiss.re'3 Antianis Gom, et Consilio Civitalis n. Imolae. 15. Altra credenziale per il vescovo d'Isernia procurator generale, 15 aprile 1500 (Arch. d'Imola). Magnifici viri fideles nostri dilect. salutem. Havendoci la S.u de N.° S.e de consilio et assenso de li E.mì S.ri Cardinali constituito in temporale vicario perpetuo et generale de quella nostra città contado et pertinentie sue insieme cura quella di Furiì, et però richiedendoci che de uovo se pigli per noi possessione de la città et loci predicti deputato avemo a questo effecto procuratore generale et speciale lo E.m° M. lohanni Olivero vescovo de Isernia exhortandovi.... rchate azo por lo Comissario de la S.tà de N. S. quale é el E.m° vescovo de Sessa.... 1lo al dicto vescovo de Iser nia per Noy el debito hornagio et j Tiramento de fidelità cum, le solemnitadi consuete. Datum Eomae in Palatio aplico XV aprilis MCCCCC. CAESAE BORGIAE de Francia Dux Valent. ac S. E. E. Confalonerius et Capit. gulìs. AGAPITUS. Mag.is viris Antianis Consilio et Com. nostrae Civitatis Imolae fidelis nris. dilect."''' — 477 — 16. Dalla Vita del facondo poeta vulgare Seraphino Aquilano per Vincenzo Calmeta composta. .... Expulso del dominio el Duca Ludovico e per Aluigi Ee di Francia pigliatane pacifica possessione, Seraphino el quale in quelle revolutioni se ritrovava, essendo morto Hybleto dal Fiesco, prima con Gioanne Borgia hebbe refugio, poi insino a l'ultimo di soa vita sotto la protetione di Cesare Borgia collocò tutti li soi pensieri. Cresceva non meno la fama ch' el dominio de questo magnanimo prin cipe. E così como l' imperio suo andava dilatando e in la militia el nome de Duca invitto vindicandosi così in la corte soa nomini per qual se voglia virtù clari et famosi re tirava con quelle honorevoli conditioni ch' al grado et alla qualità loro erano convenienti, tra el numero de li quali essendo stato anchora io già per cinque anni, pareva che el fato overo la conformità della fraternale amicitia non meno che de la virtù dovesse dove stava io Seraphino retirare. Intrato adunque lui nel servitio de un tanto prin cipe con -gratia et honore e con non piccolo principio de exaltatione, havendoli già commenda de cavalliero Hyerosolimitano con bona intrata assignato, non perseverò uno anno che in Eoma la morte el sopragiunse. Morì di febre tertiana doppia quasi pestifera con gran dolore de tutta la Komana Corte, havendo li trenta e cinque anni de soa età compiti. E recevuti tutti li ecclesiastici sacra menti el giorno di San Lorenzo correndo lo anno di no stra salute MD. lasciò il corpo suo alla terra e l' anima donde era venuta fece ritorno. Curatore del testamento e de la sepoltura fu Agapito Gerardino homo e per dottri na e per actioni mondane venerando. El quale essendo del Duca Cesare primo secretario, con grande honore, pom pa e compagnia come a tale virtù conveniva, in Santa Maria del Populo el fece sepelire. Et ordinatoli mediante la industria de molti amici soi, et in spetialità di Augu — 478 — stino Ghisì gentilhomo Senese ricco e generoso honorevole sepoltura, forno sul marmoreo sasso scolpiti questi tre memorabili versi ad emulatione de li antichi da lo Aretino composti. Qui giace Seraphin, partirle hor poi. Sol d'haver visto il sasso che lo serra Assai sei debitore a gli occhi toi. 17 e 18. Copia litterarum Pontificis circa nominationem . Caesaris Borgiae Duc. Valent. (Archivio com. di Bertinoro). Venerabilis Frater salutem et apostolicam benedictionem. Accepimus tuas literas tuae fraternitatis tertio pracsentis mensis datas, ac illis et per Cancellarium tnum, qui ipsas nobis reddidit intelleximus die decimo proxime praeterito in platea istius civitatis dilectum fllium nobilem virtfm Caesarem Borgia Ducem Valentin. S. E. E. Confalonerium et Gap. Generalem magno cum plansu et laetitia ipsius populi ut eorum dominum acclamatum esse electumque, quod nobis fuit gratissimum, tum quia voluntati nostrae illos satisfacere tandem vidimus: ttun ut max." quod id cum pace et quiete et unanimi Civiumet populi consensu factum esse intelligimus. In qua re landemus non parum promptitudinem et devotionem illius po puli: cui nostro nomine significabis quantum in hoc no bis placuerint Cives libentissime prosecuturos, ac daturos operam ut conciliatis et concordatis his qui superioribus diebus extiterunt ac rebus omnibus oportune provisis in Civitate ipsa de caetero quiete et pacifice vivent. Inte rim hortaberis eos ut oratores ipsor. ad nos cito mittant quonsque res Ducis ipsius ad optatum exitum perducant inter se depositis mutuis simulationibus concorditer vivere studeant. Ostendisque dilecto filio Polidoro direptiones ac rapinas illarum domorum quae secutae sunt maxi — 479 — me displicere monebisque illum nostro nomine ut deinceps cum omnibus concorditer ac omni cum amore et charitate vivere studeat ita ut ab omni direptione caede ac injuria oranino abstineat ut omnia tranquille ac Pacifice et juxta Propositum et desiderium nostrum perfici valeas. Et ut res omnes melius ac quietiu procedant hortaberis illos exercitios(?) per literas aut initium ut ad nos duo vel tres ex ipsis veniant. Nos enim in eorum adventu conabimur eos concordare ac pacificare ita ut cum aliis in ipsa Civitate compositis rebus omnibus degere possint. Et curabis omnino ordinare ut illi de Brittonorio mittant ad nos unnm vel duos oratoros ad petendura ipsum Ducem in Dominum. Eestat ut tua Fraternitas solita prudentia ac diligentia resistas ut expedire ac nos velie et cupere cognoscis sicut hactenus fecit disponere ac moderari omni studio ac opere procures. Datum Eomae apud S. Petrum die 8 augusti 1500 Pon tificai nostri anno 8.° HADRIANUS. Alexandre PP. VI. Yen." Fratri Io. Electo Isernien. Civ. Caesenae Gubernatori. Venerabilis Frater sa1. et ap1. Benedict. Accepimus litteras tuas 8° praesentis mensis datas quibus nobis adventum Oratorum istius Civitatis ad nos destinatum et quos nobis in favorem. Dilecti filii Ducis Valentini votis nostris satisfacturos significasti quosque quando aderunt libenter visuri et audituri sumus et res ipsius Ducis Valentini votivo exitu.... Domino complecturi, qui vero istic.... ad nos Comitatum misisti presertim in componendis rebus exitioni gesta sunt, ex his ultimis tuis p1ane omnia per te exposita intelleximus, in quibus prudentiam et diligentiam tuam non parum commendamus et quia ut aliis libi ostendimus superioribus cupimus ut omnìa pacifice et quiete prò statu ipsius Ducis transi — 480 — gant, ut a direptionibns et rapini s abstineat hortaberis ac nostro nomine monebis Dilectum filium Polidorum nt quibus potest modis suos compescueris. Cnrabis ut ipsi duoa vel tres ex ipsis oratores ad nos mittant, ut eorum res melius consolidari ac firmari possint, unde diligentia nteris cum illis de Brittonorio nt similiter et ipsi oratores ad nos mittant et Caesene in rebus ipsius Ducis imitentur prout ut per alind breve nostrum proxime tibi scripsimus. Praeterea ut ducenti illi pedites quos scribis quieto regimine ipsius Civitatis necessarios esse teneri istic posses ordinavimus ut 400 ducati anri de Camera tibi prò stipendio ipsorum 200 peditum cum mensis a die, qno ipsum potnra recipies ipsos pedites flrmaveris inchoando tibi persolvendi. Pront per acclusum nostrum chirographam et de urbe cedulam videbis : interini perflcienti quae prò ipso Duce agenda restant et quod tibi propterea faciendum sit latius declarabitur. Datum Komao apud S. Petrum sub anulo Piscatoria die 13" augusti 1500 Pontif. nostri 8." HADEIANUS. 19. Diploma di privilegi alla Comunità di Savignano, 29 settembre 1500 (Arch. com. di Savignano). Caesare Borgia de Francia duca de Valenza Conte de Dia et signore de Cesena Forlì Imola Britonoro et Isoduno et S. Eom. Ecclesia Confaloniero et Capitaneo generale. Alii nostri fideli et dilecti Comunità et nomini de la nostra terra di Savignano salute. Havemo veduto.... li privilegì et gratie de le quali ce avete per li vostri Ambasciatori rechiesti. Havondoce la S.ta de N.r° S.re de consiglio et consenso del sacro Collegio de li E.mì C." constituiti perpetuo in temporale vicario de la cità de Ce sena et de Britonoro et de le altre terre et lochi già com presi sotto el governo de Cesena et de le sue Eoche For— 481 — teze Contadi et Terre, Et auchora di questa nostra terra di Savignano voluntieri ce siamo inclinati farve le infrascripte gratie. Et primo che le possessioni molini et altri beni che la università per el tempo de li altri vicarì ante cessori nostri possedevate et haveti continuato fin al pre sente possedere rimangano in libera potestà de la universi tà pradicta. La quale per Tre anni sia exempta et libera dal pagamento del Censo o tributo consueto pagare a la Ca mera apostolica et é debita ad Noi. Più che tutti li fo restieri nativi de qualsivoglia cità terra et Iodio li quali possedono o possederanno in la predicta terra et sua Corte beni stabili Siano obbligati Contribuire ad tutte ordinarie et extraordinarie graveze et spese per la rata de le cose possedute. Anchora ve concedemo non possiate essere gra vati per lo Governatore o locotenente ad mandare fanti e carregi fora de la terra, Corte et vicariato predicti senza honesto prezo, Non ad altra nova angaria et graveza salvo che per urgente bisogno del essere et del stato nostro. Et ch' el Barisello che sarà ordinario in la nr.a Cità de Cesena non possa fare ne le predicte terre et vicariato d'essa alcuna esecutione salvo prò Crimine lesaeMajestatis et atroce excesso. Et ultra questo volemo et ve concede mo non siate obbligati né possiate essere constrecti pa gare taxe per altre gente d'arme che per quelle servi ranno actualmente et stanzieranno ne le terre et Corte predicte. Et più che ciaschnno vicario de la terra pre dicta sia obbligato ogni semestre del suo officio contri buire a sue spese una balestra recipiente per la munitione de la dicta terra. Voi adunque sforzative in tal fede sin cerità et obedientia verso de noi perseverare, che abiamo ragione ogni dì più ampie gratie et privilegì concederve. Datum Komae in Palatio apostolico penultimo semptembris Millesimo quingentesimo. CAESAE. 31 20. Capitoli dell'accordo con Pandolfo Malatesta per la resa di Rimini, 10 ottobre 1500 (Bibliotcca Gambalunga di Rimini). Capitoli facti cum 111. S. Pandolfo de Malatesta de Arimino et lo Eev. Episcopo de Isernia generale locotenente et procuratore de lo Illustriss. S. Duca Valentino. Primo che el dicto 111. S. Pandolfo se parta de Ari mino districto et stato suo una cum li soi familiari do mestici, Et óuj li promettemo che passando per el terri torio nostro poterà andare libero et senza impedimento alcuno reale o personale tanto del S. quanto de li soi fameliari et robe.
     Item che el Prefato Signore Pandulfo ce dia in mano la rocha de Arimino de la quale ne habiamo ad prendere corporale et effectuale possessione et stringerla in podere nostro inseme cum l' artiaria et munitione de dieta rocha la quale li promettemo pagare ad exstimatione. Item semo contenti che tutti li soi ribelli habiano ad star absenti del territorio distretto et contà de Arimino. Item che tutti li cittadini del Consiglio siano exempti et lo resto del populo sia conservato ad beneplacito et deliberatione del 111. S. Duca Valentino. / Item semo contenti che tuta quella quantità di denari prometteva Eoberto Bencino citadino Cesenate de haverse a pagare al prefato S. Pandolfo da pagarli e sborsarli e ove dicto Eoberto nostro procuratore substituto prometterà ul tra al pagamento de la monitione et artiliaria. Item promitterao che lo pagamento sia ad affarse in Eavenna et non in Bologna ad quanto termino se convenirà cum el prefato Eoberto Bencino nostro procuratore substituto. Ita promittimus facere et observare. Jo. Epis. Iserniensis 111. Dni Ducis Valentini generalis locumtenens et procurator. — 483 — Io Pandnlfo affermo quanto dice de sopra pagando dua millia e novecento ducati dal dì de la consignatione de la rocha composta cum Eoberto Bencino predicto. Item che tuti li citadini habitanti in Arimino siano salvi, le robe et persone. Siamo contenti observar la dicta cosa. Jo. Eps. Isern. Ducis Valentinensis locumtenens gen. 21. Prefazione al Dialogus de dolore di Gaspare Torella (impr. Romae 31 ottobr. 1500 per I Berlikren et Martinum de Amsterdam). Illustrissimo ac virtuosissimo Domino D. Caesari Borgiae de Francia Duci Valentino Sanct. Eom. Eccl. gonfalonario ac gen. capitaneo: Gaspar Torrella Episcopus sanctae Justae: natione Valentinus: salutora. Quamquam elapsis diebns illustrissime Dux et Domine Tractatns de pudendagra iussu tuo et composuerim et im primere fecerim : tamen quia ut aiunt : facile est inventis addere: tum etiam quia impressoris negligenza nonnulla praetermissa: et aliqua incorrecta impressa fuerunt: istis de causis duos tractatus contra duo seva accidentia hunc morbum concomitantia : qui prò vera et completa pndendagre cura necessarii quam maxime indicio meo erant nuper compilavi : et sic omnes uno volumine imprimendos fore opere precium duxi. Pnit enim mihi semper animo et quo ad vires potui conatus sum assequi: ut de posteris benemerer: insuper quantum tua excellentia apud S. D. N. ac summos reges valeas: nemo est qui ambigat: ceterum non modo magnates : nobiles : proceresque verum etiam omnis populus: omnesque marciales: ob tuas acumulatas virtutes: tuumque preclarum ingenium: prudenciam: liberalitatem ac iusticiam: te summo amore prosequuntur. Et ut ainnt justiciam Bruti: constantiamque — 484 — Decii: continentiam Scipionis: fidelitatem Martii reguli: ac magnanimitatom Pauli Emilii superare videris: quare non abre diccre possum quod tu es unus qui nostrum exornas seculum : unus inter principes doctus et litterarnm cultor: unus litteratissimus : unus in armis peritissimns: unus qui domi bollique magnus evo nostro videri possit: nnus qui ecclesie libertatem ac autoritatem dilucidas et anges: que omnia ut te amarem dilige remque : et ad te has meas lucubrationes dedicarem : me irratrunt. Quando vero in tantis arduis laboribus tibi inducie dabunt: eos legero non orator solum sed piane etiam oro. Nam in eis quamplurima adnotavi digna comperies demum nutu tuo imprimendos fore: ac pubblicandos spero. Miraberis in super cum sim episcopus: qui specnlator dicitur negleta comissione mihi iniuncta litteris apollineis adeo affectatissimo operam dem: adeoque incumbam medicine ac medicos non solum diligam sed amena colamque.... Adducerem multa alia medicorum insignia : si putarem te non tedio afficere. Quibus de causis non solum ut ab inceptis non desistam me ortaberis verum etiam tu medicos exinde toto corde amabis diligesque: Vale. 22. Copia littfirae Ducis Vaìentini ad illustrissimum Tirbini Ducem, 20 novembris 1500 (Archivio Gonzaga in Mantova). Illustrissime Domine tamquam frater honorandissime. Per dare vera notizia di miei progressi a la Eccell. Tra. la adviso che continuandosi hoggi batter con l' artiglierie un certo torrione di questa città, per el quale havea de signata la mia intrata, et essendo a desinare, advenne che cadde in un subito la maior parte de essa torre: unde credendo certi miei che quello fosse advenuto quanto ha vea designato; presumpsere, per cupidità del primo ho — 485 — nore, intrarnel detto torrione: et di li altri in gran multitudine si mossero a seguitarli : ma io correndo adoprai di redurli, et così non obstante il lor grande ardore et le altre difficultà, redussili ; et esser morti solamente quattro, et tra li altri il signor Honorio Savello, percosso dal prin cipio da uno di miei canoni che ordinariamente tirava in quella parte: la qual cosa ha causato in questo exercito tanto eccitamento ot ferocità, che impatientemente soportano ogni dilatione di battaglia ordinata: perla quale spero in Messer Signore Dio conseguire prestissimo il deside rato effecto: del quale e di ogni altro mio successo fare mo advisata Vostra Eccell. per mie lettere. Ex pontiflciis castris ad Paventiam, XX novembris MD. CAUSAE BOEGIA DE FEANCIA DUX VALENT. V. S. 23. Diploma ad Andrea Bernardi stòrico forlivese, 21 dicembre 1500 (Biblioteca nazionale di Parigi). Caesar Borgia de Francia dux Valentinensis, Comes Diensis, Caesenae, Forlivij, Imolae, Britinorij,Isoduni item Dominus, ac sanctae Eomanae Ecclesiae Confalonerius et capitanens generalis, dilecto fldelio nostro Andreae Ber nardi hystorico Forliviensi salutem. Bonarum artium disciplinas usque adeo semper admirati sumus, ut non so- Inm illarum robur et plenitudinem consecutos propensioribus favoribus excolendo duxerimus, verura etiam sublevemus qui earum umbram cupida voluntate sectantur. Cum itaque tu illorum ex numero propterea haberi cupias, quod a novacula ad calamuia et a barbarum tonsura ad temporum descriptionem operam transferens quoque veterum hystoricorum non traditiones sed nomina tenes; et cum oorum attingere elegantiam nequeas, numerosa tuarum paginarum multitudine superas, te propterea ab omnibus et singulis tam realibus quam personalibus oneribus et — 486 — gravaminibus exemptum fore volumus, et praesentinm te nore, omnibus et singulis, praesentibus et futuris officialibns nostris ad quos pertinet, praecipimus et mandamns. Datum in civitate nostra Forlivij, vigesima prima decembris, millesimo quingentesimo anno. De mandato 111.re' Dncis AGAPITUS GEBAEDINCS. 24. f"J-fc? Bando ducale per i fuorusciti, 4 gennaio 1501 / (Biblioteca Gambalunga di Rimini). Per parte dell'Ili.""" principe et excel.mo S.re el S.re Don Cesare Borgia de Francia Duca de Valentia conte de Dia signor de Cesena, Forlì, Imola, Britonoro et Isoduno etc. et de la sacro santa Eomana Chiesa confaloniere et capi tane o generale. Se bannisce et so commanda che sotto pena de la vita , et confiscazione de tutti beni mobili et immobili nullo homo o donna de qual si vole stato o c onditione ardisca te nero alcuna pratica cum qualunque da foraussiti et ini mici del presente stato, Et che ciascuno al quale facesse 'capo alcuno de predicti o loro messi o lettere debia rete nerlo et incontinente prima che ne inteso ne commesso l'habia notificarlo et presentare al mag. c° Locotenente de sua Ex.tìa, Et ultra questo qualunque presentisse farse per alcuno el contrario el debia revellare senza intermissione de tempo sotto la pena predicta. Et revelandolo sarà te nuto secreto et premiato de bona remnneratione. CAESAB. (sigillo). Datum in Portu nostro Caesenatico lIII Jan. MDI. AGAPIICS. — 487 -r- ± 25. Diploma di privilegi alla città di Forlì, 15 gen naio 1501. (Arch. com. di Forlì). Caesar Borgia de Francia, Dux Valen. Comes Diens., Caesenae, Forlivij, Imolae, Britinorij et Isoduni Dominus, ac S. E. E. Confalonerius et capitanens generalis, Hagniflcis viris fidelibus dilectis Antianis Populi Civitatis nostrae Forlivij salutem. Indefessa fldelitatis et devotionis vestrae obsequia ed studia liberalitatis nostrae gratiam promerentnr; et propterea cum vestra Comunitas, sicut Nòbis exponi curastis, nonnullis debitis implicita illis satisfacere absque auxilii nostri subventione non possit: idcirco vobis in annum a die 1° praesentis mensis januarij inchoandum salaria Guardiae Militique et duobus Officialibus eiusdem debita, in dictorum debitorum solutionem convertenda ita remittimus et donamus, ut vos ipsis Antianis duodecim numero dictorum Officialium viris suppleant tribus ex vobis trimestribus praeficiendo: qui dicto rum Officiorum debito tali cliligentia insistatis, quod nihil eorum debito detrahatur. Datum in civitate nostra Caesenae XV januarij 1501. CAESAR. AGAPITUS. ,*,<, 26. Bando per la delazione delle armi, 18 gennaio 1501 (Bibliot. di Rimini). Per parte et comando del Locotenente dello III.re et Excellentissimo Signore, lo S.re Cesare Borgia de Francia Duca de Valenza Conte de Dia Signore di Cesena Forlì Imola Brettinoro et Isoduno etc. et de la Sacrosanta Eomana Ecclesia Confaloniero et Capitaneo gen.le — 488 — Se bannisco et comanda che alcuna persona di qual stato o grado o condition si sia, intendendo tanto de sol dati de sua Excelleatia et stipendiali como de altri gentilhomini citadini artesani contadini de la cita de Ari mino et suo contà et forestieri etc. da qui inanti non ar disca né presuma portar arme ; ma debba quelle deponer facto che sarà il presente proclama non obstante privi legio o licentia ad alcuno da sua Ex.ma Signoria concesso, o altra cosa in contrario. Et questo sotto pena de la di sgratia de la predicta sua Ex.m" Signoria et de venticin que ducati d'oro et doi tracti de corda per lo dì et de 50 ducati con quattro tracti de corda per la nocte, da esser irremissibilmente puniti, subito che saranno ritrovati in fallo. 27. Lettera di re Luigi XII a Giovanni Bentivoglio ed al Reggimento di Bologna, 30 gennaio 1501. (Archivio di Stato in Bologna). Louis par la grace de Dieu Eoy de France de Sicilie et Jerusalem duc de Millan. Treschers et grants amys. Ponr ce que nous desirons que l'entrepreise de Fayance pnisse terminer et prendre fin a honneur de nostre saint pere et nostre tres-cher et ame cousin le duc de Valentinoys confallouyer et Cappitaine generale de l'Eglise. Nous vons prions tres affectueusement que vous veuillez de tout votre pouvoir ayder et favoriser notro dict cousin de gens vivres artillories et autres clioses qui luy seront necessaires, Et davantage donner logers a la bande de gendarmes que promtement luy envoyons en terres de Boulogne et mesmement a Castel Boulougnoys qui est lieu trespropre et convenable ponr faire ung bon et prouffitable s"rvice a la diete entrepreise, come l'on nous a dit et demon stre. En oultro de ce que vous satisfferez grandement a — 489 — nostre dicte saint pere et au sainct Siege appostolique, vous Nous ferez plaisir tres singulier. Tres chers et grants amys, notre Seigneur vous ait en sa garde. Escript a Bloys le XXXme jour de Janvier. Louis. EOBEETET. A nos tres chers et grants amys les S. Jehan de Beiitivolle et Corumis et Depputez au Eegiment de Boulogne. 23. Supplica degli uomini di S. Maria in Cereto al luogotenente di Rimini, 19 febbraio 1501 (Bibl. Gambalunga di Rimini). Illmo et Excellentmo S. nostro. Se expone a V. S. per parte de li fidelissimi vostri servituri et omini de Santa Maria in Cereto Jomeo Froxono, Andrea Prexono, Bene detto Frexono, Sante Tarallo, Gobbo Tarallo, Michele Tarallo, Francesco de Pasquino, Giovanni de Aulanutis, Sante Fantino, Pero de Tamagnino, Mateo de Porte, Giovanne di Malitia, Malgarita già moglie de Biaxo Frexono, Como che epsi omini e capo de famiglia novamente se sono appresentati nante all' ufficiale de le vie e punti per suo co mandamento dove che dicto ufficiale li ha facto intender loro essere caduti in pena de quaranta bolognini per uno per inobbedientia in la quale se dice essere loro incursi per non aver facto due punti in la contrada secondo che dice aver referito el Vicario de la contrada aver coman dato, et non esser stato obbedito. La qual cosa non se trovarà mai essere di verità che dicto Vicario abbia facto tale comandamento ad alcuni di epsi nominati, perché quando fusse la verità che dicto Vicario avesse facto tale comandamento non é verosimile che almanco non avesse —490 - qualche testimonio a qualche uno de dicti asserti coman dati, e tanto più che non é verosimile che almanco qual cuno de dicti assorti comandati non avesse facto qualche poco o assai demostratione de essersi approsentati a la vorare al loco de dicti punti, e tanto maggiormente non é da credere al dicto Vicario perché é cosa manifesta che agli altri punti che sono stati comandati glie sono stati facti senza disubedientia alcuna. Slmilmente in tutti gli altri lavoreri a comune quando gli omeni sono comandati la uxantia é di venir a lavorare, et se non tutti almanco non fo mai che non se no appresentasse una parte, ma in questo caso non glie sono venuti nes suno perché nes suno é stato comandato. Ma solo dicto Vicario ha facto tale cattiva relazione de facti di essi supplicanti per scu xare si da la pena sua di non aver comandato per incol par altri de non aver obbedito, la qual cosa é fora d'ogni debito de iustitia benché dicto Vicario se confida che adesso solo se debba prestar più fede che a tutti essi altri sup plicanti, la quale però non é vera considerate le raxoni sopra allegate et maxime de imporre la pena sua a le spale de altri. Et per questo se riducono essi supplicanti a la V. G. S. quella pregando se voglia degnare com metter a chi pare e piace a quella che habita aliqua cognitione ut saltem p1ena fide deductorum in precibns summaria sola facti veritate inspecta abbia ad absolver et liberare epsi supplicanti dal dicto officiale de vie e punti e da essi comandamenti per tale raxone senza pa gamento alcuno de pena de capisoldi o di parte che perve nisse al dicto officio o officiale de quello non obstante ecc. pregando Dio conserva la V. S. ad vota. Auditor Arriminensis sola facti veritate inspecta iustitiam faciat ut petitur non obstante etc. Bernardus Corbera Arriminensis Ducalis Locumtenens. Datum Arrimini sub nri. Sigilli fide Die XVIIII Pebruarii 1501. JOSEPH CATANEUS. * 29. Capitoli dalla resa della città di Faenza, 25 apri le 1501. (Bibl. coni, di Faenza). In primo che la S. de N. S. se compiaccia remuovere ogni censura, tanto contro la Comunità, quanto contro ciascheduna persona in particolare. Placet dare operam cum efféctu. Item che il Sig. Astorgio fratelli e cugini e tutte le loro famiglie siano salve, e possano andar liberamente ove li parerà. Placet. Item che tutti li loro beni immobili siano salvi e ne possano disporre a loro volontà, e li mobili si rimettano nella clemenza di sua S., per li quali l'illnstriss. Sig. Pao lo Orsino promette fare in modo che ne sij fatto ottimo trattamento. Placet. Item che tutto il popolo utriusque sexus e beni mo bili et immobili siano salvi, e conservati da ogniinjuria et offesa, et che ogni offesa fatta a sua Eccellentia o al cuno dell'esercito suo sia rimessa totalmente e perdo nata. Placet. Item che nessuno di Valdilamone, (Molo, Eussio e Solarolo e Granarolo e qualunque altro subdito, o del suo essercito non habbia ad offendere o insultare alcuno del popolo per qualunque occasione o iniuria o offesa fatta in praeteritum e esistente. Placet. Item che l' essercito di sua Eccell. non habbia a en trare nella cità ma andare altrove, dove a lei parerà, ma solo possa mettere nella rocca quel numero di soldati che sia sufficiente per mantenerla. Placet ne militibus detur in praedictam (?) Item che il conte Bernardino, M. Nicolo, M. Griffone e tutti i Contestabili o soldati a cavallo et a piede, e tutti li bombardieri e schioppetti eri, maestri d' artiglieria, mae stri di zecca, monetarii, e qualunque altro stipendiato al servitio del Sig. Astorgio s' intendano esser salvi franchi — 492 — e liberi, e possano andare sicuramente dove vorranno. Placet dummodo Muramento se obligent non venire cantra Sedetti Apostol. et ostiliter. ..t\-s Item clio tutto le possessioni e beni- mobili et immobili delli huomini di Faenza e suo contado essistenti in Valdilamone Oriolo Eussio Granarolo e Solarolo, et in qualsivoglia luogo del dominio di sua Eccell. siano salve e Uberamente restituite. Placet. Item che ogni religioso, che fosse stato per qualsivoglia causa spoliato de' suoi beneficii posseduti nel di stretto di Faenza, sia liberamente reintegrato. Placet. Item che tutti li Statuti Decreti Constitutioni e consuetudini osservate nel tempo del Sig. Astorgio, siano confermato por l' avvenire. Placet cessante fraude. Item che li officii della città di Faenza e suo do minio siano distribuiti alii huomini di detta città, co me si é osservato per il passato. Placet observari quod in aliis brevitatibus Dominii. (?) Item che tutte le condannationi criminali hucusque fatte siano e s' intendano totalmente relassate et annullata. Placet, Item che tutti li contratti fatti per il passato per il Sig. Astore et con lui restino intieri rati e formi; e similmente ogni donatione, o altri contratti fatti per altri soi antecessori, purché non paiano fatti in fraude. Placet. Itom che le monete battute per il passato per il Sig. Astore si possano spendere nel distretto di Faenza. Placet. Item che li beneficij della città contà castelli e domi nio a lei soggetti sijno conferiti alii originarii et abitanti in detta città e castelli e non ad altri. Placet dare aperam cum. Sanctis. Domino nostro. Item che tutti li creditori del Sig. Astore che apparischino per libri di sua signoria rimangiano creditori in Gabella o sieno sodisfatti con i datii di quella. Placet. Item che il popolo di Faenza havendo patito i danni che ha patito per la guerra dimanda gratia a sua Eccell. — 493 — di quella immunità dò praetoritis et essendone che li pa rerà. Placet. Datum ex faelicibus Castris Pontificiis 25 aprilis MDI. BAPTISTA OEPHINUS 30. Minuta di procura agli ambasciatori bolognesi, 28 aprile 1501. (Archivio di Stato in Bologna). Sexdecim Keformatores Status civitatis Bononiae. Dilect.mia nob. spectabilibus viris Joanni Francisco de Aldrovandis et Alexandro de Butrigariis civibus nostris salutem. Cum S. D N Dus Alexander sextus Pontifex maximus cupiat atque optet et petierit ut Castrum Bononiense tradatur et libere consignetur cum omnibus pertinentiis suis Illmo et Ex. Dno Dno Caesari Borgiae de Francia Duci Valentino et S. R. E. Confalorterio et Capitaneo ge nerali, et nostrae sit mentis ac intentionis desiderio praefati S. D N satisfare ac omni voluntate parere et obedire, vos Jo. Franciscum et Alexandrum antedictos tenore praesentium decernimus constituimus facimus et ordinaums et deputamus sindicos ac Procuratores et certos nuntios speciales nostros* cum plaena ac libera et omnimoda potestate tradendi et libere consignandi praefato Illmo Dno Duci Valentino praedictum Castrum Bononiense ac omnes pertinentias suas* ' et cum facultate omnia et singula in praedictis et jura praedicta dicendi ac peragendi et exequeudi, quae vobis videbuntur, et etiam cum auctoritate promittendi ac nos obligandi et praecipue M. Dum Joannem de Bentivoliis praesentem ac consentientem et nobiscum etiam vos constituentem ad dandum et praestandum praefato Illmo D. Duci omnes favores et omnia auxilia quae nos ipsi praestare et dare poterimus contra quoscumque per vos speciflcandos in quibuscumque promissio

     

    1 Le " indicano una cassatura nella minuta. — 494 —, nibus stipnlationibus ac pactisetobligationibus necessariis et opportunis prout vobis melius ac utilius visum fnerit etiam per pnbblicum instrumentum seu instrumenta unnm vel plura sive alias scripturas valida ac validandas quibuscumque clausulis et conditionibus ac obligationibus ne cessariis in debita et solemni forma modo et forma supradictìs et generaliter ad omnia alia in praedictis et omnia praedicta faciendum dicendum peragendum atque concludendum: quae nos ipsi facere dicere ac peragere et concludere possemus, si ibidem praesentes adessemus, cnm plano libero generali et absoluto mandato in praedictis opportuno et necessario firma et rata tenere omnia quae per vos in praedictis et jura praedicta vel eorum aliqao facta gesta et conclusa fuerint perinde ac si per nos ipsos dicta facta gesta et conclusa fuissent, hac sub condìtione quod persona praefati M. Dni Johannis de BentiTOliis non teneatur ad favores et praesidia ac auxilia antedicta praefato Illmo D. Duci contra supradictos per vos specificandos et nominandos, et etiam salvis et illesis et fìrmis manentibus omnibus et singulis dispositis et contentis ìn protectione nobis facta per Ser. et Christianiasimum Dum Kegem Prancorum quae nullo modo derogetnr neque ullo pacto derogatur intelligatur. In quorum oranium et singulorum fldem robur et testimonium praesentes nostras patentes litteras fieri fecimns, nostrique magni sigilli roborare. Datum Bononiae die vigesimo octavo mensis aprilis millesimi quingentesimi primi. BARTOLOMEUS GHISILAEDUS. — 495 — 31. Atto di procura per la pace agli ambasciatori bo lognesi, 30 aprile 1501. (Archivio di Stato in Bologna). Sexdecim Eeformatores Status Civitatis Bononiae etc. Dilect.mil nobis spectabilibus viris Jo. Francisco de Aldrovandis et Alexandro de Butrigariis civibus nostris salutem. Cum nostrae sit intentionis, mentis et animi, ut inter Ill. et Ecc. Dum. Caesarem Borgiam de Francia Dncem Valentinum S. E. E. Conf. et Capit. gen. et nos vigeat ac servetur singularis amor amicitia et optima beniv olentia ac bona et perfecta vicinia eo propter hoc die cum e.jus Ill.ma Donatione absente et cum 111. et Ex. Dno Dno Paulo Ursino exercitui armorum etc. praesente prò prefato 111. mo Dno Duce impresentiarum agente per publicum instrumentum rogatum et scriptum per nostrum secretarium infrascriptum devenimus ad capitula, conventiones et pacta in ipso publico instrumento conferta. In quo inter caetera cum expressum et contentum sit ut ca pitula con ventiones et pacta antedicta per praef. 111. Dum Ducem in sufficienti publica et solemni forma approbari et ratiflcari debeant per publicum instrumentum, et cum ejus subscriptione nec non cum subscriptionibus Ill.mi D.ni Julij et Pauli de Ursinis et D. Vitellocij de Castello. Idcirco vos Joannem Franc, et Alexandrum antedictos simul et conìunctos tenore praesentium decernimus constituimus facimus ac ordinamns et deputamus sindicos ac procuratores, et certos nuntios spetiales nostros, praesente. M.co D."o Jeanne de Bentivolijs et nobiscum etiam vos constituente, ad recipiendum et acceptandum approbationem et ratificationem cora subscriptionibus antedictis faciendum per praefatum Ex.re D.m D."' Ducem Valentinum mo do et forma ac condicionibus omnibus in supr. publico instrmnento notatis et contentis, concedentes etiam vobisplaenam facultatem si opus fuerit et vobis videbitur per publi — 496 — cum instrumentum nnam si ve pluva nomine nostro et praefati M.ci D."' Joannis praesentis ad hoc et consentientis approbandi et ratificando capitala conventiones et pacta omnia contenta in publico instrumento praedicto, et etiam cum facultate faciendi dicendi poragendi et exequendi in praedicta omnia et singula quae vtibis utilia opportuna et ne cessaria videbuntur et quaemadmodum vobis placuerit et visum fuerit et prout nos facere dicere et peragere possemus si ibidem praesentes essemus, cum plaeno libero generali et absoluto mandato in praedictis opportuno et necessario, firma rata et grata habituri praesente eodem M.0° D.no Joanne ad id consentiente omnia quae per vos in praedictis et circa praedicta facta et gesta fnerint proinde ac si per nos ipso et dictums M.m D.m Joannem dicta facta gesta et exequuta fuissent. In quorum omnium et singulorum fidem robur et testimonium praesentes nostras patentes litteras fieri fecimus nostrique magni si gilli munimine roborari. Datum Bononiae die ultimo mensis aprilis Millesimi quingentesimi primi. 32. >j Capitoli dell' accordo del duca con la Casa de' Bentivogli e il Comune di Bologna, 30 aprile 1501, tratti dalla Cronica ms. di Fileno dalle Tuate (Biblioteca dell' Università di Bologna). Fu conclusa la pace con lo Ducha Cesaro de Valentinese figliolo del papa, el Comun de Bologna e la Casa de Bentivogli, amico de l' amico e nemico del nemico con li infrascritti capitoli... Item che debino essere stati restituiti al Eezimento di Bologna tuti i luoghi terre castella robe ocupate per la zeute da esso Dncha e li ambassaduri restituiti e tute le persone soldati cavalli presi in qualunque luogo se trovassiuo e subito fare levare lo esercito. Item che el papa deponerà ogni odio avesse conceputo con lo Comune di Bologna e con M. Zoanne de' Bentivogli e li restituirà in optima gratia e ne farà segno con sue graziose lettere e confermerà el Eezimento in quello o non permetterà che per alcuno più sia molestato el presente stado e terre soe e da esso possedute. Item el Eezimento renonza e relassa al prefato ducha Castello Bolognese con soe iurisdizione e prerogative e cum quella amplificazione de iurisdizione e nel modo e forma che parerà al papa. El ducha consentendo che avuta la ratificazione de li prefati Capitoli non ne sia data la possessione salvo soldati ofiziali e castellano e robe loro. Item el Eezimento e M. Zoane concedono al dicto du cha stipendio per trj annì prosimi per cento nomini d'ar me a tri cavalli per homo che li abia a tenere per sua guardia comodità et a comune benefizio de li loro stadi e prometeno de' providerli del stipendio corente in Italia et de presenti darli la prestanza converrà. Item dito Eezimento e M. Zoane se obligano darli ogni ajuto e favore a loro possibile per ogni impresa che lui facesse in fra uno anno centra qualunque Signore e Si gnoria salve contro la M. del Cristianissimo Ee de Franza. Item che li Signori Julio e Paolo Horsini e Vitelozo Vitelj da Cità de Castello debiano prometere per la parte e sotoscriversi a li diti Capitoli e che essi Capitoli sarano ad unguem observati et etiam che quello é convenuto e parlato sarà satisfate insieme vicissim segondo che ac cadrà a la zornata declarando che per quanto non fusse espresso ne li diti Capitoli et occorresse fra essi Signori se intenda tuto dito fato e comprobato fra essi S. da veri S. e degni e leali zentilomini. Item che quando al papa piacesse li prefati Capitoli coroborare fermare agiungere diminuire e mutare in alcuna parte de quelli non alterando la substantia et effecto loro, el possa fare come li piacerà come é dito. — 408 — 33. Diploma di nomina a Jacopo Fasi Vicario di Faen za, 1 maggio 1501. Sedente Alexandro VI Pontifica maximo. Caesar Borgia de Francia Dux Valentinus Comes Dien. Eomaniaeque Dominus, ac S. E. C. Confalonerius et Capitaneus generalis, fideli dilectoque nostro Domino Jaco po de Pasijs Paventino salutem. De animi tni fidelitate, ac solertia confisi multorum apnd Nos testimonio comprobata, te Vicarium Civitatis nostrae Faventìae cira auctoritate potestate arbitrio salario emolumentis honoribus et oneribus consuetis praesentium inchoando eligimns, facimus, constituimus ac deputamus, mandantes OfEcialibns nostris etc. Dat. in Pontificiis Castris ad Villam Fontanam Kal. maii UDÌ. 34. Breve di papa Alessandro VI ai Pesaresi, 1° mag gio 1501 (Biblioteca Olivieriana di Pesaro). Alexander Papa Sextus. Dilocti filii salutem et apostolicara benedictionem. Cum sicut nostris pridem ad execntionem sententiae per Carneram Apostolicam : contra nonnullos perditionis filios certarum in Eomandiola Ciyitatum olim Vicarios nostros, privatos et excommnnicatos Dilectum fllium Caesarem Borgiam Ducem Valentinum S. K.Ecc." Confalonerium et Gap.re gen. cum excercitu nostro mittere nos opporteret ; idemque Dux strenue se gerens dictas Civitates earumque Arces Comitatus et districtus obtinuerit, et expugnaverit ; Nosque in illis prospero ac felici earum regimini consulere ipsum Ducem Valentinum de venerabilium fratrum nostro — 499 — rum S. E. Ecc.e Cardinalium consilio et consensu Vicarium perpetuum fecerimus et constituerimus, ac novissime obtenta per ipsum Civitate Faventiae, quam ut nostis, ob privationem illius Vicarij aliquandiu cum nostro exercitu idem Dux obsedit, ut melius Civitas ipsa Pisauri propter vicinitatem et propinquitatem aliarum per eumdem Ducem obtemtarum regi, dirigi, ac defendi valeat; Nuper in Con cistorio nostro de venerabilium fratrum nostrorum S. E. Ecc.e Cardinalium consilio et Consensu in Civitate istà Pisauri, ejusque comitatu, districtu, iuribus et pertinentiis suis ipsum Ducem nom. et praed. in temporàlibus Vica rium perpetuum fecimus constituimus et depntavimus, prout in aliis nostris sub plumbo literis desuper expeditis latius continetur. Ac commisimus dilecto fllio nostro Joanni tituli Sanctae Balbinae praesbitero Cardinali Salernitano; nostro et Aplicae Sedis legato, ut D.m Ducem seu ejus legittimum Procuratoram ad hoc ab eo specialiter mandatum habentem in corporalem possessionem istius civitatis ac Comitatus et Districtus iuriumque et pertinentium ejusdem nostro et dictae Ecc."e nomine inducat. Quare devotionem vestram monemus. et requirimus, ut sicuti prò vestra solita fidelitate vos futures speramus eidem Duci Dno vestro ejusdem monitis et mandatis omni reverentia et obedientia in omnibus parere atque intendere studeatis, ipsumque Ducem seu legittimum Procuratorem honorifice et benigne recipiatis, in ejus seu d.! procuratoris manibus debitum fidelitatis et homagìj praestetis juramentum in forma solita, aliaque faciatis et exequamini quae idem Dux seu Procurator praed. nostro et ipsius Ducis nomine referat, et iniunget, in quibus debito vestro et nobis plurimum satisfacetis, Nosque in rebus ac oportunitatis vestris reddetis in dies propensiores. Datum Eomae apud S.m Petrum sub anulo Piscatoris die prima Maji Millesimo quingentesimo primo, Pontif. nostri Anno nono. HADEIANUS. Dilectis Piliis Antianis, Consilio et Comuni Civitatis Pis.ri — 000 — 35. Copia supplicationis Dni Pandulphi Collenutij ad D. Valentinum (Biblioteca Oliv. di Pesaro). 111."'° Duca et Ex.mo Signor mio, Messer Joan Sforza S.r di Pesaro nell' anno 1488 senza alcuna mia colpa, senza processo e senza sententia, et fuore d'omni justitia tyrannicamente mi pose in un fondo di Eocca; et in quella mi tenne carcerato, reputato per morto, XVI mesi et otto zorni senza compagnia et coloquio mai de persona alcuna. In questo mezo ch'io stava cussi carcerato senza sa puta de cosa si facesse al mondo, fui spogliato de facto dei miei beni mobili et stabili pur senza mia colpa, senza cittatione, senza procexo, senza observantia alcuna di legge et di statuti; per iniustitia et iniquità del sudetto MS. Joanno sotto pretesto ch'io fosse debitore del S.r Jnlio da Camerino. Dell'anno poi 1489 per opera dell'Ili.'"° S.re MS. Hercole Beutivoglio fui liberato, decarcerato et ne l'hora propria de la liboratione per lo pre.to M. Jo. Sforza fai mandato in exilio, et cussi ingratamente me trovai spo gliato in un tempo, primo de la liberiate, poi de la robba, tertio de la Patria; et tucto senza mia colpa senza indiciò, senza observantia alcuna o colore de iustitia: non obstaute che a tanto il mondo fussono e siano noti li miei benemeriti et fidelissimi offitij de molti anni de optimo cittadino, et servitor verso il S.r Costantio suo padre et esso MS. Joanno. Essendo stato anni undici in exilio con la donna et septe figliuoli et altra mia famiglia privo d'omni facultate cum multi affanni et fatiche, como può pensare V. S. la summa de Dio et la providentia de la S.u di N. S. ha privato per suoi demeriti il d° MS. Joanno del stato di Pesaro et conferitolo degnamente ad V. Ex.tia Per la qual cosa vedendomi aperta la via per la expul sion del Tiranno, per la constitutione di V. S. legittimo Principe sopra di noi ; ad ricuperare la Patria et facultà mie, cum la restitutione delli interessi patiti per la ini quità di quello altro etc. Potsque sequitur longa narratio supplicationis centra adversarios suos. Capitoli della condotta coi Fiorentini fatti in Campi il 15 maggio 1501 (Archivio di Slato in Firenze). A laude e gloria di Dio e del beatissimo Alessandro papa sexto, et a pace della Eepublica e Signoria Fioren tina, e dello 111."'° S.r don Cesare Borgia de Francia, ducha di Komagna et di Valentia et della S. E. E. gonfa loniere et capitaneo gen.... Hanno fatta conchiusa et sta bilita insieme la infrascripta amicitia lega et condotta, con gli infrascripti capitoli, patti etc. cioé: Primieramente, che e' sia tra,le parti predette buona, ferma, perpetua amicitia et legha, a comune conservatione et difesa de' loro stati : per la qual conservatione habbia ognuna delle parte per la altra interporsi et in tervenire con tutte sua forze et potere, contro a qualunche persona, potentia o stato; salvo che della santità del prefato nostro S.r papa Alessandro sexto, et del christianiss. re Lodovicho duodecimo di Francia. Item, che la republica di Firenze, e per lei i prefati sindici ecc. promettono et da mo danno al prefato S.r Ducha condocta per trecento hnomini d'arme per tre anni da venire, cominciando el primo del presente mese di mag gio, con soldo di ducati trentasei mila di grossi per anno, integri, liberi et franchi da qualunche capisoldo et riten zione. Uè' quali trecento huomini d' arme sia in arbitrio di epso S.r Duca tenere due chavalli leggieri in luogho di uno huomo d' arme, ma non oltre al numero del terzo della prefata condotta: li quali huomini d' arme et cha valli leggieri sua Ill.ma S.ria babbi a fare tenere et paghare, et con quegli essere in aiuto et servitio d'essa E.8" Signoria di Firenze, per qualunche evidente bisogno, difensione di quella o di nova sua impresa : inten dendosi che quanto alla difesa di dicta E.8- Signoria le predicte gente habbino a servire contra qualunche potentia di qualnnche stato o conditione si fussi: et in questo chaso a ogni richiesta di dieta E.8a Signoria. Ma per nuo va impresa che decta E." Signoria volessi fare, debba il prefato 111."'° S.r Ducha servire a quella, essendogli noti ficato almeno tre mesi inanzi, non obligando però il pre fato S.r Duca la persona sua ad intervenirci altrimenti che per suo luoghotenente. El quale et le gente predette non habbino ad essere sottoposti ad alcuna iurisditione o comandamento de capitani o d'altra persona che delli commissari della prcfata E.'" Signoria; per modo che a sua Ill.ma S.r" o al suo luoghotenente et non ad altri appar tenga ghastigare o punire lo predicto genti, con gli privilegj, preroghativo et immunità contenute in qualunque migliore condocta fatta da altri da septe anni in qua. Item sia tenuto el prefato S.r Ducha, a richiesta di decta E.sa Signoria di Firenze, mandare al servitio della Cristianissima Maiestà del re di Francia decte gente per la impresa del Eeame, essendogli però notificato inanzi in tempo conveniente. Anchora la prefata E.8" Signoria di Firenze, et per lei i prefati sindici et procuratori in decto nome, da mo ri mettono et perdonano a qualunche si sia contro a epsa dimostrato in servitio del prefato Duca, et fatto havessi alcuno excesso o preda contro agli huomini, subditi et adherenti di epsa Sìgnoria, la quale le rimette nel stato nel quale erano prima che decto Dacha si movessi dal Bolognese. Item, oltra questo s' é convenuto che in la confedera — 503 — tione et legha predecta habbino a essere compresi tutti amici, confederati di ciascliuna d'esse parti con le conditioni sopradicte, li quali habbino a specificarsi in ter mine di quatro mesi proximi da venire; dichiarando però, che il decto Ducha non possi nominare Pisani o altri po poli o persone rebelle et inimiche de la prefata Signoria di Firenze; et e converso, quella non possi nominare al cuna persona, città o terra rebelle e iniruicha del dicto Ducha. Et Slmilmente promette lo prelibato S.r Ducha che nulla persona existente al soldo suo, di qualunche conditione si sia, offenderà, durante el decto soldo, per alcu no modo el stato et terre di epsa Signoria di Firenze; et contrafaccondosi, sarà in difesa di quella. Ultimamente decta Signoria di Firenze promette, che accadendo farsi per lo Ill.mo S.r Ducha la impresa di Piom bino, per epsa non si darà impedimento alcuno al prefato Ducha, né alcuno publico o privato subsidio al presente signore di Piombino. Le quali tutte soprascripte cliose le predette parte promettono attenderò et observare, et obligano eco. Acta fuerunt omnia suprascripta in Pontiflciis et faelicibus chastris ad castellnm Campium Comitatus Florentiae. Breve d'investitura per Castel Bolognese, 1° giu gno 1591 (Bibl. dcll' Univ. in Bologna). Alexander Episcopus servus servorum Dei dilecto filio nobili viro Caesari Borgiao de- Francia Duci Komandiolae salutem et apostolicam benedictionem. Dum eximiae n'delitatis pircumspectionis et prudentiae tuae caeteraque tibi a Domino tradita dona virtutum, nec non in gerendis re bus comprobatam experientiam ac dexteritatem singularomque tuam erga Nos et E. E. devotionem diligenter — 504 — attendimus profecto spem Nobis indnbiam pollicentnr qnod ea quae tibi liberisque ac haeredibns et successoribus tuis duxerimus concedenda bene circumspecte fideliter et prudenter exequeris ac concessa ad nostram et ejusdem E. E. illiusque Populorum felicem statum pacem prosperitatem et augmentum conservabis, ac propterea digne ducimur non immerito illa tibi liberisque ac haeredibus et successoribus tuis praefatis favore benivolo con cedere quaa tuis et eorum honori commoditati ac nostrnm et ejusdem E. E. subditorum statui et regimini prospe ro ac felici fore conspicimur oportuna. Cum itaque dilecti filij comnranitas civitatis nostrae Bononiensis, cui alias, ut asserebant, castrum Bononiense quod inter Imolensem et Faventinam civitates tuas situm est per Sedem apostolicara perpetuo fuerat incorporatum, quodque tunc tenebant et possidebant castrum Bononiense praedictnm tibi prò malori civitatum et castri praedictorum quiete et securitate dimiserint, cesserint et relaxaverint, Nos considerantes quos et quanta superiori anno tu, qui etiam dux Valentia ac noster et E. E. Confalonerius et Capitaneus generalis existis, in Eomandiola nullis iinpensis nullis laboribus nullisve periculis parcendo, prò huins Sanctae Sedis honore et authoritate rebelles et inobedientes nobis et eidem E. E. debellando civitatesque et terras per eos occupatas recuperando, ac ad nostram et ejus dem E. E. obedientiam reducendo strenue et intrepide effecisti, quibus sic exigentibus meritis illas sic recnperatas tibi liberisque haeredibns et successoribns tuis in remunerationem tot tuorumque praeclarorum gestorum de venerabilium fratrum nostrorum ejusdem E. E. Cardinalium consilio pariter et assensa per alias diversas nostras literas successive concessimns et assignavimns, proot in singulis literis praodictis plenius continetur. Ac cupientes dictum Castrum Bononiense illiusque incolas et habitatores benigne et quieto regi et gubernari prout et prò tua innata bonitate benignitate et dexteritate factumm esse speramus, habita super hijs cura eisdem Pratribus uo — 505 — stris deliberatione matura de simili illorum unanimi consilio pariter et assensu dimissionem et relaxationem praedictas admittentes ipsamque incorporationem litterasque apostolicas desuper confectas illarum tenores ac si de verbo ad verbum iDsererentur prò sufficienterexpressis etinsertis habentes, auctoritate apostolica ex certa nostra scientiaac deapostolicae potestatis plaenitudine harum serie penitus cassantes irritantes revocantes annullantes ac viribus omnino evacnantes ipsumque castrum Bononiense in snum pristinum et eum in quo ante incorporationem praedictam quomodolibet existebat statum restituentes reponentes et plaenariae reintegrantes Castrum Bononiense praedictum cum illius Arce Palatijs integris territoriis tenimentis districtibus adìacentibns universis ac omnibus et singulis membris iuribus iurisdictionibus actionibus proventibns fructibus redditibus et emolumentis eorum ac poenis etiam ex iustitia et subsidio salis ad grossum vel alias quomodolibet provenieutibus et proventuris ac gabellis, mero quoque et mixto imperio nec non omnimoda gladij potestate, tibi prò te liberisque ac haeredibus ac successoribus praefatis in perpetuira similibus consilio assensu scientia anctoritate et potestatis plenitudine tenore praesentium damus concedimus et assignamus transferentes et ex nunc in te ac liberos haeredes et successores tuos praefatos eisdem consilio assensu scientia auctoritate et potestatis plaenitudine ornne jus ac dominium in dictis Castro Bononiensi Arce palatijs integris territoriis tenimentis districtibus et adiacentijs illorumque hominibus et incolis Nobis et Bomanis Pontiflcibus et Camerae Apostolicae, nec non eidem Comuninati quomodolibet competentia Tu igitur ex traditis tibi dono caeJestis gratiae virtutibns ac liberi haeredes et successores tui praefati circa Ca stri Bononiensis praedicti regimine prosperum et tranquillum sic solicite et fideliter intendere curetis quod Universitas homines et incolae praedicti utilibus rectoribus et dominis providis gaudeant se commissos tnquo liberi liaeredes et successores tui praefati exinde apud Deum — 506 — et homines valcatis non immerito commendari ac nostram praedictaeque Sedis gratiam et benedictionem uberins'promereri. Nulli ergo etc. Datum Eomae apnd sanctum Petrum Anno incarnat. millesimo quingentesimo primo Kal. 'junii Pontificatus nostri anno nono. 38. Lettera di Simone del Pollajolo sul passaggio dei Francesi in Toscana e l'impresa di Piombino, 8 giugno 1501 (Biblioteca nazionale di Firenze). Al nome de Dio; a dì 8 di giugno 1501. Per esere stato fuori de la cità, chome sapete non o facto el debito mio di scrivervi : ora sendo qui fermo, scriverovi qualche volta, quando chosa notabile achadia. E Franzosi che vengano di verso Chascina volono la tera ne le mani cho la forteza, e a la partita loro la chonsegnorno ne le mani del nostro chomesario, dando loro le porte e la forteza ne le mani, prima si partisi Monsi gnore di Benj: e partitosi, si chopersono e Pisani, no credendo tanta diligenza si fusi usata e supì la loro ma lizia. Istasera sarano a Pogibonsi, e starano dua giorni: que' dal Ponte a Sieve istasera sarano a l'Ancisa, e sta rano lì una giornata cho Monsignore d'Obegni, e tuti si chongrigano en quelo di Siena: ordineranosi chome dovesino aoperare, e sanza posa si trasferischono a Eoma. El popolo di Eoma nò gli vuole dentro, avendo ordinato a ricevegli fuori della tera : resta ora se vorano e Franzosi. El papa fa ogni cosa per parere bono franzoso, avendo ordinato 1000 fanti dentro, e radopiato la guardia sua. E re di Napoli é Cholonesi fano grandi mercati di paro le, ma in fati non si vede per anchora chosa di momen to ; ma be' si vede e baroni Cholonesi e re de Napoli le loro cose portative mandale in Sicilia: che dinota deboleza. E Franzosi pasano chome donzele senza tema alcu na, avendo lascato in Lombardia bono rietro guardo, ben— 507 — che per anchora Mantova non fa nesuno segno di chapucini frastagliati ; e per tute queste chose si fa e Franzosi vincitori. Vàlentino à l'esercito suo parte a Sugereto e parte a Porto Barato. È con due mila la persona sua ito ne l'El ba: molti dichono che fuge e Franzosi, e io per me cre do vada a pigiare l'isola, chonsiderato no' può avere sochorso se none de l'Elba. Altro none achade dirvi, se none richordarvi che la mia persona v' é ubrigata insino a morte, e se fate gudizio sia bono a nula, non saré bene mi risparmasi. El simile dite a Mateo: rachomandatemi a tuti li altri. Vostro SlMONE DEL POLAIOLO in Firenze. Domino Lorenzo di Filippo Strozi in Chastelo Durante o dove fusi. 39. Copia di un breve al vescovo di Faenza, 12 luglio 1501 (Biblioteca com. di Faenza). Alexander papa servus servorum Dei Dilecte fili salutem et apost. benedictionem. Cum sicut dilecti filii Antiani civitatis Faventiae nobis nuper exponi fecerunt, monasterium monialium ordinis Vallis umbrosae, sanctae Humilitatis nuncupatum, quod super foveis dictae civitatis extra portam Hospitalis antiquo tempore portam Clavacinam nuncupatam constructum erat, occasione belli a civibus dictae civitatis totaliter destructum fuit, prò illonun securitate, non sperent amplius illud inibì reaedificari prò usu et habitatione dictarum monialium, sed unum aliud monasterium in dicta civitate in certo loco prioratus S. Perpetuae ordinis S. Marci de Mantua dictae civitatis, in quo — 508 — retrovactis temporibus unmn aliud monasterium esse consueverat, sub eadem invocatone construore et aedificare, prò parte dictorum Antianorum nobis fuit humiliter supplicatum, ut eis unum monasterium sub invocatone S. Hnmilitatis in dicto loco construi et erigi faciendi licentiam concedere, atque in praemissis opportuna providere de benignitate apostolica dignaremus. Nos igitnr hujnsmodi supplicationibus inclinati, consideratione quoque dilecti filii nobilis viri Caesaris Borgiae de Francia Romandiolae et Valentiae ducis S. E. Eco. Confa1, et capit. gen. etiam Nobis super hoc supplicantis, fraternitati tuae committimus et mandamus ut eisdem Antianis locura praedictum prò dicto monasterio construendo auctoritate no stra concedere valeas, et assignare eis dictum monasterimn cuoi ecclesia campanili campana claustro dormitoriis refectorio hortis hortaliciis et aliis necessariis officinis, sine alicujus praejudicio et privilegiis et gratiis gaudeat et ntatur, quibus dictum monasterium destructum potiebatur et gaudebat, licentiam dicta auctoritate largiaris, non obstantibus etc. Volumus autem, quod moniales dicti mona sterii in recognitionem dominii, priori sive commendatario prò tempore existenti dicti prioratus aliquem censum annuum , juxta ordinem per fraternitatem tuam faciendam, annis singulis omnino persolvere teneantur. Datum Eomae apnd S. Petrum sub anulo Piscatoris die XII Julii anno MDI Pontificatus nostri anno nono. Venerabili fratri episcopo Faentino, vel ejus in spiritnalibus vicario generali. — 509 — 40. Doublé des instructions de Edouart au duc de Valentinoys, 8 aoust. 1501. (Biblioteca nazionale di Parigi). Instructions de Edouart Buillon, varlet de chambre du Eoy, de ce qu'il aura à dire de par ledit seignenr au duc de Valentinoys. Et primiérement : baillera audit duc de Valentinoys les lettres que ledit seigneur luy escript, et luy dira que iceluy seigneur a esté bien adverty des bons et grans services qu'il luy a faiz au fait de sa conqueste et entreprinse de Naples, dont il le mercie de tresbon coeur, et de plus en plus cognoist, par offect, le bon voulloir qu'il a envers luy et de luy faire service, lequel est bien delibere recongnoistre cy aprez en ses affaires et le traicter comme son bon parent et amy. Itom : luy dira que ledit Seigneur, pour la grant fonile que ceulz dudit Eoyaulme de Naples ont en a cause do la grant assemblee de gens d'armes qui a esté et sont encores par dela ; veii aussi qu'il fault qu'il y demeure grant uombre de gens d'armes, pour le sanf-conduyt qui a esté baiile a domp Prederic de demourer six mois à Yscle, dont pourroit venir grant inconvenient si ladite force ne demouroit tellement que ce seroit chose insupportable au pays d'entretenir tout: ledit Seigneur prie audit duc de Valentinoys qu'il veuille renvoyer toute l'armée qu'il avoit amenée avecques luy pour le service dudit seigneur, tant de cheval que de pie, excepté sa compagnie qui est ordonnée pour demourer au Eoyaulme, et en ce faisant pourront myeulx vivre les ungz et les autres et sera un grant soullagoment audit pays, qui reviendra au grant pronffit et utilité de nostre saint Pere et de luy. Item : et dira ledit Edouart audit duc de Valentinoys qu'il fait loger ses dites gens d'armes en lieu qu'il verrà plus convenable, fors du royaulme, affin que s'il survient — 510 — quelque affaire en iceluy, ou les peùst recouvrer plus aisement et pour le service dndit seigneur; et qu'il face donner provision a les faire vivre en bonne ordre et police et sans faire pillerie. Fait a Lyon le VIII jour d'Aoust 41. Lettera di Ramiro di Lorqua al duca di Ferrara. 10 agosto 1501 da Forlì. (Archivio di Stato in Modena). 111. Princeps ac Ex. Dne'Dne observan. Ho recepirti) lo lettere de la Ex. v. do VII del presente per le quale intendo quanto la me scrive circa il desyderio haveria a che jo facesse scazare de terre et loci del mio 111. S. Du ca Jo Baptista Ferro subdito suo da Lugo cum alcuni altri soi parenti et complici, quali banditi per homicidij et maleficij commissi se sono reducti a Bagnara castello nostro de Imola, et omni giorno trascorrono sul territorio de la Ex. v. facendo multi disordini. A le quale respondendo dico che por bavere prima inteso tale insolentie, havea ordinato de expellere dicti delinquenti del dominio e iurisditione del prefato S. mio. Ma per haverme monstrato littere del pref. 111. S. mio de poter stare et habitare liberamente nel territorio suo, me ne dolo ad core et tanto più per non poter ottemperare al desyderio de la Ex. v. a la quale ultra le speciale commissione che jo ho dal mio 111. S. de obseguire a quella, etiam particularmente jo seria desyderoso de servirla in tutte le occurrentie a Me possibile per la singulare affectione et ser vitù li porto. Tuttavia già ne ho scripto caldamente al Locotenente d' lmola che debia cum effectu stringer quelli tali ad praestare idonea cautione et securtà de non of fender alcun subdito de la Ex. v. aut darli bando de terre et loci predicti. Et ultra questo per rispecto de la Ex. V. ne scriverò talmente al pred. S. mio che spero a la ri — 511 — sposta sua ne farà, la "Ex. V. resterà satisfacta: perché sum certissimo che la mente del S. mio é de volere bene vicinare cum tutti et precipue cum la Ex. V. li subditi de la quale, come ho dicto, ho in special commissione de dover ben tractare et amorevolmente et non altrimente che li proprij. Et a quella sempre me offero et ricommando. Porlivij X ang. MDI. E Ill.""D. V. Humill. servitor KEMIEO DE-LOEQUA. Ill.mo ac Ex D. Domino Duci Perrariae et Dno observ. 42. Atto dell'elezione dell'officiale allo scalo di Gabicce e Castel di mezzo, 17 agosto 1501, dal li bro de' Consigli (Bibliot. Oliv. di Pesaro). In Dei nomine amen. Die 17 mensis augusti 1501.... Lncchesius de Ligabitiis, Hilarius ser Eugenii de dicto loco, Federicus quondam ser Bartoli et ser Petrus Antonius de Castro Medii, et ser Silvius de Florentiola petierunt his diebus a mag. D. Locumtenente Ducali eligi ad officium Scali Ligabiciarum et Castri Medii. Quare de voluntate mag. Dni Locumtenentis Ducalis assentientis electionem d. officii vigore Statutorum Communis Pisauri spectare et pertinere ad Consilium Credentiae, et posito partito ad fabas de voluntate dictorum Dnrum Consiliariorum ad hoc et ad alia congretatorùm in camerino Camerae Jardini Curiae Ducalis Civit. Pisauri in numero sufficienti fuit conclusive obtentum partitum de dicto Hilario prò officiale dicti Scali prò uno anno incipient. post praesentem officialem de Scali cum salario honoribus et oneribus consuetis. Et ita facto posito et obtento d. par — 512 — tito per fabas undecim des si in ejus favorem, et per fabas septem in favorem ser Silvii, dicti DD. Consiliarii cum praesentia, assensu et voluntate d. mag. Dui Locnmtenentis dictum Hilarium approbavernnt et elegerunt. 43. Lettera del vescovo d'Isernia al vicario di Savignano. 27 settembre 1501 da Cesena (Archivio com. d' Imola). Spectabilis vir amice carissime. Ali dì passati ve scri vemmo devesti fare che li venditori de le carne non vendessino ultra el pretio consentito ne li Capitoli facti per la Comunità, del che intendemo né havemo inteso habiati facto alcuna cosa et per tanto ve citamo et monimo per die sequenti ad comparire nanti da Noi ad allegar per ché non debiati esser condamnato in poenam XXV dncatorum Camerae ducali applicandam nostro arbitrio declaratam, prò vestra inobedientia et negligenza de exe guir nostra comissione, et insuper comandarvi sub poena quinginta ducatorum ut supra aplicanda ad che venditori de carne non debeano aliquo pretextu vendere quella nitra el pretio consentito in detti Capitoli.... Datum Caesenae XXVII sept. MDI. Jo. EP. ISERNIENSIS LOCUMTENENS GENEKAUS. Spectabili viro Vicario Sanvignani amico diarissimo. — 513 — 44 Supplemento di Capitoli accordati alla Comunità di Sant' Arcangelo (Archivio com. di S. Ar cangelo). Supplemento de Capitoli che domanda la Comunità de Sancto Arcangelo alla Ex."" del nro S.r Duca de Komagna et de Valenza o vero per quella a la K.ma S." de MS. Jo. observantissimo Cardinali Salernitano deg.mo legato et S.r nostro Colendiss. etc. Imprima che la terra de Sancto Arcangelo et suo vi cariato sia vicariato proprio et non sia sottoposta a la inrisdictione de Arimino ne de Cesena. Placet. Item che tutti li beni et roba propria che dicta Co munità havea al tempo de li altri vicarij o vero ha acqui stati da poi siano de essa Comunità cioé le due possessioncelle et li mulini et case. Placet prout semper aliorum contrariorumque etiam de molendinis si facta fuerunt expensibus Comunitatis.
     Item li Immilli et Comune de S.'° Arcangelo in tutto suo vicariato et distrecto se offriscono per tri buto de la Ex."" de detto nostro S.re Duca pagare a sua 111."" S. omne anno libre mille de quatrini in tre ter mini de ciascuno anno cioé de quatro mesi in quatro mesi incomenzando correre dicto tributo in calende de genaro del 1503. Interim godano libera exemptione et tutti datij cioé de la beccarla, de pane de vino et orzole siano in perpetuo de essa Comunità et non siano obligati a pagare imbotada de grano vino olio o altre biade et fructi: ne li sia imposta nova gravezza de datio o gabel la per cosa alcuna che se venda o compari, o che se ca vasse o conducesse in grosso o vero a minuto, et questo se domanda de giure attento che al tempo de li altri S. '' Vicarii passati ditta Comunità non pagava niente, ma detti vicarii pigliavano la imbotada et tutti datij pre detti che in tutto montavano la somma de mille libre poco più o manco, Et subter Ecclesia dicta Comunità non pagava imbotada et altri datij che erano de essa Comunità et solo pagava cinquecento (?) libre a Santa Ecclesia, Placet. Item che li messi del thesaurero, li quali venissero a rescuotere el tributo o vero el barisello el quale venisse a fare executione contra la Comunità ovvero private per sone non possano tore per loro viatico et mercede più che quello se contene in le Constitutione. Placet. Item che in la venuta de locotenente Comissarij o vero officiali de qualunque condictione o vero comissione siano; la Comunità non sia obligata darli più che uno pasto como se faceva al tempo de altri Vicarij. Placet. Itt-m che in la terra de sancto Archangelo se man tenga la reunion del sale et sia dato a minuto quattro libre al bolùgnino de quatrini como se da in Cesena. Placet quod fiat prout fit Caesenae: Item che circa el pascolare et pene de danni dati et exatione de passagi dicta Comunità possa tractare tatti li vicini et circumstanti popoli de qualunque stato o con dictione, como loro tracteranno li homini de S.'° Arcan gelo, et tale exatione siano de dieta Comunità. Placet. Item che tutte consuetudini et conventioni le quali fossero intra li homini de la terra de S.to Archangelo et li homini de le ville del territorio et vicariato de S.'° Ar changelo se debiano intra loro mantenere et observare. Placet quod respiciantur conventiones hominum S. Arcangeli et dictarum villarum ad unguem.
     Item che a la Comunità de S.'° Archangelo sia lecito omne anno fare la fiera in loco et tempo consueti cum observatione de tutti capitoli de dicta fiera soliti et con sueti observari. Placet quod servetur perennis consuetudo. Item che li muri de la terra de S.'° Archangelo non siano rovinati per la Ex.tìa del detto S.r Duca nostro né per altri per suo comandamento. Placet. Io Card. Salernitanus prò 111. Dno Duce Komandiolae subscr. manu propria. — 515 — Sotto riportasi un breve del suddetto card. di Salerno per la concessione della fiera, datato da Macerata il 1° novembre 1501. 45. Diploma di prerogative a Carlo de' Maschi riminese, 5 novembre 1501 da Roma. Caesar Borgia de Francia Dux Eomandiolae Valeutiaeque Plumbini Dominus etc. ac sanctae Eom. eccl. Confalonerius et capitaneus generalis magnifico viro fideli dilectoque subdito nostro Dno Carolo de Maschìjs equiti et doctori Ariminensi salutem. Virtutum tuarum splender et litterarum scientia quibus equestris ordinis quam optime dignitatem exornas, ac insuper devotionis et fidei merita quas ad Nos et statumnostrum gerere compro baris, Nos inducuntut te tuosque posteros non solum quibus hactenus ex progenitorum tuorum meritis positi estis de caetero perfrui velimus verum etiam novis adcumulare gratiis non omittamus. Cum igitur te propterea Civitatum Eheatis InteramnaB et Ameriae ac terrarum illis adiacentium Gubernatorem a sanctis. Dno nro constitui fecerimus, exemptionibus quo que immunitatibus et prerogativis te tuosque hactenus usos fuisse affirmas, ut in posterum quoque uti et perfrni possitis et debeatis harum tenore decernimus, mandantes omnibus et singulis officialibus nostris ut illas in eadem in qua fuerint hactenus observatione perseverare faciant et permittant, contrariis non obstantibus quibuscumque etc. Datum Eomae in Palatio Apostolico die quinto novembris anno Dni millesimo quingentesimo primo. CAESAR. — 516 — 46. Mandato del duca di Ferrara per la presa di possesso di Russi Granarolo e Solarolo, 3 dicembre 1501. (Archivio di Stato in Modena). Hercules Dux Ferrariae, Mutinae et Kegji, Marchio Estensis, Comesque Eodigij etc. Si quidem inter alia quae ad constitutionem Dotis Illustris etExcelsae Dominae Dominae Lucretiao Estensis Borgiae Ducissae nurus et filiae nostrae dilectissimae spoctare Nobis etiam promissum fuit, quod loco pignoris, et cautionis partis ipsius dotis nobis dari debereut Castella et oppida Eussi, Granaioli et Solaroli in provintia Eomandiolae consistentia, nt in strumento superinde confecto clare patet ; et nunc ad executionem praedictorum deveniendum sit, propterea praesentium nostrarum patentium litterarum tenore ex certa scientia et absque alicuius alterius procuratoria nostri revocatione facimus constituimus creamus et ordinamus spectabiles et generosos viros Eanaldum Sacratum Comitem et in provintia Eomandiolae ad praesens Commissarium nostrum generalem, ac Hectorem Bellingerium oratorem nostrum nostros actores, factores et procuratores et quicquid melius dici et esse potest specialiter et ex presse ad recipiendum et acceptandum nomine nostro et loco pignoris et cautionis prò conventu dictae dotis, et ut supra dictum est, dicta Castella et oppida Kussi Granaroli et Solaroli in dicta provintia consistentia, cum suis fortilicijs arcibus territorijs villis et juridictione hominum, ac introitibus redditibus et proventibus adiacentijs et pertinentijs quibuscumquo et cum omnibus et singulis ad ipsas terras Castella et Oppida spectantibns et pertinentibus : Et generaliter ad omnia alia et singula dicendum, docendum, faciendum, gerendum et exercendum, quae in praedictis et circa praedicta necessaria fuerint et op portuna, et quae quilibet verns et legitimus procurator et nuntius noster facere posset, Et Nos ipsi facere posse — 517 — mus, si personaliter interessemus. Dantes et conferentes eisdem nostri s constitutis plenum, liberum, absolutum, speciale et generale Mandatum, cum piena, libera, absoluta, speciali et generali administratione dicendi docendi faciendi gerendi recipiendi et exercendi in praedictis et circa praedicta prò executione praedictorum prout necessarium fnerit ab et prout ipsis constitutis nostris magis et melius placuerit et visum fuerit : Promittentes Nos gratum firmum et ratum habituros quicquid per dictos nostros Constitutos in praedictis et circa praedicta factum gestum et procuratum fuerit, et non contradicere aut contravenire modo aliquo, ratione, vel causa, sub fide veri principis et obligatione omnium bonorum nostrorum praesentium et futurorum. In quorum robur et fidem praesentes nostras patentes litteras fieri iussimus et registrari et nostri sigilli magni Ducalis consueti munimine roborari. Datum Ferrariae in palatio Curiae nostrae anno dominicae nativitatis millesimo quingentesimo primo Indictione quarta die III mensis Dccembris. Lettera di Sebastiano di Zaccaria a Cesare Viarano 28 dicembre 1 501 (ex Epistolis familiaribus, ed. Faventiae, 1533). Sebastianus Zachariae presbiter faventinus Caesari Viarano civi faventino equiti aurato splendidissimo S. Nec profecto iucundius, neque mihi carius quid evenire poterat, humanissime Caesar, cum auribus meis insonuit, te borgia manus equestrem ad ordinem promotum. Hunc sane gradum amp1a domus, ingenuus sanguis, morum splender, vitae gravitas ac.ingenii tui acumen iam diu efflagitarunt. Vivebas nimirum non absque patrii census tibi nimis ancti iniuria, enim vero virtuti tuae venustius, et modestiae clarìus adiici poterat nihil quod et magis benivolos oblectaret tuos, et inimicos honestius humi prò — 518 — sterneret. Sic gemma in auro splendidior, sic rosa in surculo gratior, sic et nva in Tite extat pinguior. Hii nempe sunt viri, quorum fulgore civitas illustratur, et consilio augetur respnblica, hii amplas praefecturas snmma cum iustitia administrant, nec almae nrbis senator ni bac praefulgeat dignitate snbstitnitur ullus: ad hos spectat pupillorum viduarumque pia tutela, liorum est in pauperes et Christi servos pietatis viscera ubertim relaxare, et sacrarum aedium structura his praecipne reservatur. Itaque merito aurea veste incedunt, et eorum pedibus rntilans subnectitur aurum. Quare gandeo plurimum, mi generose Caesar, tibique valde gratulor, quippe qui nunc domum intrani arrident fores, applaudunt laquearii, pu dica assurgit uxor, nati spes unica genuflectit, deferunt noti, omnisque donique clientum turba festinans deservit. Superest demum summo largitori gratias et verbo et ope re sedulo agas, quo annuente sors tua incolumis servetnr. Vale vir cxactissime, urbis nostrae gemma. Ex aedibus meis V kalendas januarias MCCCCCII. 48. Capitoli concessi dal Governatore di Romagna agli Anziani di Forlì per l'anno 1502, inscritti nei libri della Comunità sotto il 6 gennaio 1502. (Archivio comunale di Forlì). Infrascripta sunt capitala concessa magnificis Dnis Antianis anno 1502 a magnifico et ili." Dno Eemigio de Lorqua dignissimo gubernatore Eomandiollae prò 111.""' Dno nostro Dno Caesare Borgia duce Valentinensi. In primis quod Antiani et Consilium duodecim debent habere cnram stratarum viarum pontum transitorum fossatorum fluminis ruptarum et aliorum lochorum pnblicorum et illis habent providere. Fiat. Ite in ad vendendum locai ulum Datiti Conmnis et de illis — 519 — solvendas expensas et ea exigi faciendum. Concedimus. Item ad providendum bechariis et peschariis. Fiat sine prejudicio alicujus personae Forlivij. Item ad providendum ad macinandum et ad faciendnm reserrare canalle et cluxam quum esset rupia. Fiat. Item ad providendum morbo ubi occnrrerit. Fiat. Item ad providendum necessitatibus turris orologij. Fiat. Item habent previdero supra nonnullis manseris ponderibus.... cnm hoc quod ipse debeat aptare orlogium sine aliquo pagamento. Fiat sine preiuditio alicuius personae. Et super hoc Antiani debeant congregari prout semper fuit consuetum. Placet. 40. Lettera del Luogotenente di Forlì al Governa tore generale sul passaggio di Lucrezia, 6 gen naio 1502 (Archivio com. d' Imola). Magnifico Signor mio. Benché io mi renda certo, V. S. meglio di me intenderà li progressi delli Signori circumstanti, tamen per mio debito aviso quella come per li nostri che vengono da Kavenna intendo che lì sono misser Carlo Zorzo cum circha 800 cavalli e che domattina se li aspecta Zampaulo Manfrone e Filippo Albanese cum 400 cavalli et che anche a Cervia si preparano le stanze. E più dicono haver inteso lì in Eavenna come li dea ve nire etiam el signor Pandolfo et el signor Joanne a le stanze: onde o vero o busi a m' é parso darne aviso a V. S. la quale come sapientissima mi mandarà se ho a far fare alcuna cosa, ma mi par non sia mal a far bona guardia. Insuper aviso V. S. come heri io feci convocar li Antiani et li quaranta, e cum tanta bona persuasio ne li exortai ad honorare la S.a di Madama Duchessa che ho obtenuto che le faranno un bello presente di cose — 520 — magnative, et etiam faranno molte altre demostrationi et alegrezze et molti altri honori in modo che io spero che ogni cosa andarà bene. Attendemo con sollecitudine a li allogamenti et putti et tutto sia ben preparato. Al cavamento de la rocha s'é dato bon principio: spero anche de quello V. S. si laudarà. .. Nec plura. Sono et a V. S. mi racomando. Ex Forlivij die 6. jan. 1502. E V. D. Servitor GALEOTTUS DE GUALDIS etc. Mag.co Duo Duo Eemigio de Lorqua Ducatus Eomandiolae Gubernatoris generalis, et Dno meo hon. 60. Supplica degli Anziani di Sant' Arcangelo al Luogotenente generale. 13 gennaio 1502 (Ar chivio coni. d'Imola). Magnifice Domine Dne noster singularissime Locumtenens generalis. Havendo noi controversia con li Ariminesi circa el pagare de le colte et altre gravezze per la possessione et loco possedeno in la nostra Corte, et noi possedemo in lo loro contado: la E.ml S. del Legato li pose silentio che non dovessino molestare noi, né noi loro in sino a tanto non fosse veduto de raxone. Et ben ché non sia stato veduto de raxone, niente de meno li Ariminesi non havendo alcuno respecto a quello che fu ordinato per il prefato E.mo Mons.r legato costringono li nostri ho mini a pagare la imbotada non solamente al modo et loco pagano al presente ma come pagavano alii Anminesi nante che fosseno del nostro Excellentissimo si gnor Duca. Pregamo V. magn. S.a non permetta li nostri nomini per detta raxone siano molestati ovvero permetta a noi che possiamo fare el simile a loro come havemo per — 521 — capitoli del nostro Ill.m° S.r Duca al quale non semo man co fideli che siano li Ariminesi, anchora che non siamo de tanta stima. A V. Magnifica S. vivamente ce reco mandiamo. Ex Santo Arcangelo die XIII jan. 1502. E V. M. D. Fidelissimi servitores Antiani et Terrae Consilium. Mag. c°Dno D. Eemigio de Lorqua generali Ducali Com missario Dno nostro etc. 51 e 52. Altre lettere di Remiro al Luogotenente ed agli Anziani di Forlì sul passaggio di Lucrezia, 24 gen. 1502 (Arch. com. di Forlì). Magnificis viris D. Antianis et Consilio Civitatis Forlivij amicis carissimis. Magnifici viri amici carissimi salutem. Per alchune importantie concernenti l' honore et stato de lo I1l.mo Si gnor Duca ve comittemo che alla receputa de questa faciate ordine de adunare octocento fanti bene armati et nomini disposti a l' arme et cussi tucti li nomini da ca vallo che sonvi in Forlì et circumstantie pure cum loro arme in ordine, li quali domatina in armi cum bono or dine se ritrovino alla Cava de' collj in contra alla 111.'""' Signora Dncossa, et in questo non interponete alchuna induxia che subito ordinate, et ciò per quanto amate lo honore dello Ill.mo S.r Ducha et desiderate la gratia sua. Et bene valete. Datum Caesenae XXIIII januarii MDII. REMIGIUS DE LORQUA EOMANDIOLLAE Gubernator generalis. — 522 — Magnificis viris Dno Ducali Locumtenenti et Antianis Civitatis Forlivij amicis carissimis. Magnifici viri amici carissimi. Volemo et per la pre sente ve comittemo che incontinente date ordine siano facte le spianate che protendono da Forlì alla via del molino de Selbagnono ordinando uno comissario che adaptamente facia fare subito dette spianate per quello viagio el quale perché intendemo é asasij sinistro farete serano ordinate et fatte in bon modo ita che domatina al dì serano expedite, et non ponete alchuno intervallo: similmente che li fanti et cavalli como ve havemo scripto a bona ora se ritroveno alla cava de' Colli in ordine cum le loro arme, et usate in questo grandissima diligentia. Bene valete. Datum Caesenae XXIIII januarij UDII. KEJIIGIUS DE LOEQUA EOMANDIOLL.E Gubernator generalis. Post scripta. In la intrada della Ill.ma madona Duches sa osservarete questi ordini, cioé che vostra Magnificentia una cum li Antiani et populo la expectarete suso la porta et cum le chiave de la terra, presentandone le of ferirete esse chiave nomine et vice nostri Ill.mi Ducis come ad patrona et signora alla quale se facia partecipatione del stato de sua Ex.tia Item li putti vestiti cum nna palma in mano cum gaudio et festa stiano inanti ad voi Gridando Duca Duca et Duchessa Duchessa. Praeterea circha le antedicte spia nate, el simille incontinente farete fare dal canto di là verso Faenza significando voi al lochotenente de Faenza facia fare el simille per el loro territorio in modo che ad uno modo di qua et di là siano facte et scontrate inseme le dicte spianate operando ogni celerità in modnm dictum ut supra. Et cossi se faciano sonare le campane et -altre feste in letitia de tal venuta. EEMIGIUS DE LOEQUA Gubernator generalis. — 523 — 53. Atto per la stampa dagli Statuti di Fano, 25 gen naio 1502 (Archivio com. di Fano). Die XXV januarii 1502. In anticamera residentiae Domini Gubernatoris convocatis et habitis Causidicis et Curialibus cum Advocatis procuratoribus et notariis, de quibus interfuit major pars, Super statutis stampandis et ad perpetuam memo ri am Ill.mi Domini nostri Ducis, ad quod opus prò solutione et impensa ut omnes et singuli ipsi praecipue contribuant prò rata et unusquisque emat suum volumen, Et sic expresso consensu et permissione libera remissum fuit Ill.mo Domino Gubernatori et consenserunt et contenti fuerunt, rogantes me Cancellarium. 54. Lettera di Remigio di Lorqua agli Anziani di Forlì, 28 febbraio 1502 (Arch. com. di Farli). Magnifici viri tamquam fratres diarissimi. Havemo inteso quanto in vostro nome ce sia stato esposto circha la promptitudine vostra in satisfare li creditori del ligname del che havemo receputo apiacere et ne persuade mo adovere satisfare. Circha el recercarme che vogliamo gra vare li circumstanti alla spesa de esso ponte non ce pare doverlo consentire volendo che a tutta la spesa fatiate provisione. Delli bandimenti in nostro nome facti per dare justo favore alii datij del Ill.rao S.r Ducha ve dicemo che se prestamente e con sollecitudine aprobate, ce farite intendere tal bando da voi do verse fare observare, saremo contenti in questo satisfare perché non intendemo inovare cosa alchuna contra l' ordinatione de la terra; ma quando che non, pure intendemo che el bando nostro justificato sia obedito perché lo havemo fatto acio — 524 — che le cose passano senza prejndizio alchuno, finché da noi altro serà determinato per la informatione Laveremo de la honestà. Al facto de lo colte et de la restitucione che domandate de le cose vostre da ser Tomaso Gruacimanno scrivemo al lochotenente de lì che in l'uno e l'altro proveda cumeffecto secnndo la oportunità. Arimini XXVIII fehruarij 1502. Vester KEMIGIDS DK LORQUA G-nbernator generalis. Magnificis viris D. Antianis Civitatis Forlivij amicis et tamquam fratribus carissimis. 55. Minuta di lettera di Filippo di Ravestain gover natore e del Consiglio di Genova, 19 aprile 1502 (Archivio di Stato in Genova). IH mo prjncipi Dno Caesari Bornie Eomandiole et duci P1ombini duo etc. sive ejns M.co D. Locumtenenti. 111."" princeps hon. Oblata fuit nobis supplicalo nomi ne Jordani Celexole patroni cujusdam galeoni et sociorum quorum quaerollam et petitionem ijs litteris narrare supervacnum putamus, cum ex ipsa supplicatane res ipsa late exponatnr. Itaque exemplum ejus praesentibus innecti iussimus ut Ill.ma D. vra quid ij supplicantes exponant facile agnoscere possit. Nos autem 111. Princeps si vera sunt que supplicatione narrantur praecamur benignitatem vestram ut prò generositate animi sui et prò equitate ac iustitia ita mandare velit ut supplicantibus ipsis promissa satisfactio reiectis dilationibus occius fiat quocumque integritati ac preclaris virtutibus vestris convenit. Nobis tamen id gratissimum erit qui D. vestram summo amore prosequimur et subditos vestros velut proprios Cives diligimus et habemns. Ceterum si quid prò dignitate vestra possumus, sciat — 525 — Excellentia vestra nos ad omnem amplitudinem suam cu pido et prompto animo .paratos esse. Datum Genue die XIIII aprilis. Ordine di don Ramiro agli Anziani di Forlì, 20 aprile 1502 (Archiv. com. di ForlìJ. Magnifici viri amici carissimi. Intendendo le spese excessive che per lo passato si solevano fare in la celebratione de novj confalonerj in quella ciptà" de Porlì per le quali molti ciptadini se involvevano in debiti non conve nienti a loro facultà, et volendo che ad tal inconveniente et immoderate spese se pona alchuno ordine ad preservatione de le facultà d'essi citadini, volemo et ordinamovi che cum presentia del mag.c° locotenente debbase limitare et dare confacente ordine et modo alle spese da farse in la ellectiono et sollenità d'essi confalonierii, non intendendo che per la Camera se habia ad pagare rata alchuna et cossi ordinarete siano redute dicte spese ad una onesta et espediente limitatione. Bene valete. Datum FaventiaeXX aprilis MDII. EEMIQIUS DE LOEQUA EOMANDIOLAE Gubernator et locumtenens generalis. Hagnificis viris Antianis Consilio Civitatis Forlivij amicis carissimis. 57. Lettera di don Ramiro al duca di Ferrara, 23 aprile 1502 (Archivio di Stato in Modena). Ill.me Princops et Excell."'6 Dne et Due mi observan — 526 — tissimo. Havendomi alii zorni passati ricercato V. Ex.tu per sue lettere de la tracta de certi grani come quella sa fai contento che per questo Stato li fusse dato libero tran sito pur che non fnssero conducti in territorio de Firentini. Et de novo anchora ordinarò questo medesmo cnm la predicta conditione. Ma perché intendo che tale quan tità de grani non se extrahe per uso de la prefata V. Ex.tia come me persuadeva ma se converte in uso et com modo de altre particulari persone, in questo la V. Ex.tu po' far qualche consideratione, imperocché ad particolar commodo de altre persone private non potria tal licenza haver concesso. Ma in uso et beneficio de la prefata V. Ex."* più che voluntieri me trovarà parato cum sit che non meno de questo stato che il mio Ill.mo S.r Duca pos sa disponere ultra la expressa commissione che da sua Ex.tu ho in mandatis. Faventiae, XXIII aprilis MDII. E V. Ex.'* Servitor EEMIOUUS DE LOBQTJA EOMANDIOLAE GUBEEN. 111."'° Principi et Excell.m" Dno Dno Duci Ferrariae etc. Dno meo observantissimo. Frammenti del diploma di nobiltà a Taddeo della Volpe e fratelli. 9 maggio 1502. Caesar Borgia de Francia Dei gratia Dux Eomandiolae Valentiaeque Princeps Andriae Dominus Plumbini et S. E. E. confalonerius et capitaneus generalis magnifico viro Thadeo de Vulpe civi imolensi ex Nobilium custodiae nostrae cohorte salutem - 527 — Cujus Thadei strenua opera saepe in bello usi sumus et ttim maxime, cmn civitatem nostram Paventiam tunc ab hoste possessam et illa clara obsidione expugnavimus . tunc enim nostro adjunctns lateri, et sub ipsius urbis moenibus in irrumpentes hostes fortissime pugnans, nec scutis duo bus, altero ad flxorum telorum pendere abiecto alteroque lapidum mole effracto, nec oculi dolore pro pria manu cum sagitta avulsi tardante, ante excedere pu gna voluisti, quam repulsos hostes magna eorum caede videres Utque in his clarins nostrae in te dilectionis inditium semper extet volumus, ut ipsius scuti seu tegumenti superior pars ex nostrorum insignium fasciis contegatur.... et ut supra galeam vulpes humero tenus emineat, cui cristae ex pluribus erectisque caudis adsurgeant, ut eo signo tnae militaris astutiae faelicibus semper eventis de cora designentur Te Thadeum antedictum equestri ordini coniungimus atque equitem creamus et Te germanosque tuos ac liberos posterosque tuos et ipsorum ex te et ipsis ortos et nascitnros perpetua omni immunitate gaudere, quos omnes etiam declaramus et jubemus perpetuo nobilitatis splen dore fore conspicnos Datum Eomae in Palatio apostolico nono die Maj Anno Domini MDII. Ducatus vero nostri Romandiolae secundo
    ■59.


     Altra lettera di don Ramiro al duca di Ferrara, 13 giugno 1502. (Archivio di Stalo in Modena).

     111. Princeps et Excell. Dne. In questa bora son giunto ad Faventia per nova commissione del 111. mio S. Duca assai importante. Per il che non posso occuparmi alla receptione de quelle castello, et cossi ho deputato M. Pietro Ludovico da Pano et de Faventia Ducale Locotenente, Cesare da Viarana Ducale Thesanriero et ser Baptista da Gavina factore cum sufficiente mandato ad questo effecto, a li quali V. Ex. ordinerà sia facta la actuale consignatione dandoli do esse Castelli vacua et expedita possessione, et perché V. S. 111. de Cento et la Pieve li è data la possessione cum li fructi del anno presente, se debia ordinare pur quella se facia in queste altre terre da restituirsi cum li fructi percepti da suoi factori et pendenti, come me é significato per lettere del prefato mio 111. S. Duca et de M. Juliano Spinola. Et cossi expectarù per li procuratori praedicti esserne certificato. Alla p. V. Ex. continuo ricomendandome.Faventiae XIII Junij UDII. E V. Ex.tle
    Servitor
    EEMIGIUS DE LOEQUA
    Eomandiolae Guber. et locumt. generalis.
    ■60.

     Narrazione del duca d'Urbino al card. Giuliano della Rovere sui casi suoi, 28 giugno 1502. (Archivio di stato in Firenze).
     Monsignor mio reverendissimo. Son certo a quest'ora la S. Vostra averà inteso il tiro fattomi dal duca Valentino, et baverà preso ammiratone non ne esser stata certificata da me, del che supplico quella mi perdoni atteso che ho avuto tanta fatica campare questa povera persona, che ad altro non ho possuto pensare, la quale più presto per miracolo di Dio che per alcuna ragione, é ridotta qui. Mò per narrarle il tutto, sappia quella dopo la ritornata di Nicoloso Doria, essendosi scoperte le cose di Arezzo centra Fiorentini, non mi possendo persuadere di esser così ingannato, non havendo io mai fatto né pensato cosa se non di piacere et utile del papa e del Duca Valentino, me ne stavo riposato, parendomi le cose di Toscana e di Camerino esser due grandi imprese, e con qualche iustih'catione. Oltre che dal Papa, Cardinale di Modena, Trans, messer Hadriano, S. Paolo Orsino. Duca Talentino ogni dì il mio huomo in Eoma era più accarezzato et assicurato: et in spetie il cardinale di Modena permezzo di un frate osservante mio amicissimo e di grande autorità mi fece sponte intendere che sopra la testa sua io stessi sicuro, che egli sapeva tutta la mente del papa e che haveva visto tutto quello che si era scritto et in Francia et in Germania et in Venetia, e che mai di me s' era fatta alcuna mentione se non in bene. Si che standomi quieto, e deliberando esseguire il parere della S.a V. si come già io havevo fatto intendere a quella, con desiderio grandissimo che quella mandasse per l'Ili. S. Prefetto, fui avisato della partita del Duca da Eoma con tutta la gente. Et in quello istante fui ricercato da Vitellozzo, il quale essendo entrato in Arezzo con li suoi e non avendo la citadella stava dubbioso, di mille fanti; al quale io risposi che per la santità di N. S. e del Duca e suo ero per fare ogni cosa; ma che '1 considerasse che. essendo Fiorentini in protettion di Francia, et io non havendo nessuna particolare inimicitia con Fiorentini per mia iscusatione mi facesse scrivere dal papa un breve, et io come vicario di N. S. lo faria ; di che si sdegnò forte e disse che non lo poteva fare, e che faria senza di me. Di poi arrivò il vescovo d'Elna a Perosa comissario genera le di N. S. all'impresa di Camerino, il quale mi mandò dui spagnuoli huomini da bene con un breve di N.° S.r tanto amorevole del mondo ; con dire che havendomi sem pre conosciuto devotissimo della sede Apostolica e della Santità sua, mi pregava volessi concorrere a tutte le im prese del Duca, e facessi secondo il profato vescovo mi ricercava: al che risposi subito ero per fare quanto vo leva la sua S.t8 Li spagnuoli poi a bocca mi dissero, che bisognava l' artigliaria facesse la via di Gubbio, Cagli, la Serra e Sassoferrato, e che facessi conciare le strade, e commandare bovi, o dare il passo per mille e cinque 34 cento fanti, e vittoaria: et cosi subito rimandai con loro dal vescovo messer Dolce a farli intendere, che tutto si faria di bonissima voglia; e commandai al commissario di Cagli, e luogotenente di Gobbio, che facessero tutto. Di poi scrissi pur a messer Dolce, che essendo lì a Perosa si facesse incontro al Duca fino a Spoleti, e li vi sitasse F Ex. S. et offerisse a quella ogni nostra facoltà, dal quale Duca fu visto tanto gratamente, e con tante dimostrationi, che più non si potria, e ringraziommi in finitamente, e conferì con lui che deliberava non avere al tro fratello in Italia che me, et ultimo loco mi pregò strettissimamente ch' io dessi mille fanti a Vitellozzo. Tornato messer Dolce, e rcferitomi il tutto, il rimandai subito al Duca, e focili intendere che etiam per prima per breve di N.r° S-" e per lettere dell' Ex S. io haveria fatto, parendomi essere scaricato co '1 Ee di Francia; ma perché il breve non si poteva havere a tempo, per salvare il tutto, che facesse che Vitellozzo mandasse uno delli suoi nel Stato mio a far detti fanti, ed io spende ria del mio mille ducati, et faria 500 fanti parendomi bastare, perché da poi venne nova Vitellozzo haveva avuta la cit tadella, e perciò non li bisognava più dubitare; e misi in ordine un bel corsiero, con sopravesta di broccato per mandarlo il dì seguente a donare. Partito messer Dolce la mattina, il Duca che subito da Spoleto cavalcato- volaudo verso Costacciaro, mandò due milla fanti innante, che dicessero essere li fanti delle artigliarle, li quali ac cettati dall' huomini miei che così avevano in commessione senza più indugiare si spinsero verso Cagli; il Dnca dopo loro volando al medesimo camino, in modo Stes ser Dolce trovò la persona del Duca tra Cagli e Canthiano. In quel medesimo istante fai avvisato da Fossombrone, che delli due milla fanti, quali il Duca Valentino li ha veva fatti più giorni erano in Eomagna per la impresa di Camerino, mille n' erano andati tra F Isola di Fano, Sorbolongo e Eeforzato, che sono li passi tra il stato mio e quello del signor Prefetto; et oltre detti mille fanti era commandato un huomo per casa in quel di Pano. Il conte di Montevecchio, e di san Lorenzo, che pur erano a quelli confini erano più dì sono soldati del Duca. Intendendo io per spatio di un' bora tutte queste nuove tanto diverse alla mia espettazione, che tutte le intesi alle 24 ore es sendo a cenare, e fuori della terra a piacere, come quello ero sicurissimo ma ne tornai subito a Urbino, e giunto arrivò uno mandato della Communità di S. Marino a far mi intendere, che tutto il resto delli fanti di Komagna, che erano mille, con commandati assai, erano a Verucchio e Sant'Arcangelo, e che dubitavano grandemente delle cose loro. Poco di poi scrivendomi il commissario di Ca gli, il Duca venire come inimico e la mattina seguente voler essere a Urbino, essendo la terra in tutto disprovista e debolissima di muri, deliberai insieme con il si gnor Prefetto e tre delli miei con alcuni balestrieri a cavallo andare a San Leo, loco mio di Montefeltro fortissimo nel quale non se li può andare se non per dui passi: e così partito a quattro ore, e lasciato ordine alii miei che facessero per modo, che la Terra non patisse male nessuno, mi misi in camino; et essendo all'alba del dì arrivato a un mio castello distante lIlI miglia da S. Leo, intesi li fanti di Verucchio e Santo Arcangelo non essere andati a San Marino, ma aver presi li passi di San Leo", e gente assai comandata del contado di Eimini e Cesena avere circondato tutto il luogo: inteso questo e mandato uno a certificarmi del tutto presi la via verso un luogo mio del Montefeltro, chiamato S. Agata, assai buon luogo ma debile che confina co' Fiorentini, e col Duca; e lì alquanto riposati, perché li cavalli erano morti, licentiati prima li balestrieri, vestito da villano io con tre a cavallo sopra le cavalle et il Prefetto con dui delli suoi, deliberai ci dividessimo l' uno dall' altro : et avviato il si gnor Prefetto verso Valle di Bagno per la via più sicura, me ne avviai tra la montagna verso Fiorentini e li ca stelli del Vescovato di Sarsina, luoghi del Duca di Eo- ' magna. Quando fui discosto circa miglia XIIII da Santa i Agata, e miglia VIII dalle confine a un fiume chiamato il Borello luogo di Cesena fui assaltato dalli villani, e gridando carne carne, ammazza ammazza, cominciarono a perseguitarci e presero un servitore delli miei et una ' guida discosto da me una balestrata, il quale havevala mia bolzetta; noi altri fuggendo tuttavia con grandissima fatica arrivassimo a Castelnovo luogo della Illustriss. Si gnoria piccolo assai e circondato intorno dal Stato di Bomagna, e lì arrivato circa le XXIIII ore mezo morto feci scrivere alii Magnifici Eettori di Eavenna il caso come stava, mi posai la notte. Il giorno seguente a mez zodì venne uno mandato dalli Rettori di Eavenna, la quale é discosta dal detto luogo miglia più di XXVI facendomi intendere non dovessi dimorare lì per niente (credo certo a buon fine) parendogli il luogo debole, e nelle forze dei nemici. Udito questo pregato mi lasciasse stare fino alla notte, mi travestì ad altro modo con animo la notte an dare manifestamente alla morte. Essendo XXII ore havendo li Eettori di Eavenna rimandato un altro pur per licentiarmi, fu preso a Meldola luogo del Valentino, et esaminatolo che andava facendo, inteso il tutto, subito quell'ufficiale fece commandare gente alii passi, e mas sime verso Galiata paese de' Fiorentini, e per la via dritta di Eavenna. Il che havendo io inteso per via d' una don na, che per essere vicina Meldola un miglio a Castelnuovo, subito deliberai non aspettar più la notte, e montato a cavallo io con dui delli miei, o l'uomo delli Eettori di Eavenna con tre delli suoi, e due guide, pensassimo in gannare li nimici, e non andare alla via dritta di Ea venna, né di Galiata; ma andare verso Cesena e Bertinoro, che é il core dello Stato del Duca, ed era tornare proprio nelle loro forze : e così passando tra Bertìnoro e Cesena, e traversata la via maestra tra Forlimpopolo e Cesena, vicino a Cesena un miglio in circa, ce ne avvias simo per certe traverse verso Eavenna, senza impedimento, che veramente é stata cosa stupenda. Non più presto fatto notte sentissimo, non essendo anco in su quello di Ea venna, ma traversando quella campagna, Cesena, Forlimpopolo, Bertinoro cominciarono a trare artigliarla, suonare campane ali' arme, e fare cenni di fuoco, e tutti corsero dove poco innanzi eramo passati. Noi tutta la notte ca valcato arrivassimo a Ravenna al levar del sole dove semo stati bene visti da quelli Magnifici Eettori, e così da poi per il paese di Ferrara e hiersera qui da questo 111. S." tanto amorevole che più non si potria desiderare. V. S. E. intenda il tutto, e perdonimi se sono stato longo. Sup plico quella voglia far intendere al Chris.m° Ee tutto que sto fatto e sappia questa esser la pura verità, et a starne al paragone con tutto il mondo. E perché intendo '1 Duca cominci a dire io esser stato cacciato dalli popoli, sap pia quella, che tutti quelli poterò sapere la partita mia, non fecero se non piangere. Eaccomandomi alla Signoria V. E. e folli intendere non ho al mondo altro desiderio che stare al paragone di questa cosa innanzi alla Mtà del Ee, del quale sono stato sempre come sa V. S.a buon servitore e sarò sempre. Il S. Prefetto spero in Dio sarà salvo, e per rispetto alla via più sicura e per non aver inteso male nissuno di lui. Sappia quella ancora che '1 Duca poi arrivato a Urbino scrisse a messer Giovanni Bentivogli mi dovesse ritenere e darmeli nelle mani; e verso la marina di Sinigagìia, Fano, Pesaro e Eimino Sl milmente era fatta provisione d' avermi nelle mani. Quella sappia ancora io non haver salvato salvo la persona, un ginppone et una camiscia. Mantova XXVIII junii 1502. Di V. S. Kev. Affezionatis. Servitor G. Dux UEBINI.
    ■61.

     Lettera della marchesa di Mantova al cardinale d'Este 30 giugno 1502 (Biblioteca Comunale di Mantova).
     Bme in Christo pater et lile Dne Frater honorandissime. Lo signor Duca de Urbino mio cognato aveva in casa sua una Venere antiqua de marmo piccola, et così uno Cupido, quale gli donò altra volta lo Illmo Sr Duca de Eomagn - Son certa che questi insieme cum le altre cose seran pervenute in mano del predecto Sr Duca de Eomagna in la mutatione del Stato de Urbino. Io che ho posto gran cura in recogliere cose antique per onorare el mio studio, desidereria grandemente averli; né mi pare inconveniente pensiero, intendendo che la E. S. non se delecta molto de antiquità, et che per questo facilmente ne compìacerà altri. Ma poiché io non ho dimestichezza cum lei di sorte che senza mezzo possi assicurarmi de ricercarla de simile piacere, m' é parso de usare de la auctorità de la S. V. Ema, pregandola et dimandandole di grazia che la vogli et cum litere et cum messo richie dere in dono dicti Venere et Cupido cum tale efficacia che lei et me siamo compiaciuti; et serò ben contenta, parendo così a V. S. Ema, che la dimostri volerli per me, et ch'io gli abbi fatta grandissima instantia, et mandato questo cavallaro a posta, come facio ; che per un' apiacere et grazia non poteria ricevere la majore da S. E. et V. S. Ema, alla quale mi raccomando. Mantuae 30 junii UDII. E. V. S. Ema. ISABELLA MAECHIOHISSA MANTUAE. Domino Cardinali Estensi. 62. Diploma di privilegi al Comune di Casteldurante, 15 luglio 1502 (Archiv. com. di Urbania). Caesar Borgia de Francia Dei gratia Dux Eomandiolae Urbinique et Valentiae, Princeps Andriae, Dominns Pinmbini etc. ac S. E. E. Confalonerins et Capitaneus generalis egregiis viris fidelibus nostris dilectis Commu nitati et hominibus Terrae nostre Durantis salntem. Cum Nos in praescntia, curis majoribus occupati, non valeamus examinationi Capitulorum quae Nobis exhibuistis va care; ne interea detrimentum patiamini, toleramus et contentamnr, ut quod solitis legibus, statutis, ordinibus et consuetudinibus, dummodo illa iusta lionesta et rationabilia sint, parentes pacifice et tranquille vivatis. Et ut Nostri animi benignitatem et clementiam nsque ab initio nostri JPrincipatus experiamini, excessus omnes, crimina et delicta per vestros oppidaneos usque ad praemissi no stri Principatus initium commissa, dummodo tamen ab offensis, aut si illi non viverent, ab eorum coniunct is pax sit impetrata, cum quacumque reali vel personali poena aut mulcta incursa remittimus et praesentium tenore liberaliter condonamus. In contrarium facientibus non obstantibus quibuscumque etc. Datum in Civitate nostra Urbini, die quintodecimo julii, Anno Domini millesimo quingentesimo II, Ducatus vestro nostri Eomandiolae secundo. CAESAE. AGAPITUS. 63. Commissione a Nicolo Masini medico cesenate, 15 luglio 1502. Caesar Borgia Dux Eomandiolae Urbinique et Valen tiae ac Princeps Andriae, Dominus Plumbini etc. — 536 — Magnifice atque eximie vir fidelis noster dilectissime. Avisati de la nova indispositione sopravenuta alla 111.re" S." Duchessa nostra sorella mandamo con celerilà lo Eev.mo in Cristo Padre Mons. lo vescovo di Santa Justa nostro intimo Consigliero e Medico. E perché abbiamo opinione singulare della peritia vostra da ogni parte sufflcientissima, Vi esortiamo o commettemo, che alla rice vuta di questa montiate a cavallo, affrettando di trovarvi quanto prima a Ferrara, acciocché all'arrivo del predetto Monsignore siate insieme alla cura di sua S.a 111."", ope rando in questo quanto di voi confidiamo. Datum Urbini XVjulii MDII. 64. Altra lettera d' Isabella d'Este al marchese di Mantova, 22 luglio 1502 (Bibl. corri, di Man tova). Ill.rao S.e mio. Heri gionse il mulatero, quale ha conducto la Venere et Cupido che mi ha mandato il Duca Valentino et meser Francesco suo Camarero me l' a pre sentato et hogi piliato da me licentia se n' é partito. La Duchessa doppo la partita sua se mi ha dicto che quan do la S. V. havesse ad stare qualche giorni dietro la corto gli pareva che quella non dovesse defferire a man dare un homo o in nome di V. Ex. o mio como gli pa resse al Duca, per la dote sua, perché retrovandose presso la Chr.ma M.ta seria di maggior favore questa mandata che non seria quando la S. V. fosse ritornato a Mantova, per che allora parerla che lo facesse destituto de ogni altra speranza, et quando in questo megio el Duca partisse da Urbino, porteria poi magior difficultà la cosa, et cossi desidera che la Ex. V. sij contenta di mandargli Lodovico Brognolo como l'haveva deliberato; et ultra quello che lei scrive a V. S. me ha pregato che gli scriva anchor io, et gli mandi questo cavallaro a posta et tanto — 537 — più lo desidera quanto che se1 accadesse la reintegrazione del papa et re Chr. crede gli seria poi poco remedio alle cose del S.r suo consorte, et nondimeno retrovandosi V. Ex. li dove la debbe vedere tutte queste pratiche pigliarà quello partito che gli parrà più al proposito di V. S. A la quale non mi accade scrivergli altro per che doppo la partita di Andrea da Milano non é accaduta cosa digna di lei, el puttino sta benissimo insieme con le putte, et tutti noi desiderosi intender el medesimo di V. Ex. a la buona gratia de la quale sempre mi racomando. Mantuae XXII Julij MDII. Non scrivo de la beleza de la Venere per che credo che V. S. l' habbia veduta, ma el Cupido per cosa mo derna non ha paro. E S. V. CONSOES ISABELLA. 111. Principi et Ex. D. Dno obser. Consorti et D. Marchioni Mantuae. 65. Patente ducale a Leonardo Vinci architetto ed ingegnere generale, 18 agosto 1502. Caesar Borgia de Francia Dei gratia Dux Eomandiolae Valentiaeque, Princeps Andriae, Dominus Plumbini etc. S. E. E. Confalonerius et Capitaneus generalis. Ad tutti Nostri Locotenenti, Castellani, Capitunei, Con dottieri, Offitiali, soldati et subditi a li quali de questa perverrà notitia commettemo et comandano che al nostro prestantissimo et dilectissimo familiare Architetto et In gegnere generale Leonardo Vinci d' essa estensore, el quale de nostra Commissione ha da considerare li lochi et for tezze de li Stati nostri, ad ciò che secundo la loro exi — 538 — gentia et suo jndicio possiamo prevederli, debbiano fare per tutto passo libero da qualunque pubblico pagamento, per se et li soi amichevole recepto, et lassarli vedere mi surare et bene extimare quanto vorrà, et a questo effecto comandare homini ad sua requisitone et prestarli qua lunque aiuto, adsistentia et favore recercarà, volendo che delle opere da farsi neli dominij qualunque Ingegnere sia astretto conferire con lui e con il parere suo conformarsi. Datum Papiae die decimo octavo Angusti, anno Domini millesimo quingentesimo socundo, Ducatus vero nostri Eomandiolae secnndo. CAESAE. Mandat. 111. Dni Ducis A. Basyl. F. Martius. 66. Dedica al Duca dello Speculum Lapidum di Camillo di Leonardo fisico pesarese, 13 settembre 1502 (Ediz. di Venezia 1502). Camillus Leonardus Pisaurensis Physicus Illustrissimo ac Gloriosissimo Principi Caesari Borgiae de Francia Dnci Komandiolae S. P. D. Et si multis maximisque bellorum negociis celsitudinem tuam hac tempestate impeditala esse intelligamus, tamen cum prò innata tibi humanitate, prudentia litterarumque ac bonaruru artium studio quibus praeditus es, littoratos liomines et qui virtutibus incumbunt non modo facile verum etiam libenter audire et animo complecti solitus sis, libellum hunc nostrum ad te mittere non dnbitavimus, ut animum tuum assiduis curis laboribusque defessum novitate operis profecto non iuutilis legendo obkctare , iocunditateque aliqua reficere valeas. Nos antem quam parum ociosi simns testis est universa civitas tna Pisaurensis, Princeps Inclite: medicinae enim exercitio rqn ' — *JOV ~ i theoricaeque dediti omnem curam cogitatusque "ostros, studia laboresque in illius civium salutem noctu diurne libenter intendimus; his igitur curis aliisque publicis ac privatis occupationibus impediti facile potes perspicere quam raro quieti simus. Atamen si quid interea ocii datnr interdum, id libentius in litterarum studiis consumere, et ex communi nostro quo tenemur officio quicquid possumus ad liominum commoditatem ac utilitatem conver tere consuevimus. Ea igitur causa moti libellum hunc de natura lapidum qui ad salutem utilitatemque hominum conferunt, qui etiam non sine vigiliis, non sine labore ac longa perquisitione a nobis fieri potuit composuimus. Quae licet per diversos auctores divers.que doctorum virorum vo luminosa scripta sparsaque fuerint, nos tamen summa cura, opera ac diligentia quanta potuimus ex summis ac praestantibus viris pertractata, in hujusmodi libellum collegimus, quem Lapidum speculum nominavimus, in quo na tura viresque eorum, sculpturas, multarumque rerum cognitionem voluti in quodam speculo possumus intueri. Nos autem qui tuae Celsitudini et fide ac amore coniuncti sumus ut tenemur et in quo spes nostra posita est, qui patriae nostrae pater es et princeps, libellum hunc nomini tuo dedicavimus, cum studiosus sis et armis non solnm ac militiae verum et ingenuis literis totis viribus deditus, ut illuni si quando per ocium contigerit, oculis menteque percurras. In quo si quid obliquum neque recto iudicio tuo comprobatum invenies, ingenii nostri tenoitati ascribes veniamque concedes: non enim omnia possumus omnes: nbi vero aliquid lectione dignum comperies, dignissimisque doctoribus illis ex quibus excerpimus attribues. Et propter illorum summam auctoritatem ac spectatam dignitatem libellum nostrum inter alios tuos innumeros, ut ita dixerim, libros praestantissimae bibliothecae tuae adponere ac annumerare non dedignaberis, ut Camilli auctoris sui cum illum intueberis in amore saltem ardentior fias. Parvum profecto, clarissime ac magnanime Princeps, prò tantis tnis in nos oificiis munus hoc erit. Sed prò tua solita clementia ac benigniate non libellum hujusmodi, cartarumque superficiem sed auctoris animum mentemque considerabis. Vale din faelix. Pisauri anno salutis MCCCCCII Idibns Septembris. 67 e 68. Atti della cessione di Cotignola fatta dal Re di Francia al duca di Ferrara (Archivio di Stato in Modena). 1.) Lettera di Luigi XII, 22 sett. 1502. Comnnitati Cotignolae Auditis expositis per oratores vestros, pergratissimnm nobis fuit ea intelligere quae et indefessum vestrum in Nos studium et sinceram lidem ac devotionem omni ex parte osteudunt. Cum valde vereri videamini ne a nobis alienati sub cujus ditione degere plurimum capitis in alienas manns transferamini : quod sane propositum vestrnm etsi multis rerum argumentis prò vestra in Nos fide com portam habeamus, libentissime tum commemorari a vestris oratoribus audivimus utpote qui pari vos vestraque omnia affectione prosequamur : et inter fideles et dilectos subditos nostros vobis nltimum locum non relinquamus : quo fit ut et vestrum oppidum in fide ac ditione nostra retinere Nobis cordi fit : et solita vos dilectione ac can tate prosequi sedulo caremus: haec propterea quam fendalem investituram de ipso oppido ad tempus in ea limitatum in carissimum consanguineum nostrum Perrariae ducem fecerimus. vobis persuasum esse debet aut oppidum ipsum alienatum, aut vos quos summae dilligimus a protectione et superioritate nostra segregatos esse, cum ipsius oppidi directum dominium et omnimodam superioritatem retinuerimus ; et in ipsa concessione feudali eas conditiones condiderimus quibus facile intelligetis vos vestraque omnia Nobis cordi esse et securitati atque indem mtati vestrae plenae consultum fuisse, vobisque potius laetandum esse quod praefato consanguineo nostro de quo plurimum confldimus et in cujus prudentia et bonitate vos plnrimum requiescere debetis, commendati fueritis, quam ulla ratione dolendum quod a solita dilectione, ant superioritate nostra decidisse videamini. Quapropter ut bono et solito erga Nos animo sitis cupimus vobisque ipsis ita persuadeatis volumus, Nos nihil omnino nunc aut in posterum quod curam et tutelam rerum vestrarum oppidique vestri incrementum aut dignitatem respiciat praetermissuros daturosque sedulo operam, ut a praefato consanguineo nostro gratiose paterneque gubernamini, ita ut ex huiusmodi concessione non modicum fortunarum vestrarum ac pacis et quietis vestrae augmentum fructumque sentiatis, prout et Nos prò praefati consanguinei nostri prudentia et indefessa erga Nos nostraque omnia studio futurum confìdimus et optamus. Dat. Mediolani 22 sept. 1502. , 2.) Narrazione del commissario ferrarese, 26 ott. 1502. Ill.mo S. mio singolare. Giungessimo beri sera salva mente il M.co Messer Cesar et io ad Argenta, dove per qualche notitia havuta venneno a ritrovar il preditto ms. 'Cesar alcuni da Cotignola da li quali facilmente se com prese la mala contonteza de questi nomini de venir soto in dominio de v. Ex." Et ben che per sua M. fusseno rebatnti di questa loro trista opinione, non senza qualche reprehensione, laudando et extollendo la S. v. cum ogni efficatia: non di meno giunti che fussemo a Lugo questa matina, venirno a sua M. alcuni altri de epsi, et il Gubernator de praesenti de questo loco: e da loro inteso etiam il medesimo penserò de epsi homini, et fra le altre cose non voler quoque esser sottoposti né al Commissario di Lugo né ad altro officiale di V. S. in Eomagna, quando pur li sia forza a venir sotto il dominio de quella. In effecto pigliassimo in questo expediente per conclusione el p.l° M.c° M. Cesar et mi, de far restar il p.'° Commissario et non lo menar ni lui ni altri da Lugo: dubitando che per la venuta sua, attento il supradicto rispecto, non se guisse qualche scandalo, facendoli io intender che se ben per V. Ex." era sta ordinato che Ini havesse cum mi ad venir qua per questo effecto; nondimeno intesa V. S. la mala contenteza de dicti nomini e il rispecto predicto quella havea mutato intentione: et cussi ho pro visto che le lettere de credenza de V. Ex.a a questi homini in epso Commissario et in me, ni scrivano opportunamente in persona miatantnm. A le XXII bore poi hogi montassemo a cavallo, et giongessimo qui in Cotignola dove habiamo ritrovato dentro et fori grandissimo numero de contadini li quali cum li terrieri, e putì et done, Gridavano tnti alta voce Pranza Pranza, et duroet al cridar per gran spatio de tempo, che me ha porto qualche indicio do la mala voluntà loro, et anche feccenò qualche dimonstratione de vedermi mal voluntieri. Tu ta via smontati che fussemo il Massaro et homini quie del Consiglio venerno a visitare il predicto Mag.c° M. Cesar, dal quale da poi qualche parola de qualcuno de loro pure dimonstrativa do mala contenteza, fumo rebatuti et rebnati cum uno gaiardo parlare, facendoli apertamente intendere, che bisognavano che loro staessino piadenti e obedienti perché cussi era totale voluntà e deliberatione de la M.li Chr.°" recordandoli ultra de questo quanto la Ex. V. era de continuo benigna e clemente generalmente verso li sci subditi et lo optimo guberno la tenea de tuti li popoli soi, cnm tanta charità et amore che li potea a loro et esser clarissimo exemplo de essere tractati da quelli veri et fideli servitori che V. S. sperava li havessino ad essere senza dubio alcu no, a dducendo la M. sua tutte quelle più efficace et vere ragione a laudo oxaltatione e riverentia de V. Ex." che li fusse possibile ad usare in questo proposito. In modo che lei fece resentire dicti homini li quali final mente, inteso il tuto, han risposto assai humanamente, et de far consiglio fra loro et di poi essere cum sua M."" Adeo che per questo et per quello si é inteso da qualche particulare de epsi homini, apresso la disterità et solertia del p.to M..n Cesare mixta cum la observantia il ene a V. S. domatina se ne spera optima risolutione et con clusione, la quale etiam atio meglio sortisca, é parso a sua M.tla far restar a Lugo m. Ilario già gubernatore de questa terra per haver pur contracto qualche odio in que sto loco. Et veramente S.e mio é stato bono penserò il suo restar, e anche quello del dicto Commissario, che per quanto ho inteso e visto, non era punto a proposito de V. Ex-a el venir loro, per li supradicti respecti. De quello succederà domatina subito ne farò adviso a V. Illu. mia S. la quale serà certa che non se mancarà in al cuna parte de ogni possibile diligentia. Et a V. Ex." me recomando continuamente. Quae optime valeat. Cotignole XXVI octobris 1502. Eiusdem Ex.tio V. 'Servus JOANNES FEANO.' CANALIS. Del giorno dopo, 27 ottobre é l' atto della consegna fatta al Canale dal procuratore regio Cesare Guaschi del le chiavi di Cotignola "in signum verae et actualis apprehensionis possessionis dicti oppidi" alla presenza de gli Anziani consenzienti. 69. Patente ducale di libero passo ai Fiorentini, 19 ottobre 1502 (Archivio di Stalo in Firenze). Caesar Borgia de Francia Dei gratia Dnx Eomaudiolae Valentiaeque, Princeps Andriae, Dominus Plumbini etc ac S. E. E. Confalonerius et Capitaneus generalis. A tutti i Capitani, Condottieri, Capi di squadre, Contestabili, sol dati e stipendiati dell' esercito nostro, et al E. Presidente et agli colleghi Auditori del nostro Consiglio, Luogote— 544 — umili, Commissari, Podestà, Ufficiali, Comunità e parti colari persone mediate et immediate subditi nostri ai quali perverrà notizia delle presenti vogliamo sia manifesto, che noi desiderosi che l'eccel. Signoria Comunità e popolo di Firenze senta per comodo de' suoi cittadini e sudditi con formi dimostrazioni ed effetti alla stretta et fraterna be nevolenza che ad essa Signoria portiamo : Habiamo deli berato che i citadini e sudditi predetti con piena libertà e sicuramente conversino e mantenghino amichevole pratica con tutti i nostri sudditi e possine con le persone e beni loro per tutti gli Stati e Dominj nostri conversare, com mettendo e comandando a tutti i prenominati in genere e in specie, che a qualunque cittadino della prefata città o veramente suddito di quella non ardischino in alcun luogo e potissimamente per le città terre castelli e luo ghi del dominio nostro di Eomagna e di altri Stati no stri inferire alcun reale o personale impedimento, ma la sciargli liberamente con loro mercanzie e qualunque ra zione di beni passare conversare e praticare, dandogli per tutto libero passo e amichevole ricetto con buoni tratta menti e prestandoli qualunque giusto favore e aiuto ri cercheranno. Né di questo presumino fare il contrario per quanto gli sia caro di non incorrere in nostra indignatione, la quale sentiranno gravissima. Datum Imolae die decimonono Octobris, anno Domini MDII Ducatus vero nostri Eomandiolae secundo. 70. De auditorio Rotali olim erecto apud Caesenam tamquam Urbem Ducalem Caesaris Valentini (ex opere Braschii Diatribae Caesenates, 34, mmss. in Bibliotheca Malatestiana Caesenae). III. Occasione igitur quod Alexander P. P. VI anno 1500 Caesenam concessit in vicariatimi perpetuum Caesari Borgiae Duci Valentino ; hic urbem ipsam constituit "Civitatem suam Ducalem" et veluti metropolim amplae ditionis, cui dominabatur, complexivae sane Imolae, Faventiae, Porumlivii, Caesenae, Arimini, Pisauri, Fani et Britinorii; addito etiam Urbino (Scipion Claramontius scriptor Caesenas libro 16: fol. 747). Hac inquam occa sione, idem Alexander sua bulla peculiari prò numero fere omnium civitatum, quas ipsemet Caesar invaserai sive quibus aliter possidebat, Collegium totidem iurisperitorum instituit qui Rotam Caesenatem componerent, Botaleque Aaditorium atque Tribunal ad causas contentiosas ejusdem ditionis judicialiter atque collegialiter definiendas. Qnomodo- etiam Clemens P. P. VIII post annos pene centum reversa Urbe Ferrariae ad Sedem Apostolicam, in ea novam Eotalium Judiciorum formam instituit. IV. Kotam hanc Caesenatem complebat Decuri a judicum quos memorai Julianus Fantagutius Caesenas scriptor contemporaneas in suo libro manuscripto cui titulus Chaos dictus a Bernardino Manzonio "diligentissimus scriptor Chronologicus" sub Alexandro P. P. VI. Et ei eodem Juliano illorum nomina pubblici j uris fecit Scipio Claramontius hoc modo ; "Dux Valentinns auctoritate qua supra constituit Caesenae Decuriam Judicum prò supremo causarum civilium in universa ejus ditione judicio Kotam dicimus. Delegit vero ex singulis civitatibus, praeter praesidem, singulos judices. Praeses fuit ex Monte Politiano: reliqui ex Urbino, Fano, Pisauro, Arimino, Caesena, Forolivio, Faventia, Imola." (Claram. Hist. Caesen, libro 16 fol. 747). V. Sed audiamus ipsum Julianum referentem ea, quae oculis vidit, et quibus praesens interfuit : Pontificiae videlicet Bullae publicam lectionem, solemnitatem erectionis Auditorii Eotalij, primam ipsius met Rotae sessionem; ac nomina eorum qui ad fungendum Auditorij officio tum fuerunt assumpti. Idiomate namque vernaculo sub die 24 octobris 1502 inquit : "Gli auditori della Eota a Cesena 35 furono Monsignor Presidente Antonio da Hontepulciano (Praeses totius dictionis obtemperantis Duci Caesari Valentino) M. Odantonio Dandino per Cesena, e il Priore per Urbino : M. Galeotto de G-ualdii per Arimino, e M. Guglielmo Lambertacci per Forlì : M. Matteo per Pesare e M. Pier Lodovico per Fano : M. Andrea de Negosanti per Faenza e M. Annibale per Imola." (Juliano Fantaguzzi Caos MS. anno 1502). VI. Mos est quod Auditoria Eotalia peculiari aliqua solemnitate inohoentnr; quinimoet annuatim ingenti pom pa eorum Tribunalia aperiantur. Quamobrem IH alma Urbe, prima die, qua datur initium Eotae Eomanae fit eximins equitatus Nobilium virorum, consessus Auditorum, Ehetorica oratio, Convocatio Causidicorum, copiosusque con cursus Eruditorum (Bernini: II Tribunal della Rota cap. 7). Etiam igitur Caesenae die 24 junii 1501 quo exordium sumpsit primus Eotae nostrae consesscs sive in ho norem et obsequium novi Eotalis tribunalis; cujus auditores tunc prima vice simul adunati publice consederunt, celebrata fnit spectabilis et literaria exercitatio, consistens praecipue in repraesentationibus gestorum aliquot sanctorum Dei atque in recitatione Academica Poematum et car minimi plaudentium nomini et meritis novi Principis Fundatoris ejusdem Eotae. VII. Totius actionis mixtae quoque conspectibus ingeniosis rerum retinentium tam ad historicam quemadmodum ad fabulosam eruditionem recenset seriem praefatus Chronista Fantaguccius testis ocularis hoc modo: "Quest' anno in Cesena il dì di S. Gio. Battista in piaz za in presenza del Presidente e di tutti li dottori della Eota in su la sedia altissima di più gradi, dorata, pinta e ornata e tutto il popolo di Cesena: furono fatte alla sua presenza molte rappresentazioni a lode del Duca Valentino. Ciò fu il S. Franco solitario e contrafatti molti Mar tiri; e Giove su un toro o Europa; e un carro trionfale di Cesare e Cleopatra di fanciulli e fanciulle, e recita rono tanto bene li loro versi che pianse il Presidente e li circostanti d' allegrezza." VIII. Prima sessio sive congressus Eotalis habitus est die 5 julii 1503. Cui praecessit Missae solemnis cantus in Pontificalibus celobratae in ecclesia S. Joannis Evangelistae ab Antonio Monaldo Episcopo sarsinate. De qua sessione prosequitur idem Cronista Jnlianus Fantaguccius contemporaneus : "La Bota a Cesena incominciò li 5 di Luglio. Cantossi una Messa solenne dal vescovo di Sarsina con tutto il popolo in S. Giovanni, e tutti li Dotdori con capuzzastri in testa foderati di taffetà rosso, e in palazzo furono accompagnati dalli Notarli di Cesena con le mazze in mano e lì si lesse la Bolla con gran ce rimonie, e trionfo di trombe e bombarde, e poi sedettero mezz'ora e poi fecero vacazione per tre mesi." y 71 e 72 Copia de' Capitoli dell'accordo con gli Orsini e i loro collegati, 28 ottobre 1502 (Archivio di Stato in Firenze). Sìa noto e manifesto alle infrascritte Parti e qualun que altro intenderà il tenore delle presenti, che essendo nate fra lo 111.""' S. Duca di Eomagna et fra li S.' Orsi ni e loro collegati etc. alcune controversie e inimicizie e differenzie, suspizioni etc. e volendo le sopradette Parti le sopradette sospizioni e diffldenzie terminare: Panno primum vera e perpetua pace concordia e unione, con p1ena remissione di tutti li danni e iniurie le quali fusseno occorse insino a questo dì, e promettono l'uno al- l' altro mai riconoscere cosa alcuna; e per osservanza della predetta pace e unione, il prefato 111."'° S. Duca di Komagna riceve in sua confederatione lega e unione, da durare perpetuamente, tutti li prenominati Signori e cia scuno d'essi, e promette difendere li stati delli prenomi nati e di ciascuno di essi, da qualunque potentato li vo lesse molestare e offendere e per qualunque cagiono: o riservati sempre la S.tà di N. S. papa Alexandro sesto e la M.tà Cristianissima del re Ludovico di Francia. Et e converso li prenominati S.' Orsini promettono nel modo prefato concorrere alla difensione della persone e stati di sua Eccell." et delli 111.°" S.ri Don Zofrè Borgia prin cipe di Squillaci, don Eoderico Borgia duca di Sermoneta e di Biselli, e don Joanni Borgia duca di Camerino e di Neppo fratelli e nipoti d'esso Ill.mo S." Duca di Eoma gna, e a questo effetto concorrere e contribuire ciascuno delli prenominati. Item perché nel tempo delle prenominate differenze controversie e dissensioni, é seguita la rebellione e occupatione delli Stati di Urbino e di Camerino, li prefati collegati tutti insieme e ciascuno d' essi si obbligano interponere tutte le forze loro nella recuperazione? delli stati predetti e terre e luoghi ribellati e occupati. Item lo prefato Ill.mo S. Duca di Eomagna promette tenere li medesimi stipendiari e condottieri della casa Ursiua e Vitelli teneva prima etc. Item vuole e promette la Eccell.za prefata che li pre nominati condottieri non sieno obligati a stare in campo se non uno d' essi, e quelli più che a loro medesimi pia cerà.' Item promette lo prenominato Ill.m° S. Duca che la S.\ di N. S. ratificherà e confermerà tutti li presenti ca pitoli, e che non abstringerà lo E.'8° S. Cardinale Ursino d' andare a stare a Eoma, se non quando piacerà a sua Bev.re S.ria Item perché tra la S.tà di N. S. e messer Johan Bentivogli sono alcune differenze, li prefati S. confederati so no d' accordo, che tutte esse differenze s' intendino esser rimesse nel E.ra" cardinal Ursino e nella Eccel.2* del Duca di Eomagna e nel Mag.co Pandolfo Petrucci, ali' iudizio delli quali si debba etare, omni appellatione et reclamatione remota. Item li prenominati S.ri confederati tutti e ciascuno di essi si obligano e promettono, che ogni volta saranno richiesti dal prefato S.r Duca di Eomagna consegneran no in poter di sua Eccell.'" uno dei figliuoli legittimi di ciascuno d'essi a stare in loco e tempo che a quella pa rerà. Item si obligano e promettono tutti li prenominati con federati, e ciascuno d' essi, qualunque machinazione presentissino farsi contra ad alcuno di loro, farlo inconti nenti sapere all' altro contro al quale si facessi, e ad ognu no delli altri. Item sono d' accordo lo predetto S.r Duca e tutti gli altri confederati, che qualunque di loro non osservassino le cose promessegli intenda esser declarato inimico di tutti ; e sieno obligati tuttì gli altri a concorrere alla ruina delli stati di quelli non osservassino. Datum Imolae XXVIII octobris MDI1. CAESAE Io PAULO DESINO Sri. AGAPITUS. Notificazione dell'accòrdo alle città di Romagna. (Biblioteca Comunale di Forlì). Magnifici fidelesque nostri dilecti salutem. Per la pre sente ve faciamo noto che li Signori Orsini et Vitelli essendo stati chiari et satisfacti de le sospitioni haveano concepnto se sono reducti ad hobedientia de la Santità del nostro Signore et alii soldi nostri; per la qual cosa retirarano incontinenti le zente et fantaria dove per no stro ser?itio havemo commesso, e Nui con esa e con l'al tre zente nostre le quali hogi sono cominciate a zonzere in grande numero procederemo alla recuperatione de le terre ribellate. De che ci parse per vostro contentamento darve adviso per la presente. Datum Imolae die penul tima octobris 1502. CAESAE. AGAPITUS GEEALDINDS. — 550 - 73. .Relazione di Gian Pietro Ranuzzi sull'accordo con la casa de' Bentivogli, 2 dicembre 1502 (Archivio comunale di Bazzana). Capitala facta cum 111. D. D. Caesare Borgia de Fran cia Eomandiolae Duce etc. ex ordinatione prima de ipsis capitnlis facta per sanctissimum D. D. Alexandrum papam sextum ipsius dncis patre, ac Eegimine Bononiae, de qua ordinatione capitulorum rogatus fuit Kev. pater D. Adrianus episcopus secretarius et thesaurarius praefati D. Papae die 23 novembris 1502, et de quibus capitn lis et eorum stabilimento cum dicto 111. D. Duce fnit ro gatus Hercules de Borgogninis civis et notarius Bon. et D. Agaphitus Geraldinus secretarius praelibati D. Ducis die 2 dicembre 1502. In primis la Santità di N. S. farà uno breve pel quale darà facultà al S.re Duca et M. Zoanne de potere capitulare non obstante qualunque altra capitulationo facta quae ipso jure nulla est. Item chel se stabilisca e firmi el parentado tra lo 111. Sig. Duca de Eomagna e M>° M. Zoanne Bentivoglio cum el mezzo de una sorella del E.m° episcopo de Euna et de M. Costanze primogenito di M. Hannibale primogenito de ipso M. Zoanne, quale parentado N. S. si degnerà be nedire et benedice. Item che tra lo 111. S.re Duca et altri di casa Borgia don Zofredo principe di Squillaci, Don Eoderigo duca di Biselli et Sermoneta, don Zoanne duca di Nepe et di Camarino, et el M.co Eegimento de Bologna et il M.eo M. Zoanne Bentivoglio et suoi figlinoli si facci una bona unione, confederatione et legha da durare imperpetuo per se soi heredi et successori ad conservatione delli comuni stati cum obligo di correre una medesima fortuna e di bavere li amici et li inimici comuni excepto la S.a de nostro Signore papa Alessandro sesto et il Christianissimo — 551 — Ee Ludovico di Francia, et che per observantia de le sopradecte conventioni danno la fede e prometano per cia scuno delle Parti el Christianissimo Ee, excelsi S.ri Fio rentini et IlLmo S.r Duca di Ferrara, quale lega et confederatione nostro Signore si degnerà aprobare confirmare et benedire, non obstante qualunque altra capitulatione o confederatione facta per il prefato M. Zoanne o suoi agenti, o con qualunque altro quali sono ipso iure nulle. Item che il prefato M.co Eegimento et M. Zoanue siano obligati servire lo 111. S. Duca di Eomagna per 6 mesi de homini d' arme 100 et cavalli legieri 200 pagati per decto M.co Eegimento et M. Zoanne per una o due im prese che sua Eccell. designasse fare fra uno anno comenzando el dì della capitulazione, da servirsene contra qualunque excepto la S.tà de N. S. et il Christianissimo Ee, servendo per una o due volte, non passando li sei mesi in uno .anno. Item che il prefato 111. S. Duca finita la conducta ha cum el M.0° Eegimento de Bologna de homini d' arme 100 s' intenda essere riconducto et ex nunc sia S. Excell. reconducta per 8 altri anni, che seguiranno, cum soldo de ducati XII millia d' oro de Camera l' anno in modo che in fine delli 8 anni sia S. Eccell. integramente satisfacta in tucto. Item che N. S. per clementia et benignità sua conce derà gratis una bolla piombata in bona et autentica for ma, per la quale si degnerà confirmare tute le bolle et concessioni gratie et indulti privilegii concessi al M.°° Ee gimento et Comunità de Bologna et al M.co M. Zoanne tanto por la felice ricordatione di papa Nicolo quinto quanto di Paolo secondo con tutte le clausole necessarie et consuete, Absolvendo esso Eegimento, M. Zoanne soi figlinoli et famiglia, et tuto il popolo de Bologna da qua lunque pena indignatione censure et contumacie fossero incorsi per quale causa se voglia, cum restituirli e rein tegrarli ad tute le dignità offici benefitii gratie indulti etc, Acceptando nella soa gratia et clementia et benedi tione: persistenti nella fede devotione et obedientia di soa S.u et della Sede apostolica. Item per non darò qualche impedimento alle cose de Urtino et Camarino s' é determinato, che questa Capitulatione et ogni cosa in lei contenuta si tengha secretissima né si publichi per insino a tre mesi proximi da ve nire, o come piacerà al dicto Duca. Questi capitoli come s' é dicto rogati per el prefato E. M. Adriano furo facti in presentia del papa in la soa camera apostolica, camera del papagallo presenti li E.mi Padri M. Francesco Trochio e Michele Remolino cubicu larii et li quali etc. furono sottoscripti da M. f!arlo Grato oratore bolognese et da Francesco Parato da Crema can celliere del M.co M. Zoanne et furono trasmessi al dicto Duca * cum uno breve in el quale Soa Santità li da licentia et auctorità de possere fare detti Capituli. * Item ne mandò esso papa un altro simile al dicto M. Zoanne etc. E per questa licentia et auctorità havuta dal papa esso HL'"° Duca et in nome suo et de li supranomhuti de Cas- a Borgia per li quali promise de rato et che in fra uno mese ratificheranno per scriptura publica, et el nostro Eegimento e M. Zoanne in nome suo et de li soi fìglioli mediante Mino de Eossi et M. Alexandro Bntrigaro loro sindaci et procuratori per se e suoi heredi e successori, consentono a li dicti capituli et quelli ratificano et ap provano et se obligano a la executione observatione et adimplimento de tucti. Et ferono stabilirono et fìrmarono la parentella de la quale parla el dicto capitulo. Et dicte Parti in dicti modi e nomi contraxero e fereno bona concordia unione confederatione et liga perpe tua per se e soi heredi e successori. E se promisseno insieme fare et curare cum effecto remossa ogni exceptione de rasone e de facto che el pre * ・ Cassata il passo sagnato, nella minuta é riportato il testo del brave papale 25 novembre 1502. — 553 — fatfl Ee di Francia Sig. Fiorentini et duca de Ferara per tute le cose promesse exeguite e facte da l' una a l' altra parte rogate per scriptura pnblica darano la fede e pro metteranno per l'una e l'altra parte, per che le dicte pro messe faranno e curaranno che una parte osserverà et exeguirà a l' altra parte quale se contiene nel instrumento et questo in fra uno mese prosimo. A li nomini d' arme e cav alli legieri l' anno comenza el dì del instromento et volendoli li primi sei mesi lo debe notificare de 25 dì prima, et volendoli li secondi sei mesi el debe notificare de 1 mese prima. Li 12000 ducati che li dano 'se li dano acioché reten ga li soldati come si contene in li capituli do la prima conducta li quali denari debiti così per l' altra conducta come per questa nova li debiano essere pagati a quartironi secondo el costume de' franciosi. Item promise il duca de fare ch' el papa in uno mese ratiftcarà anchora la soprascripta lega e non obstante qualunque altra capitulatione la quale declararà essere nulla. Et mandarà una bolla. Item che el duca ne alcuno de domo Borgia in li dominij che hano et haverano non possano dare recetto né patire che staga in dicti lochi alcuni rebelli presenti et futuri de la cità et Comune di Bologna. Et similmente promiseno li nostri de li rebelli de tuta la casa Borgia. Item che in caso che per il Eegimento M. Zoanne e M. Annibalo in fra 6 dì non sia ratificato dicto instru mento, esso instrumento sia nullo e per non facto. Dicto instrumento fu fatto in Imola in casa de li heredi de Michele di Machirelli, presenti Tomaso Spinola faventino, D. Philippo Balduino de li Numagli, Zampiero di Kanuzo, M. Cancellieri da Pistoja, Domenego de Esti, Garganelle, M. Jacopo de Francesco, M. Pietro hispano cubiculario del papa. El quale Zampiero subcripsi. — 554 — 74. Notificazione ducale alle città di Romagna del l'alèùto di don Remiro, 23 dicembre 1502 (Biblioteca comunale di Farli). Magnifici fldelesque nostri dilecti salutem. Per coniectnra de li nostri progressi havete possuto cognoscere che Nui de natura semo d'ogni avaritia alieni et continenti da qua lunque exattione et mantenimenti con li nostri subditi a li quali ultra le remissioni de dani et affanni de l'imprese e gnere che avemo sostenute ce semo adurati di non l' impore mai nove graveze. Onde possete essere certi che ce sonno state dure et molestissime le exationi et corratele et aspreze che havemo inteso sono fate in questo nostro dominio da Kemiro de Lorqua el quale fin dal principio che fu da Noi deputato al governo de lo Stato nostro finché da Nui se ordinava el nostro Conseglio el quale sotto lo presente nostro Presidente havea sempre ad te nere lo regimento predicto, fu da Noi instantissim amente admonito che da hogni indebita exatione se abstenesse totalmente preponendoli gravissima punitione de quanto facesse in contrario. Et non guardando Noi ad fare in cso qualunque grave constituito salario de mile duecento duchati de oro per ogni anno et da mese in mese paga tolo interamente et permessoli lo emolumento de la no stra Cancellarla de la quale posseva esso fare la spesa ordinaria del vivere suo ultra che li avemo fatto gratie et doni de diverse robbe de grande valuta. E nondemanco et sì gravi sono le corruptele extorsioni et rapine le quali trovamo che generalmente ha facto in qualunque persona faccenda et iudicio li sia pervenuto a le mani et sì con tinuate le fraude che uniformemente ha commesse in tute le nostre intrate che non c'é ciptà terra e castello in lo co in tucto el Dominio nostro, né officiale et ministro de nostra Camera ducale non ce siano facte sapere de que sto gravissime querelle, et fra le altre sapere la penuria — 555 — de fermenti causata da lui per el trafico ha facto contra la nostra expressa prohibitione in mandarne fora tanta quantità che sopplito haveria sufficientemente a l' uso de nostri exerciti et a bisogno de li Stati da Noi acquistati novamente per substentatione de li quali semo adstretti mandarlo ad cercare et con grandissimo dispendio condurcelo da paesi lontani, de le qual cose tute ormai re sultano mali molti, danni et preiudicio ad Nui et alii su diti contra quanto li havemo expressamente prohibito con admonitioni et reprehensioni continue et con protesti et menatie le quali ha tutti posposti et dispregiati. Costrecti adunque et isforzati da così urgenti cagioni lo have mo facto pigliare et tenere in questa nostra rocca come ut supra ad effecto che d' ordine debito di ragione se li for mi el processo et iuridicamente siano intesi e cognosciuti soi errori ad satisfactione de lajustiziaet de Tono re no stro e delle persone offese et ad saluberrimo exemplo de tutti li altri officiali presenti et futuri. Exortame ve adun que et comettemo che sicome fine ad mo per generale querela havete fatto, cossi per spettale informatione debiate investigare gli inscripti portamenti facti, dal predicto contra vostri ciptadini districtuali et contadini tenondove tanto più certi et sicuri de la nostra deliberata et ferma intentione che siate per l' avenire con iustitia e con integratezza recti et gubernati sicome tucta intendemo se habia ad fare per modi et stili che oportanamente ad tale efecto ordinamo et stabilemo. Datum Caesenae 23 decembris anno Dni 1502. CAESAE. AGAPITUS. Dux Eomandiolae Valentiaeque princeps Andriae ret Venafri Dominus Plumbini etc Magnificis viris fidelibns nostris dilectis Antianis civitatis nostri Forlivij. — 556 — 75. Promessa di re Luigi XII per l'accordo co' Bentivogli, 27 dicembre 1502 (Archimo di Stato in Bologna). Ludovicus Dei gratia Francormn Siciliae et Hjerusalem Eex : Dux Mediolani etc. Decens repntamas et jnri congrnum ut ea, quae de voluntate consilio et consensi! nostro procodunt, ut firma et illibata permaneant: Regia* fidei et promissionis nostrae munimine robur et firmitatem perpetnam adijecemus; vidimns Capitulationem factam inter Car.m°9 consanguineum nostrum Caesarem Borgia Dncem Valentinensem et alios de domo Borgia ex una et Mag.cnm Eegimen et populum Bon. ac Joannetn Bentivolum et dicti Jo. filios partibns ex altera: accedente consensu et voluntate S.mi D. Alex. sexti Pontif. maximi, et ex indo per et inter ipsas partes stipulatala rathificatam et approbatam: quae quidem Capitulatio per dictas par tes ad Nos transmissa fuit et extitit tenoris et continentiae infrascriptorum etc. Ipsaeque partes de ea, quam erga illas gerimns affectionem confisi sibi invicem mutuo promiserunt Nos prò huiusmodi Capitulationis observationem, fidem et promissionem nostram praestituros effecturosque ut quicquid in ter se partes ipsae convenerunt utrimque observeretur inviolabiliter. Nos igitur inter eos quibus afficimur: quosque rogiae Coronae et domui Pranciae devotos esse cognovimus, nec non in suo bono statu protegere et con servare tenemur, unionem, caritatem et benevolentiam super dictarum partium honestissimis in hac parte desideriis favorabiliter annuere volentes, praemissa Capita la et eorum singula et ab eis quolibet dependentia et connexa quantum in Nobis est approbamus et confirmamus ac perpetuae firmitatis robur adjicimus per dictasque partes observari hortaraus et eniximur. Promittentes — 557 — in fide et verbo Eegio prò viribus illa in totum et in qualibet parte per ipsas partes inviolabiliter observari facero Gompellendo ubicumque opus fuerit per omnia jurisetfacti remedia parteminobservantem ad illorum plenam observantiam. Nosque illorum partes tanquam nostras suscepturos promittimus, qui foedera et coniunctiones hujusmodi observaverint quos ut a se promissa et conventa sicuti debent observent Nos omni studio et favore nostro, ac quibus opportuerit remediis, re ipsa compellere conabimur. Et ita praemissa omnia bona fide nostra et verbo Kegio pollicimnr et promittimus. In quorum omnium fidem et robur et testinionium praemissorum praesentes litteras propria manu signatas fieri et consueti sigilli nostri appensione muniri jussimus et fecimus. Datum Loces vigesima septima mensis decembris anno Dni millesimo qaingentesimo secando, et Eegni nostro quinto. LOTS Per Eegem Dno CAEDINALI DE AMBASIA in Francia legato nobis et aliis praesentibus EOBEETET. 76. Lettera ducale al luogotenente ed agli Anziani di Forlì, sopra la .presa degli Orsini in Sinigallia, 7 gennajo 1503 (Aa\Y Historia ms. del Bernardi). Magnificis viris fidelibus nostris dilectis locumtenenti et Ancianis nostrae Civitatis Forlivii salutem. Superflua cosa seria narrare da capo la malignità venefica de li Orsini e de li loro complici contra la S.tà del nostro Si gnore et contra de noi, essendo già nota e manifesta et detestabile a tuto el mondo, li quali non obstante che fusero subditi de la S.tà pr.*" e soldati de quella et no stri ben veduti et acarecciati da figlioli et fratelli come vuoi sapete et olira de questo beneficiati et acresuti da — 558 — essa e da noi de stati a doppio de quello che prima haveano, ce sono mancati a tempo de mazori bisogni et vol tate le arme nostre contra noi medesimi adoperandole con tuta loro forza contra li stati et contra la persona de la p.u S.li et nostra, per hopra de li quali el dominio ciptà et terre e populi nostri de Eomagna et de Urbino Montefeltro et de Camerino hanno tante calamità patate et pateno, del che ce dole infino a l' anima. Et non contenti a questo né considerando la clementi a de la p.ta S.u e nostra de haverli tanto remeso e perdonato novamente da se medesimi suono voluto venire a l'impresa nostra de Senighaglia facendo credere che erano cum poca gente dove che conducevano tute le fortie loro cum le quali e cum la intelligentia et ajuto de la rocha de* Senigaglia machinavano contra nostra persona quello che havendolo noi presento et chiaramente inteso elli avemo saputo pre venire et exeguire in loro medesimi. Et cusì in uno me desimo momento havemo presi inSinighaglia la ciptà vec chia e la nova elle persone del duca de Gravina e de Paole Orsini e de cavalier Orsino e de Vitelocio da Castello et de Liverotto da Fermo, et tute loro genti publice et oculte havemo desvalisato et destructe: per la quale cosa el ca stellano veduto che li disegni erano mancati ce rese de subito la rocha. Vitelocio et Liveroto predicti perché li malifici et l' atroce iniquità loro sono universale et no tissimo furono immediate puniti per morte più subita et crudelle, imperhochè la natura nostra non haveria possuto permetter una milesima parte de li suplicii et vilipendii che la loro seleragine meritava. Li altri Orsini menamo presi ad simile fine. Et procedemo cnm lo exercito nostro a la pnnitione et exterminio de tuti li altri con sperantia tanto tradimento et exterminio che nano facti et erano per fare. Del che credemo che tutto el mondo habia ad esserne contento et lieto et massime l'Italia vedendo che in questi é rapresa et extracta la publica et calamitosa peste de li popoli. Et maiormente dovete ralegrarve voi che tanto havete da loro patuto et erate — 559 — per patere se el nostro Signor Idio non ce havesse porto in tempo el remedio con reprimere tanta malignità loro, de la quale cosa ce pare debito et ve comitemo debiate rendere gratia ad epso nostro Signor Dio, et farne con veniente demostratione et festa solenissima. Datimi Sinigaglia die primo iannari 1503. CAESAE etc. S. E. E. confalonerius generalis. AGAPITUS. 77. Breve di papa Alessandro VI agli ufficiali della Balìa di Siena per la cacciata di Pandolfo Petrucci, 25 gennajo 1503 (Archivio di Stato in Siena).. Alexander Papa VI. Dilecti filij salutem et apostolicam behedictionem. Cum superioribus diebus venisset ad Nos Pepus cancellarius Pandolfl Petrutii nobisque coram Cardinali sancti Severini et oratoribus Christianissimae Majestatis ac oratoribus senensibus vigore litterarum credentialium exposuisset ipsum Pandolfum, intellecto' adventu dilecti fllii nobilis viri Caesaris Borgiae de Francia ducis Komandiolae et Valentiae contra se decrevisse ne patria ista detrimentum pateretur potins cedere et istinc proficisci, scripsimus ei propositum suum laudantes eumque h ertati fuimus ut antequam idem Dax ulterius progrederetur istinc quam primum discedere vellet: postea vero intelleximus ipsum Pan dolfum tamquam in eodem proposito et discendendi deliberatione perseveraret et ab eodem duce salvum conductum quo tutius discedere posset impetrasset, idemque dux credens eum ita facturum caepisset cum toto exercitu versus has partes iter facere, nihilominus verbis et scriptis om nibus ac recepto etiam salvoconducto spretis cum istic 'manere, nec ullo pacto discedere velie dixisse. Quare idem dux contra eum versus civitatem istam iter cum toto — 560 — exercitu direxit: ex quo Nos non parum admirati quod contraricta et promissa sua ruinam potius patriae istius et desolationem et omnia publica ac privata confundere, quam istinc recedere velit, scribendum iterato ad eum dnviiniis.... admonentes ut illico et sine dilatione aliqua istinc discedere curet: quod si forte, quod non cre dimns, adirnc obstinato animo resistere decreverit propter id quod du cem ipsum cum toto exercitu centra eum ad civitatem istam omni belli periculo cum toto eius territorio subijciendum progredì compellet : Nos etiam ex quo omnes et omnia ita spernit et deludit centra eum omnibus nostris viribus procedemus, nullatenus desinentes qnonsqne istinc sicut pollicitus totiens est cum effectu discesserit, quem admodum Eeinaldo Pungano vestri viro quem Mnc illico discedere inximus dicimus; voluimus etiamvobis haec omnia significare vos per nostra in vos et istam rempablicam peculiari affectione hortantes, ut ad evitanda scandala et manifestam ruinam ac desolationem vestram sine ulteriore mora ipsum Pandolfum istinc eijcere velitis; ac prò certo asseverantes ipsum ducem Pandolfo et Joanni Paulo de Ballionibus istinc profectis buc ad nos sine ul teriore lesione aut alio nocumento rediturum : in qua re saluti ipsius Pandolfi ac quieti et indemnitati vestrae et istius reipublicae satiflet. Datum Romae apud sanctum Petrum sub annulo piscatoris die XXVI Jannarii MCCCCCII, Pontiflcatus nostri anno undecimo. Dilectis filiis officialibus Baliae et Comuni Civitatis senensis. — 561 — 78. Lettera del duca agli stessi da Pienza, 27 gennajo 1503 (Archivio di Stato in Siena). Magnifici et excelsi domini amici tanquam fratres no stri precipui salutem. Hogi XXVII del presente in que sta bora XXIII del predicto havemo receputa una lettera de Cipriano nostro Cancellerò, scripta heri in Siena : per el tenore de la quale molto prolixamente exteso in vostra excusatione, restamo chiariti che al contracte stipulato tra nui, et ali capitoli in esso contenuti non havete cu rato dare alcuno effecto: palliando tale dilatione, con la umbra che volete mustrare haver presa per la venuta de Alessandro Scipioni et de Julio Belanti, vostri cittadini et per la promessa che centra verità pretendete bavere hauta da nui, per la patente portata da loro, che non innovariamo fine ali XXVII del presente: dove che sola mente in quella se affiraa che se per tucto el dì predecto non haveriate per effecto mandato Pandolpho fora de la Città, et dominio vostro; procedemmo contro de Voi, come più ampiamente in essa patente se contene : unde se non che consyderato lo breve spatio che horamai resta ad fare questa ultima prova de le promesse vostre, le quali de novo co havete facto per lettere del predecto Cipriano, che per tutto domane che serà el sabato Pan dolpho serà andato via : ce seriamo ad questa hora mossi ad farve intendere che nui non semmo da essere cossi de lusi da voi : però che é tanto il disdegno che per tali mo di vostri meritamente havemo conceputo, che non lo poteriamo per lettere exprimere, senza parole non conve nienti ad Nui; et juramo ad Dio che se in qualunque bora receperite la presente, non haverete o già cacciato, o non cacciarete immediate senza più dilatione el decto Pandolpho ; Nui repntaremo ogniuno de voi in loco de Pandolpho et senza intermissione alcuna ce moveremo ad totale exterminio de tutte le terre, subditi et beni vostri, 36 — 562 — et de la vostra città, et vostre proprio persone; ad fin che poi deliberate esserci inimici restiate in tal modo ab battuti et depressi, che mai per alcun tempo ce possiate offendere. Et come fine ad mo ne sete ale grati de la benivolentia de casa nostra, cossi habiate ad restare pen titi de la inimicitia solo per vostro defecto causata, per cosa de la quale voi medesmi doveriate essere li ministri, et recepere ad grandissima obligatione, che con le nostre forze proprie et senza né adiuto né spesa de quella Eepnblica ce siamo cossi affectatamente disposti ad libera re quella vostra Patria da cossi dissonesta Tyrannia. Datum in castris pontiflciis ad Pientiam XXVII ianuarii MDIII. Caesar Borgia de Francia Dnx Eomandiolae Valehtiaeque Princeps Andriae et Venafri Dominus P1ombini etc. Magnificis et excelsis dominis officialibus Baliae Civitatis Senarum amicis tamque fratribus nostris praecipuis. S. B. E. Confalonerius et Capitanens generalis. 79. Minuta di lettera della Signoria di Genova al Duca, 10 febbraio 1503 (Archivio di Stato in Genova). 111."'° Dno. Caesari Duci Valentiae Plumbinique Dno. nobis non. Ill.mo etc. M. Bartolomeo Catullo faventino familiare e servitor di vra. Ex. sotto lettere di credenza ne ha re ferto prudentemente quello che la p.u vra Extia desideria si facesse circa lo decreto de la vena del ferro de la quale già altra fiata ha scripto e mandato qui adducendo ac comodamento a suo proposito quello li est parso indurne a lo effecto de lo parlar suo; onde di novo desiderosi di — 563 — gratificarla havemo denuo domandati da noi quelli del decreto et con tuta quella efficatia che a noi è stato pos sibile li havemo confortati a voler prendere cum esso messer Bartolomeo qualche expediente: non siando in mano nostra, atteso la institutione facta de dicto decreto con egli per tanti vinculi e promissioni e juramenti, poter fare altro, chéjpur volenteri haveressimo voluto trovar qualche via de intrarge: li quali ne han responso et di-, cto volere persister nel pacto che hanno cum noi pregan done a non farli oltragio siando pronti per parte loro di observar quello a che sono obligati. Le quali tute cosse a longo dicto m. Bartolomeo ha inteso in modo che sia mo restati cmn malinconia grande di questa facenda mo vendone da un canto il desiderio di compiacere a vostra Ex.tia da l'altro la iniuria si faria a li nostri citadini quando si havesse a conscendere a la domanda facta la quale cossa non si potria fare senza prejudicio grande de la fe de data. Stando adunche la cossa in questo termine la preghiamo acceptare la bona dispositione de lo animo no stro : havemo però confortati quelli del dicto decreto a man dare da vostra Ex.tia a farli meglio tuto intendere cum vedere se mezo alchuno si pò trovar che possi e a vostra Ex.tia e a loro satisfar, e cossi manderanno. Data Januae die X februarij 1503. 80. Lettera ducale al presidente di Romagna, 27 febbrajo 1503 (Biblioteca com. di Farli). E.d° Patri nobis dignissimo salutem. In loco del capitanio de iustitia el quale era preposito de farse ad exequitione de quanto per la P.t8 vostra cum el Colegio del nostro Consiglio se ordinava, constituiti havemo questi quatro infrascripti Commissari ciascheduno da farse da essi predicte bordine Colegio habendo anchora spetiale cu — 564 — ra sopra le cose del Stato como per là forma de le lor patenti vederà V. P.tà Essi sono silìcet el nostro mazordomo m. Cristofaro a Turre spagnolo sopra Forlì Faventia Imola, et m. Jeronimo Bonadia spagnuolo sopra Ce sena Eimino et Pesaro et M. Andrea Cossà sopra Fano Sinigaglia et Fossombrone cum la Pergola, et m. Piero Eemires spagnolo sopra el ducato de Urbino cum el con tà de Montefeltro. Li quali V. P. voglia a bocha et per sue litere animare et in instruire a li officii predicti et potissimamente a la guardia de lo Stato e ad obviare a qualuncha mala pratica de subditi et cum loro concorrere ad quanto sia bisogno affinché possano eleggere et pre sentare a la P. V ordinare idonee persone a, li minori offici et potissimamente a quelli che curano la guardia de le terre et lochi et ancho a li béheficii ecclesiastici che non ascendono al valore deduchati le quali persone V. P. instituisca a li ofltii predicti per nostre patente et curi che li beneficii siano ben provveduti Oatùm Sutri pe nultima februarii 1503. CAESAE. AGAPITGS. 81. Dalla relazione di Ludovico Clodio arciprete di Caldarola sul governo di Camerino. .... Accerto la S. V. che se vi era adesso un Papa di sposto, i Camerinesi conseguivano la libertà, e fra loro si tagliavano a pezzi, ma questi che si chiamano dflcheschi perdevano, perché non hanno seguito e sono pochi. Non dia V. Santità carica militare ad alcuno di Camerino, perché tutti sono huomini, che si fanno animosi, e tra vagliosi per le mutationi, et pigliano seguito di brigata. Non dia loro condictióne in Eoma, perché non sentano il gusto e l'amicitia della Chièsa. Non é bene, che facciho il Conseglio, perché non imparino a dominare, e perché — 565 — non crescano di reputatane, e di credito, con studiarsi alla libertà. Si eleggano diece o dodeci consiglieri, tanti cioé per terzfero dal Signor Duca, per conferire in cento anni alcuna cosa. Habbia cura il .Governatore d'aggiu star subito l' inimicitie ; guardesi egli con la famiglia di non invaghirsi di donne di Camerino, che non la perdonarebbono i Camerinesi non solo a lui, ma, per così dire, ne meno alla S. V. o al Signor Duca et metteriano la città sottosopra. Non si può esprimere quanto siano impatienti e gelosi delle loro donne. Sia il vescovato iuspatronato del Signor Duca. Levi la S. V. i benefitii di quel Francesco, e li comparta fra' cittadini perché divenghino nemici di coltello della famiglia Varana, coni' era questo Arcidia cono e Francesco, i quali mancò poco che Gio. Maria non facesse decapitare per questo solo rispetto. Quel sasso di Camerino é piccolo, onde importa grandemente la inimicitia di trenta, o quaranta case. Loderei che si sospendes sero gli offitii con distribuirli discretamente fra coloro, a i quali furono bruciato le case. Moggi é Thesoriere del signor Duca Angelo di Melchiorre in cui l'oiHtio é ben collocato, per essere ricco et huomo da bene ; ma perché tutta la terra va dietro a lai, et a i figli, et ha gran se guito, é malissimo impiegato; onde saria più confacevole alla persona del Governatore. Non lodo, che gli usciti stiano fuori, perché sono potenti di parenti in Camerino; né per questo dico, che si mettano dentro, ma per tem peramento vorrei, che destramente fussero i medesimi in dotti a ostaggi, per evitare lo scoglio della libertà, per la quale si fanno seguire queste rivolutioni. Affermo be ne di certo che Gio. Maria haveva gran timore, che non vi fusse alcuno che volesse uscire, e voleva menar seco M. Domenico. Non vorrei ne meno sangue, come alcuni, i quali vorrebbero vedere correrne le strade; la città sta pur troppo atterrita per l' error commesso. Agli ambascia tori, o a gli altri di Camerino non dia la S. V. cosa par ticolare per evitare mille incunvenienti. Il fare della roc ca và co' suoi piedi, e sarebbe a proposito serrare alcune — 566 — porte, e ridarne due o tre in fortezza. Facci elettione la Santità V. d' uomo di cervello e d' animo, e di notitia di quello stato, che é bello buono et importante, ma é d'una grandissima cura e difficoltà, che però Gio. Maria sperò sempre che la Santità vostra non barerebbe trovato nud rao che l' intendesse. Ella é sapientissima, et a me basta d' aver detto quel che io sento fedelmente con amore e divotione. 82. Ordinanza della Signoria di Genova, 27 maggio 1503 (Archivio di Stato in Genova}. Philippus etc et .Consilium etc. universis et singnlis capitaneis potestatibus rectoribus consiliis et universitatibns locorum et terrarum in nostra orientali ripparia constituta salutom. In questo punto havemo letere de la S.u di N. S. lo papa dato a Eoma dì XXIII del presente, per le quali ne avisa sua Beatitudine come Francesco Trochio suo primo camararo est fugito da Eoma e a li XXIII del presente est montato a Civitavegia in uno bri gantino de levanto provisionato per Stefanino de Clavari e Peregrino Morello per dover vegnir in questa nostra cità o sia vivere in questa per qualche suo delitto o sia prejudicio perpetrato contra sua Beat."e e la M.ta del Christianissimo re nostro signore e lo 111. Duca Valentino. Et però ne strenze a fare ogni opera che dicto Francesco sia preso e stallato; per la.qual cosa vogliando come est ben obedire a li comandamenti di sua Beat.no siando in questo iuncto lo interesse de la M.tà del X.m° re nostro signore vi imponemo e comandiamo ad ogniuno de voi che siando capitato in quelli loci vostri dicto Francesco Trochie aut accadendoli vegnir statim lo detiniate e arrestallate soto bona custodia dagandone di subito aviso per volante messo. Et questo sotto pena de li beni vostri e de la disgratia del nro Signore, commandando espres— 567 — samente a dicti Stephanino e Peregrino e ad ogni altra persona che era in dicto brigantino che sotto pena de beni e vita retegnano dicto Franc, a fin si possi conse gnare a li commissarii de la S. de nro S. li quali man da qua sua Beatitudine. In quorum testimonium nostras literas registrari iussimns sigillique nostri impressione muniri. Data Januae die XXVII maij 1503. 83. Diploma di privilegi alla città di Senigallia, 10 giugno 1503 (Arch. coni, di Senigallia). Caesar Borgia de Francia Dei gratia Dux Eomandiolae Valentiaeque, Princeps Andriae et Venafri, Senogalliae et Plumbini Dominus, ac S. E. Ecc. Confalonerius et capitaneus Magnificis viris fidelibusque nostris dilectis Antianis Populi, et Communi civitatis nostrae Senogalliae salntem. Petitionibus vestris per speciales Oratores vestros ad Nos destinatos expositis favorabiliter annuere et munificentiae nostrae gratiis vos ornare et augere intendentes, ut eo ferventius in vestra erga Nos fide et obedientia persistatis, quo maioribus gratiis vos fuerimus prosecuti. Statuta vestra in usu et viridi observantia persistentia, quatenus justa et rationabilia sint, approbamus confirmamus et observari mandamus. Concedimus quoque vobis, quod in civitate vestra Senogalliae Potestas per vos deputandus resideat cum suis consuetis officialibus, qui in illam ordinariam iurisdictionem et causarum in prima instan tia cognitionemhabeat, et qupd eligi et deputari possint per nostrum Locumtenentem prò rebus communitati vestrae incumbentibusquattnor Antianiduobusmensibus duraturi; et quod causae appellationum et secundae instantiae per Locum tenentem cognoscantur, tertiae vero por nostrum Gene rale Consilium cum ordine facultate et arbitrio per Nos in dicti Consilii constitutione decretis. Volumus etiam.quod ad officia dictae Civitatis ejusque Comitatus non nisi ejusdem — 568 — cives eligi et deputati possint, oxceptis Locumtenente Ca stellano Potostate et Officiali Guardia, qui tamen ad dieta officia non recipiantnr, nisi loco eorum originis et continnae residentiae ultra viginti miliaria distent a dicta Civitate; Constituentes ac mandantes, quod in poenis et mulctis tam realibus quam personalibus et mixtis excedi forma dictorum Statutorum non possit, nisi per Nos ant nostrnm Consilium fnerit aliter ordinatum. Concedimns insuper, quod intra Civitatem praedictam et ipsius Villas milites et stipendiarij ad hibernandum aut aestuandam deputari non possint, et quod ipsius Civitatis districtuales et Comitativi adstringi non valeant ad taxas ipsis militibus et stipendiariis praebendas, nisi apud eos actn permanentibus provisoque civium domus sitae in districtu et comitatn a militum stationibns exemptae conserventur. Statui mus etiam et mandamus quod ad novas et insolitas onerum impositiones, nisi urgente necessitate cogi non possitis sed per Camerae nostrae officiales ex Civitate Districtn et Comitatu praedictis eosdem introitus percipi eosdemque exitus fieri, qui hactenus percipiet fieri consueverunt. Ut autem onera Communitati vestrae incumbentia commodius forre possitis, concedimus vobisutcollectas tam reales quam personales sive per aes sive per libram, sen prò fructuum rata aut per fumantium, quoties opus fnerit cum Nostro sive Consilii ant Locumtenentis nostri assenso imponere et exigere valeatis, a quarum collectarum solutione nullus Crvium nullusque extraneus bona stabilia in dicta civitate ejusque districtu possidens exemptus fore "enseatur, prout hactenus exemptos non fuisse affirmatis. Et .ut a damnorum parte, quae vos hactenus ex male actis et administratis Vicariorum pertulisse asseritis sublevemini, quascumque concessiones, pacta et conventiones in vestrum praejudicium factas et initas per eos cum quibuscumque tam subditis nostris quam aliis, praesentium tenore revocamus annullamus ac prò revocatis et annnllatis haberi volumus et mandamus. Ut etiam largitiouis et liberalitatis nostrae fructus uberiores percipiatis, ex — 569 — quibus vos posterique vestri conditionem in melius com mutasse gaudeatis, jns constitnendorum et deputandorum officialis damnorum datorum et notarli civilium tam civitatis quam Comitatus, ac proventis ex danmis datis et dicto notariati! proventis ad Nos et Cameram nostram Dncalem spectantes et pertinentes, quos ducentnm et vigintiquinque ducatorum anri summam non excedere affirmatis ad decennium a data praesentium compntandum et immediate subsequendum, ut ex eis incumbentia onera commodius perferre possitis et aquam in civitatem perducere et fonte in ea salientem erigere, ut vos facturos promissistis Comunitati vestrae, concedimus donamus et libenter elargimur; mandantes Thesaurario nostro generali, ut du rante dicto decennio proventus et emolumenta damnorum datorum et notariatus praedictorum percipiendos in -dictos usus convertendos Comunitati vestrae remittat. Vos autem tali fido et promptitudine sicut speramus erga Nos gerere vos studeatis, ut ad ampliores gratias Nos efficiatis vestris studiis propensiores. Datum Romae in Palatio apo stolico decimo Junii Anno Domini millesimo quingentosimo tertio, Ducatus vero nostri Eomandiolae tertio. CAESAE. Mandatu Illmi Dni Dncis FUDERICUS MAETIUS. 84. Diploma di privilegi alla città di Bertinoro, 20 giugno 1503 (Archivio comunale di Bertinoro). Caesar Borgia de Francia Dei gratia Dux Eomandio lae Valentiaeque Princeps Hadriae et Venaphri Dominus Plumbini et Isoduni ac S. E. E. Confalonerius et capitaneus generalis. Spectabilibus viris fidelibus nostris dilectis Antianis Consilio et Comuni Civitatis nostrae Bertinorij salutem. Quieti commodo et tranquillitati vestrae oportune — 570 — consulere cupientes et quaerelarum ac conténtionum materiam amputare, quae inter eives et comitatinos saepe oriri consueverunt, statuimus nonnnllas conventiones et pacta per vos ipsos inita nostrae sanctionis robore ut efflcaciora aint communire. Atque ideo decernimus et ordinamns ut in dieta Ci vitate non nisi una quolibet anno possit collecta sive dativa imponi atque ea modo infrascripto ut videlicet prò quolibet capite ejus, qui noctnrnam custodiam non fecerit aut uon aliquo privilegio exemptus sit solvantur solidi dnodecim : prò quolibet vero fu mo seu fochulari solidi qainque: et quod reliquum erit per libram exstimorum ex cuius collectae pecuniis solvantnr Antianis dictae nostrae Civitatis quolibet anno librae triginta sei : Potestati prò residuo eius salarij cui datiorum non satis est introitus libre triginta quinque: Depo sitario Commnnis libre dnodecim: Cancellano Communis viginti quattuor libre: Medico libre centumviginti : Magistro scholarium libre centum sexaginta: Comestabilibus portarnm libre quadragintaquinque : Tubicini libre viginti quattuor : Claverio portarum libre sex : Plazariis libre triginta sex : Pro oblationibus ecclesiarum libre quinquagintaquinque . Oratoribns Communis libre centum : Pro aliis rebus extraordinariis libre centum. Statnimus praeterea et statuendo sancimns ut omnes qui damnorum custodiam gerere consueverunt et cuncta etiam extfa portas habi tante s civitatis iusta tempus a Statuto praescriptum omnia damna data atque dari in posterum contingerint in eorum custodia vel centrata denuntiare custodi, et nisi id fecerint donno ipsi solvere ac satisfacere damnorum passis, nec propterea ad solutionem capitum solidorum teneri ad quod nisi a custode compellantur ipse custos una cum aliis hominibus dictao ville de suo proprio id facere cogatur omni prorsus appellatone et exceptione remota : Cui forensem accusanti non credatur nisi per unum testem fide diguam et inratum probaverit. Volumus insuper et mandamus nt cives omnes comitatinis districtuales et forenses bona stabilia in territorio Britinorij possidentes omni anno — 571 — contribuere debeant ad exhauriendos et purgandos aquarum cursus quos tracturos appollant Bevani alveum et fossas aquas publicas exportantes per totum mensem octobris sub paenis in Statutis appositis, et quod ipsarum aquarum ofHcialis teneatur id per preconem per mensem antedictum tempus denunptiare et eo tempore exacto una cum civibus et notarlo a Consilio deputandis ulla custo dia omne territorium circuere et illos omnes qui praedicta non fecerint omni solemnitate obmissa deputatis civibus approbantibus condemnare nec poenas ipsas exigere nisi prius opus ipsum fecerit contrafacentium expensis adimpleri et officialis id negligens duplici poena puniatur et privetur officio salario ejus et omni poenarum portione que et quolibet competere possit, et quod in deputandis officialibus damnorum servetur ordo, jam pridem constitutus manu Ser. Francisci Manini dicitur apparerò. Et donique decernimus et declaramus omnes comitatinos dictae nostrae civitatiset forenses et caeteros qui a XX annis citra id facere consueverunt taxas militibus deputatas et deputandas sol vere debere praeter quam Consiliarios eorumquo familias et eos etiam de quorum domibus ab anno millesimo quingentesimo sexagesimo quinto aliquis fuerit de Consilio aut erit in posterum exemptionem ex privilegio Communitatis habentes. Mandantes officialibus nostris quibuscumque caeterisque ad quos spectat quatenus praesens nostrum decretum et indultum observent et faciant omnibus inviolabiliter observari et adim pleri, in contrarium facultatibus non obstantibus quibuscumque. Datum Eomae in palatio Apostolico XX Junii Anno MDIII. CAESAE. (sigillo) _ 572 — 85. Diploma di privilegio agli uomini del Castello di Serravalle, 20 giugno 1503. Caesar Borgia de Francia Dei gratia Dux Eomandiolae Valentiaeque, Princeps Andriae et Venafri, Dominns !'!ii mi i': i: i etc. S. E. Ecc. Confalonerius et Capitaneria generalis Pidelibus nostris dilectis Universitari et hominibus Castelli nostri Serravallis salutem. Publicae utilitati conduccre arbitramur, nt benemeritis gratia referatur, qno fit ut hi qui aliquod recte, ac prudenter per virtutem gesserunt condigna reportantes praemia, in eorum laudabili proposito conflrmentur, et alii illorum exemplo et emnlatione impulsi ad ipsam virtntem capessendam, et similia promerenda concitontnr. Atque ideo vos Serravallenses antedictos qui proximo bullo per defectionem et rebellionem Statuum nostrorum Urbinatis, Montis Feltrani et Terrae sancii Marini exorto in fide nostra permanentes assidnis hostium nostrorum, et potissimum oppidanorum sancti Ma rini incnrsionibus temptati et circumfusi; non modo il lorum impetum et conatus fortiter et constanti animo sustinuistis, sed malo mulctatos repulsistis : ac vos, vestrumque oppidum in nostra devotione et fide conservaste, favoribus et gratiis prosequi, et petitionibus vestris per spetiales vestros oratores ad nos destìnatos Nobis expositis annuere volentes, ut et ferventins in ea fide persistati quo majoribus gratiis vos fuerimus prosecuti. Statata vestra in usu et viridi observantia persistentia quatenus iuxta et rationabilia sint approbamus, confirmamus et observari mandamus, Oppidumque et populum vestrum a cuiuscumque obligationis et subiectionis vinculo et onere quibus oppido, Comuni et Populo Sancti Marini tenebamini absolvimus penitus, et liberamus liberosque et absolutos esse et haberi volumus et mandamus. Volentes ut deinceps Vicarius per Nos eligendus necessarium jns vobis dicat modo, jnre et forma quibus alii Vicarii in similibus oppidis nostris jus dicunt. In reliquis etc. Datum — 573 — Ròrùae in Palatio apostolico vigesirao die Junii, A. D. millésimo quingentesimo tertio, Ducatus vero nostri Éomandiolaff tertio. CAESAE. Mandata Illmi Dui Ducis FEDERICUS MAETIUS. 86. Dedica premessa all' edizione delle Rime del Petrarca fatta da Jeronimo Soncino in Fano, 7 lu glio 1503. Ad Illustriss. et excellentiss. principem Caes. Borgiam Aemiliae ac Valentiae ducem etc. S. E. È. Veiilliferum Hieronymus Soncinus. Già sonno doi anni excellentissimo et invictissimo prin cipe che piacendone l' aere et sito et la fertilità de la tua devotissima cità di Pano : et la familiarità et ingegni àelli habitanti in essa : deliberai in quella vefire ad habitare, et l'arte impressoria de li libri exercitare. Ove trovandone in quel tempo el E. legato apostolici) Monsignor Card. de sancta Balbina già optimo praèceptore de tua excellentia: homo veramente degno de tal dignità; e de ciascuno virtuoso amatore et fautore : a sua S. E. me raccomandai, et fecili intendere el mio pensiero esser totalmente disposto a fare in dicta cità el mio per petuo domicilio, et ivi condurre intagliatori di littore et impressori non vulgari et vili, ma a tutti gli altri più excellenti. Per el che essendo stato da sua E. S. benignamente exaudito; ho voluto observare quanto da me era stato pro messo. E per mia exhortatione non solo sonno venuti quivi li compositori tanto notabili et sufficienti quanto sia pos sibile adire: ma anchora un nobilissimo sculptore de lit tore latine graece et hebraice chiamato M. Francesco da — 574 — Bologna, l' ingeno del quale certamente credo che in tale exercitio non trove un altro equale : Perché non solo le nsitate stampe perfectamente sa fare : ma etiam ha ex cogitato una nova forma de littera dieta cnrsiva o vero dicta cancellaresca de la quale non Aldo Eomano, ne al tri che astutamente hanno tentato de le altrui penne adornarse, ma esso M. Francesco é stato primo inventore et disegnatore, el quale e tucte le forme di littere che mai habbia stampato dicto Aldo ha intagliato e la praesente forma con tanta gratia e venustate quanta facilmente in essa se comprende. Et perché tutti semo humili et devoti vassalli de tua Excellentia et alla nostra servitù se apartene sempre invocare el felice auspicio de te nostro Il lustrissimo et clementissimo Principe : et a quello offerrire le primitie do le nostre exigue lucubratione. Per tal respecto destinamo et dedicamo la presente opera a tua Excellentia, non per cosa nova, ne conveniente a quella, dedita non a gli amorosi stipendi, ma alla militar disci plina ; la quale con li soi clari et admirandi gesti in que sto nostro secolo sommamente amplifica et adorna. Ma solo per djtre cognitione a tua Eccellentia de la nostra devotione, et servitù verso quella, et de questa nova et inusitata stampa. La quale si (come speramo) non gli serà ingrata: mediante el divino aiuto, e la gratia de quella, ce sforzaremo ogni giorno a quella dedicare cose più celebre, et sublime: a la celsitudine de la quale hnmillimamente ce raccomandamo. In Pano Caesaris adi VII de Julio MDIII. 87. Minuta di risposta della Signoria di Genova, 20 lu glio 1503. (Archivio di Stato in Genova). Ill.mo principi Dno Caesari Borgiae de Francia Dnci Eomandiolae etc. et s,te romanae ecc.e confalonerio et capitaneo generali Dno nobis honor.d<> — 575 — 111. me princeps nobis hon.de S'é visto quanto ce scrive la vostra Ill.ma Signoria circa la differentia est tra quella e questi nostri citadini del decreto per causa de la vena del ferro e inteso quanto ce ha esposto per parte de vo stra Ex.*'" m, Bartolomeo Catulo suo servitore e familiare. Eicorderemo quello che più fiate li havemo facto intendere desiderare noi tanto lacontentessadevra Ex.tia como la no stra propria : ma la fede nostra data a quelli del decreto, li privilegii et decreti assai e grandi non patire che contro la voluntà loro li possiamo astrengere. Di novo però havemo commisso a quelli quatro citadini li quali prima bave ano maneggiato questa cosa che cum quelli de esso decreto vedessino se modo alcuno se po' trovare aciò vo stra Ex.tia resti contenta. Le quali hanno audito ipso m. Bartolomeo e questi nostri a longi ragionamenti aco standosi tuta via più al poncte e partiti ragionevoli, ma in essi ragionamenti se est inteso in dicto messere non essere balia alcuna, la quale quando l' avesse havuta forse che dicti nostri se serieno scoperti più oltra, e così manchando la balia ad ipso m. Bartolomeo e non vegliando descendere più oltra essi, la cosa resta a l' usato che ve ramente voressimo havesse preso termine ma persuadessi la S.ra vostra che dal canto nostro non siamo per man care e tanto siamo fare per quella come per le cose no stre proprie: essa est advertita de tuto ordine, dispona quello che li parà appartilo e noi non mancheremo a lo officio nostro per la quale se offerime in ogni sua grandessa. Data Januae die XX julii 1503. PHILIPPUS etc. et Consilium etc. Copia de' capitoli convenuti fra il duca e gli agenti francesi in Roma, 1-6 settembre 1503.4; (Archivio di Stato in Firenze}. Ghapitres acordés entra tres révérend pere en Dieu, monseigneur le cardinal de Saint Séverin, les seigneurs — 576 — de Trans, de Gtrammont, evesque de Benes, chancelier generai de Naples, pour et en nona da Roy de Franco tres chretien d'nne parte, et hanlt et puissant seigneur monseignenr le Duc de Valentinoys et de fiomagne chevalier de l'ordre du Roy notre dit seigneur, d'autre. Et premieremente a esté dit et accorda entre les des sudits, que quoy que lo dit Duc, puis le trepas de no tre feu Saint Pére papa Alexandre VI, ait envoyé querir les Colonnoys estants au service du Eoy d'Espaigne, ennemy du Eoy notre dit seignenr, et les avoir faict venir en ceste ville et capitnlé aveques eulx, sans l'avoir faict savoir au Eoy notre dit seigneur, ne aulx des sudits cardinal ambassadeurs et autres officiers et serviteurs da dudit seigneur, estans en ceste ville de Eome : ponr occasion de quoy le Eoy notre dit seigneur et les sudits vraysemblement ayent eu suspecon contre lo dit Duc, et qu'il eut semblablement capitulé aveques le Eoy d'Espai gne et se adherer aveques luy et prendre son party ; et aussy que iceluy Duc, depuis le decés de notre dit Saint Pere, ne s'est en facon quelconque dit ne declairé ponr le dit seignenr; neantmoyns avoir ouy pnis troys ou quatre jour en fa le dit Duc qui s'est declairé anx dessudits de vouloir servir le Eoy notre dit seigneur envers tons et contre tous, sans nuli excepter, si non le pape et Saint Siege apostolique, sede vacante, et 1ny ayder et securir presentement de tonte sa pnissance, tant de gens de guer re a cheval que de pie qu'il à de present et qu'il aura selon son poevoir et les fair joyndre des a present ave ques l'armée du dit seigneur; disant oultre le dit Duc. que quelques capitulations qu'il eust faict aveques les dit Colonnoys, il n'avoit jamays capitulé aveques les Espaignols, ains avoit reservé le Eoy notre dit seigneur en la dite capitulation, Nous dessudits pour et au noni dn dit seigneur avons promis et acordé, prometons et acordons qne le Eoy notro dit seigneur prent des a present icelny Duc et ses parens ensemble leur terres et seignenries heritaiges et autres biens tant meubles que inmeubles, — 577 — en sa protection et sauvegarde, et de luy aider a preser ver et garder toutes ses dites terres et seigneuries, et la ou puis le dit trepas de notre dit Saint Pere lesdites terres du Duc ott aucunes d' icelles auroient esté perdues par surprise des ennemys dudit Duc rebellion on aultrement, luy ayder a les recouvrer et l'en reintegrer et faire reintegrer en son entier. Et pareillement nous Cesar Borgia de France Duc de Valence et de Eomaigne etc. avons promis et acordé, prometons et acordons au Eoy notre dit seigneur et aulx dessudits pour et au nom de iceluy seigneur, de servir le dit seigneur envers tons et contro tons,sans nuli excepter si non le Pape et Saint Siege apostolique comme dessus est dit, de luy aider et bailler des a presenttous les gens de guerre que avons tant de cheval que de pie selon notre pouvoir, et iceulz des a present faire joindre aveques l'armée dudit seigneur pour le servir en son present affaire du Eoyanlme de Naples et ailleurs, ou il luy plaira, et de tenir son party, luy obeir entierement et faire comme bon serviteur vassail et chevalier de son ordre doit faire. En tesmoing de quoy nous dessudits avons signé de DOS propres seings manuelz et scellé de nos armes cestes presentes. Le premier jour de septembre l'an mille cinqcens trois. 89. Narrazione del cancelliere della città di Orvieto sulla ritirata dei fanti romagnoli, agosto-set tembre 1503 (Ex libris Communitalis). : Applicuerunt Civitatem Urbevetanam pedites duo millia omnes de Flaminia, seu ut aiunt, Komandiola, sub ductu Magnifici Domini Hyeronimi Eemolini camerarii se creti Illustris. Domini Ducis, euntes versus Urbem ad servitia Illustris. Ducis ; et cum non permicteretur ingredi Civitatem, timerentque spoliari et intercipi si ulterius 37 — 578 — progrederentur, ab inimicis dicti Ducis, inclinantibus jam rebus ob mortem immaturam S. D. N. Pape, idem dominns Hyeronimus petiit a Magnifico Domino Gnbernatore et Conservatoribus quod dictis peditibns ingredi permicteretur, prò suis necessitatibus sibi comparandis, saltem, alternatis vicibus. linde habito super hoc decreto Civiura electorum prò custodia Civitatis, concesserunt dicto domino Hyeronimo, ut dicti pedites, sic alternatim, prò eorum indigentiis, depositis armis, ingredi possent Civitatem, donec alio iter dirigerent aut aliter de se, totse- ,pti difficultatibus, deliberarent. Qaum neque progredì pòterint, paratis jam insidiis Ursina Domus : qui jam caeperant arma centra Ducem et regredì minus, reversis jam gontibus Ballionum de Perusia, et civitate et statu potitis, expulsis Corrado de Ballionibus et aliis nobilibus, qui favore dicti ducis regebantnr, nec non Duce Urbini et Do mino Camarinonse in statum eorum, a quo Dux dejecerat, reversis; tandem relictis armis caeteri, ut quam plnres, bini et singuli hac illac digrossi abiere, prohibente dicto domino Hyeronimo, qui quinque nobiles Imolenses et Forlivienses, dictarum gentium Capitaneos in arcem detrndi fecit ; et tandem, intervento civium nostrorum, liberati fuerunt, et incolumes abiere. Parumque post, Conranitas Porliviensis scripsit Comuni nostro litteras, quibus referebat immortales gratias, quod sic Cives nostri de suis, in tantis angustiis et calamitatibus, fuissent .benemeriti. Tunc incepit fortuna rebus Ducis adversari, et quem tot victoriis et dominatibus in fastigium quoddam rerum collocaverat, asperiorem vultum induta, eum tote Italie formidabilem timere docuit. Ipse vero urbe digressus, Nepim se recepit... — 579 — 90. Lettera del Presidente di Romagna al maggior domo ducale, 8 settembre 1503 (Archivio co munale d' Imola). Magnifice Domine tamquam frater amantissime salutem. Per altre ho facto intendere ad V. S. el prospero successo nostro contra questi feltreschi che cum tanto nome venivano atterendo tutto questo paese, et cum la animosità de questo popolo una cum li nostri soldati, et per l'ordine preso cum li lochi circumstanti, non solo ce hanno potuto offendere, ma hanno habuto caro haver tem po et via de scampare et far bone gambe. Per la qual cosa non potria declararle quanto era lo appetito et de siderio de queste gente nanfci posasseno l' arme de andarne di bon animo a la volta de Arimino cum proposito de intrar dentro assistendoli el M. Castellano et levar de lì Pandolfo cutn poco honore : il che ancora non hanno de posto de la mente quanto accaderà la occasione et se vederà el tempo ad ciò disposto. Inde già non mi pare inconveniente a questi tempi se da lo Ill.mo S. Duca de Ferrara ne se fa la offerta de docento cavalli, rengratiando sua Ex. per li bisogni del nostro S. Duca absente, acceptarla, cum lì quali se potiamo valere in li lochi necessarii ad far provisione, et se li in Porlì bisognerà re tenerli se potranno operare, et etiam quando cum questì sia bisogno fornirse lì de bona gente, me lo advisi, per ché di qua farò venire mille fanti nomini valenti da far omni experientia, et anco qualche cavalli ben armati, li quali ad questo puncto etiam non li potendo dar denari voluntieri son venuti a la deffensione del Stato del S. Du ca. Et però V. S. sia attenta et vigilante se le cose de li fossero in qualche evidente periculo come pò cognoscere essendo in facto, la me ne dia adviso a tempo, benché ancora semo in pensiero provveder ad Pano de qualche gente et mandare alcuno a la rocha de Pesare et Senigallia, se serrà -possibile mandarli et vederò mandare Cen.ta fanti de quelli sono qui se li potrò imbarcare. Eengratio V. S. de li advisi mi ha dati del nostro S. Duca, benché ne ho inteso alcuna cosa. Cosi intendendo altro in posterum voglia avvisarne et el simile sarà avvisata da me. Et bene valeat- Caesenae VIII septembris MDIII. V. M. Tanquam frater A. DE MONTE Praesidens gener. Magnifico Domino tamquam fratri amantissimo D. Oristoforo Torres docali maiordomo et Commissario degnissimo. 91. Minuta di lettera della Signoria di Genova a Jacopo d'Appiano, 13 settembre 1503 (Archivio di Siato in Genova). Duo Piombini. Sublato ex humanis Alexandro sexto Pontifico mai. Ill.me princeps tanquam frater et amice charissime, cttm nobis relatum fuisset vos ad status vestri recuperationem discessisse idque summo studio a subditis vestris expeti prius vos Plumbino potitum fuisse agnovimus, quam istuc pervenisse vos nemo sciret; et quamvis non a certo quopiam auctore referretnr ex ipsa cum fama letati sumns mox ubi propinquorum vestrorum testimonio comprobatmn est eo tunc majori gaudio aifecti sumus quo ex adversis rebus superioribus mensibus plus contristati fueramns, nam in utraque fortuna sive ea adversa sive secunda fuerit quidquid contigisse quod idem nobis non fuerit comane. Accedit ad hoc quod nostri estis sanguinis cujns magna solet esse vis. Congratulamur D. vre. prò recuperato stato, subditis vestris prò restituto Dno vel potius parente qui tam verae fidei obsequia erga D. sumn exhibuerunt per — 581 — petuam sibi gloriam promeriti sunt. Habendae igitur sunt omnipotenti Deo gratiae, orandus idem quod sicut recordatus misericordiae suae vos post biennium in patriam re stituii: ita in ea din quiete costodiat, nos enim in omni re vestra commodis vestris bene semper animatos et promptos habebit pront et nostra amicitia et jus sanguinis exposcit. Data Januae die XIII septembris MDIII. 92. Minuta di lettera del duca Ercole a Cesare per la sua' guimgiònp, 15 settembre 1503 (Archivio di Stato in Modena). Ad Ill.mum D. Ducem Eomandiolae. IH.re6 Princeps et Ex.me. Domine afGnis et frator noster honorande. Cnm grande piacere havemo lecto la lettera de V. S. per la quale la ne significa per Dio gratia es sere revaluta de la indispositione sua che é stata grave e pericolosa. Del quale adviso la rengratiamo summamente, essendoni stato gratissimo et iocnndissimo inten dere de la sua convalescentia ; a la confirmatione et conservatione de la quale confortamo et exhortamo v. Ex.tia ad ponere ogni studio et cura. Et laudamo grandemente la adherentia sua facta cum la Christ."'" M.u secundo la ne scrive : il favore de la quale non dubitemo gli prestarà honore et adiumento. Et circa le cose sue di Eomagna Noi havemo mandato persona idonea a quelli populi a fare lo effecto che V. S. inanti la partisse da Eoma ci fece ricercare per lettere del nostro Oratore di Eoma, per tenire ben disposita et firmati li animi loro a la devotione de V. Ex.tìa Come l' baverà potuto intendere le nostre gente d'arme se trovano nel campo del Cristianissimo S. Ee. Eendemossi certi che la autorità et voluntà do sua Chris.ma M.tà farà tale provvisione, che V. S. dove accaderà il bi — 582 — sogno serà soccorsa per la sua protezione. Et a V. S. ne ricommandemo et a li soi beneplaciti ne oft'rimo. Qnao ben<; valeat. Codogorij 15 sept 1503. HEBCULES Dux Ferrariae etc. 93. Lettera del Duca alla Signoria Fiorentina, per ringraziarla degli aiuti offerti, 22 settembre 1503('Archivio di Stato in Firenze). Magnifici viri et excelsi Domini tanquam fratres praecipui. Essendo advisati da li nostri commissarii de Eomagna de la bona disposìtione de le Signorie Vostre in volerce liberamente prestare ogni subsidio, non solamente io defiensione de quelli stati nostri, ma in recuperatione 4e le cose perdute, certamente come quelli che ad Noi é stata accepta tale oblatione, ne rengratiamo quelle of ferendoli bavere ad essere slmilmente sempre prontissimi ad ogni commodo, honore et satisfactione de esso Vostre Signorie. Le quali instantemente pregamo, veglino perse verare con quello bono animo verso de noi, et procedere onninamente che decto subsidio sia pronto ad requisitione d' essi Commissarii nostri, persuadendose indubitatamente le Signorie Vostre che quelli adiuti ce prestarano, sono non meno per se medesimi quanto che per noi, possendo disponere de Noi et de le cose nostre quanto che de le proprie. A le quali sempre ce recommandamo. Ex Nepete XXII septembris MDI1I. CAESAB KOMANDIOLAE VALENTIAEQUE Dui. Cyprianns. — 583 — 94.- Breve di papa Pio III alla Signoria Fiorentina per il salvocondotto di Cesare. 13 ottobre 1503 (Arch. di Stato in Firenze}. Pins pp. III. Dilecti fllii salutem et apostolicam benedictionem. Cupientes ut dilectus filius nobilis vir Caesar Borgia de Francia Dux Bomandiolae et Valentiae S. R. E. Confalonerins, quem ob ejns praestantea et eximias virtutes pa terna dilectione complectimnr se cum sua comitiva et exercitn rebnsque et bonis ad sui Ducatus Eomandiolae Civitates et loca quae ab hac Sede in vicariatimi obtinuit, tute et commode transferre possit, devotionem vestram in Domino hortamur requirimusque ut ipso Duci et comitivae ac gentibus armigeris suis secundum liberum et amicabilem transitum et receptum per quascumque istius vestri dominij et jurisdictionis terras et loca exhibere ac salviconductus patentes literaa in formaque cum praesentibus mittitnr ad eum quantocins fieri poterit transmittere velitis et commissarios insuper deputare qui ipsum suosque omnes per terras et loca vestra praedicta deducant et curent propter temporis difficultates in mansionibus sub tectis recipi, sibique et suis praedictis necessaria justis praetiis subministrari, nec eum cum comitiva et exercitu antedictis a quoque offendi seu quomodolibet in jurisditiono vestra impedire permittatis. In quo Nobis admodum complacebitis et rem gratissimam efficietis. Datum Eomae apud Sanctum Petrum sub annulo piacatoris die XIII mensis octobris MDIII. Pont, nostri anno primo. N. ADVOGAEIUS. Breve di Giulio II ai Faentini in raccomandazione di Cesare, 3 novembre 1503 (Biblioteca com. di Faenza). Julins papa II. Dilecti filli salntemet apostolicam benedictionem. Cani dilectus fllius noster nobilis vir Caesar Borgia de Francia Dax Komandiolae et Valentiae S. E. E. Confalonerius post obitum fere Alexandri VI praedecessoris nostri se sacro Collegio, et deinde sanctae memoriae Pio III etiam no stro praedecessori immediato et Nobis obbedientissimmn obsequentissimum praebuerit, spemque optimam de eo conceperimus, ut Sanctae Eom. Ecclesiae in opportunitatibus admodum ntilis sit futurum, Nos qua illum paterna charitate complectimur praemissorum consideratione eum vobis dnximus commendandum, mandantes expresse, ut ei tanquam nostro in temporalibus vicario in Ducatu Eomandiolae generali pareatis, obediatis et intendatis iuxta formam literarum apostolicarum super vicariatum huinsmodi concessarum, ut si qui forsan in terris dicto Duci commissis temerario ansu se ingesserint, eos reiciatis et repellatis, prout bonos et fideles S. E. E. subditos et filios decet. In quo praeter quam quod nostro officio, vestraeque fldei satisfacietis, gratissimum Nobis erit, nam si secus, quod absit, contingeret fieri, non possumus id non molestissime ferre, et debita animadversione inobedientes punire. Datum Eomae apud sanctum Petrum sub annulo piscatoris die III novembris MDIII ante nostrara coronationem. I. SIGISMUNDUS. Dilectis filiis Antianis Populi, Consilio et Communi Civitatis Paventiae. 96.

       Breve di Giulio II alla Signoria Fiorentina. 10 novembre 1503 (Archivio di Slato in Firenze).  Dilecti' filli salutem et apostolicam benedictionem. Cupientes quod dilectus filius nobilis vir Caesar Borgia de Francia dux Eomandiolae et Valentiae S. E. E. Confalonerins prò recuperandis et tuendis Civitatibus et terris Ducatus sui Eomandiolae quas a Nobis et Sancta sede ap.lica in vicariatimi obtinet, illnc se cum copiis suis conferat, devotionem vestram hortamnr in Domino, ut pro solita vestra erga Nos et praefatam Sedem reverenttam ipsi Duci una cum curialibus et gentibus armigeris nec non rebus et bonis suis, per civitates et loca juris et dominii vestri tutum iter et amicum sub tectis propter anni tempus receptum praebere, et eo de publicas ad eum litteras salvi et liberi conductus ac commissarios qui ista fieri cnrent, mittere velitis. In quo Nobis rem gratissimam facietis. Dncem enim ipsum propter ejus 1nsignes virtutes et praeclara merita praecipuo affectu et cantate praecipua complectimur. Datum Eomae apud sanctum Petrum sub annulo piscatoris die X novembris MDIII ante nostram coronationem. I. SlGlSMUNDUS. 97. Patente di Giulio II ai Cesenati ed ai Bertinoresi 18 novembre 1503 (Archiv. com. di Bertinoro). v Julius p. p. II. Dilecti filii salutem et apostolicam benedictionem. Cum ante nostram ad apicem summi apostolatus assumptionem nunc1arentur damna atque molestiae quae post obitum fere Alexandri VI nostri praedecessoris vobis inferebantur, do — 586 — Inimns saepe ex corde, Vos enim et Civitatem istam nostram ob egregiam vestram in Sanctam Eomanam Ecclesiam fidem semper magnifecimns et amaviuras. Postea vero quam Domino disponente ad summum Pontificatun} licet immeriti evecti fuimus, hocinprimis curandum duximns, ut ab omni ininria tati in pacis arnenitate tranquillissime vivere valeatis, estis enim paecaliaros nostri et ejngdeffl Ecclesiae lilii. Qnare volumus vos bario animo esse, ipsa enim Ecclesiae mater et domina vestra suo gremio vos sinnque confovebit, et ita proteget, ut nnllins minas ant vim timere possitis. Hortamur perinde ac monemus vos charitate paterna, ut caeterisque dimissis, ipsius S. E. E. arma vexillaque solum erigatis, et nomen tantum ipsins Ecclesiae acclametis et invocetis, et in hac quoque re ve stram fidem et sinceram obedientiam ostendatis. Qnod si feceritis, ut confidemus, quotidie magis laotari poteritis: prout v.lis frater Angelus Ep.us Tiburtinus orator noster corani aut per litteras latius explicabit, cui fidem praestabitis. Datum Eomae apud S. Petrum sub anu lo piscatoris die XVIII novembris 1503 ante nostram Coronationem. SIGISMUNDUS. 98. Altra patente di Giulio II alle città di Romagna per il vescovo di Ragusa, 24 novembre 1503 (Archivi com. d' Imola e Bertinoro). Julius p. p. II. Dilectifilii salutemet apostolicam benedictionem. Licet ex aliis nostris litteris nuperrime ad vos scriptis dare intelligere potneritis optimum auimum nostrum in vos qui civitatem istam nostram peculiarem et fidelissimam sub immediata nostra et S. E. E. protectione tenere et sub alis nostris fovere ac ab omni iniuria et molestia tueri decrevimus, tamen ntapertiusintelligatisNobismaximae cnrae esse res vestras et in ea voluntate persistere, commisimus ve nerabili fratti Johanni archiepiscopo Bagusino referenda rio et assistenti nostro domestico, quem civitatis nostrae Bononiae et totius provinciae nostrae Eomandiolae gubernatorem cum potestate legati de latere deputavimus, ut vobis super his ad maj orem vestram consolationem aliqua nomine nostro referat, in quibus plaenam ei vel litteris ipsius fidem praestare potestis. Datam Eomae apud S. Petrum, sub annulo piscatoris die XXIIII novembris M DI li ante uostram coronationem. SlQISMUNDUS. Dilectis filiis Antianis et Communi Civitatis nostrae, Caesenae, Brittonorii, Imolae etc. 99. Breve di Giulio II ai Cesenati per la consegna della rocca, 3 dicembre 1503 (Bibl. com. di Cesena}. Julius p. p. II. Dilecti filii salutoni etc. Mittimus dilectum fllium Carolum Moncavalerium Camerarium nostrum secretum ad recipiendam arcem istam nostram Caesenae cujus intersignia refert nostro et S. E. E. nomine, ut tutius et libentins sub nostra et ejusdem Ecclesiae immediata protectione, sub qua quaemadmodum alias scripsimus vos te nere et gubernare, Deo f avente, decrevimus permanere possitis. Quocirca devotionem vestram hortamur in Domino, ut qui hactenns boni obedientissimi et fidelissimi ejnsdem Ecclesiae Matris et Dominae vestrae fuistis in posterum quoque in eadem fidelita te et obedientiae persistatis, praesertim cum Nos habituri sitis in omnibus comodis et piis desideriis vestris liberales atque propitios. Datum etc. IlI decembris 1503. Anno primo. Altro breve di Giulio II per la rocca di Cesena, 5 gennaio 1504 (Archivio di Bologna). Dilecti fitti salntem et apostolicam benedictionem. Castellanus Arcis nostrae Cesenae, qui eam nomine Valentinensis Ducis obtinet magna rebellione in Nos utitur, magnisque damnis fidelissimos Nobis cives Caesenates quotidie afficit, non sine nostra molestia et iniuria. Quocirca cum Arcem praedictam expugnare auctore Domino intendamus, sciamnsque vos habere multa aenea tormenta muralia. quae expugnationi hujusmodi sunt necessaria, devotionem vestram requirimns et hortamur, ut in singularem nostram complacentiam tormenta ipsa cum pileis ferreis et lapideis ven. fri Johanni archpo Eagnsino provintiae nostrae Eomandiolae gubernatori commodare benignissime velitis. Quod si feceritis ut speramus, praeterquam quod Nobis gratissimum praestabitis obseqnium, praetium dictarum pilarum et pulveris, si illud quoque concedetis, integre vobis faciemus persolvi. Dat. Eomae apud S. Petrum sub. an. Piscatoris die V januarii. Fontificatns nostri anno primo. Dilectis flliis Antianis, Consulibus, Vexilifero institiae et Sexdecim Eeformatoribus Civitatis nostrae Bononiae. 101. Altro biglietto di Giulio II per la rocca di Forlì 6 marzo 1504 (Àrch. di Stato in Firenze). Pr. magnifice, D. Petre P. Molto ci maravegliamo che avizandoce voi per molte vostre el castellano de Forli bavere molte pratiche cam molti de volerli vendere quella rocha, et volere denari e non carta, che voi non li ab biate offerto volerli dare quello ne trova da altri; che pu — 589 — re sapete voi mosser P. P. ve detemo tale commissione quando partiste da noi de doverli oferire denari, et sa pete scripsemo a Piorenza vi fossi disposto del denaro quando bisognasi. Si che vedete ad ogni modo de bavere decta rocha o per denari o per altra via; et quando la possiate bavere per denari, pigliatela et lasciate stare le altre speranze, quia mora est periculosa, et facte che non manchi: imperò chel denaro sarà presto, dummodo non passi la summa de ducati XV milia. Si che per manche potete farlo, meglio sarà. Bene valete. Ex palatio aposto lico VI martij. JDUUS pp. II m. p. Eever. Domino Archiepiscopo Eagusino, et magnifico Domino Pietro Paulo de Calilo. Caesenae. 102. Frammenti del breve ai Reali di Spagna per la cattura del duca, 11 maggio 1504. Eegi et Keginae Hispaniarum. Cum in principio nostri pontificatns Venetorum dux et Dominium civitates nostras Paventiae et Arimini, nonnullaque alia loca in provincia nostra Eomandiolae occupassent, ac Nobis iniuriam illam expostulantibus, civitatesque et loca ipsa repetentibns respondissent se in odio Caesaris Borgiae ducis Valentinensis quem prò hoste habebant fecisse ; Nos civitates ipsas et totam illam provinciam, cui apertissime ipsi Veneti inhiabant sanctae Eomanae ecclesiae servare cupientes, matura deliberatione habita, nallam viam nec i'aciliorem nec magis expeditam invenimus, quam ut ipse Caesar dux Valentìnensis Eorliviensem, Caesenatem et Britenoriensem dictae nostrae provinciae arces, quae in ejus potestate erant, nobis redderet; quo facilius civitatem Faventinam recuperare et a reliquia urbibus provinciae antedictao Venetornm impetnm propulsare possemus : magno enim nobis dedecori ac conscìentiae oneri erat, si pateremnr sanctam Eomanam Ecclesiam nobis divina dispositione commissam, tot praeclaris urbibns nostro tempore spoliari. Exercitum equidem nullum habebamns nec pecunias, quibus illum comparare ea celeritate, qua opus erat possemus. Itaque de consilio venerabilium fratrum nostrorum S. E. E. Cardinalium ad has conditiones cum ipso duce devenimus, quas et exem plo bullae praesentibns intercluso majestates vestrae intelligent. Delegimns autem Cardinalem S. Crucis, cui ducem ipsum, qui ei plurimam confidebat, committeremus prae caeteris etiam prò majestatum vestrarum honore, quarum negotiis idem Cardinalis multum se semper ingessit; cnjus suasu etiam postquam ipse ad arcem nostram Ostiensem quam sibi in potestatem libere dederamus, hac de causa, cum duce ipso profectus est, multa concessimus, quae nunc in dedecus nostrum et grave prejndicium Apostolicae Sedis redundant Cardinalis tamen ipse monitis nostris neglectis, esc ipsa bora, qua nuntium de restitutione arcium Caesenae et Britonorii accepit, qui non mari in triremibus nostris ad hoc eidem Cardinali concessis, et ab ipso duce petitis. ut constitutum erat discessit, sed terra Neapolim est pro fectus ibique a dilecto filio, nobili viro Gundisalvo Fernandi vestrarum Maiestatum locumtenente generali, prout in ter eos convene rat, sub illius salvocondnctu receptus est: ubi nunc non cessat moliri et agere quae nobis et S. E. E. sint contraria ; nam ipsi castellano Forlivii, quem antea monuerat ne arcem nobis redderet, nuper ut compertum habemus multas pecunias misit, effecitque ut Castellanus ipse prout timuimus, civitatem nostram Porliviensem tortnentis bellicis verberare inceperit, et se nobis hostem quodammodo profiteatur Quae omnia Maiestatibus vestris, quarum respectu multa ipsi duci indnlsimus, significare voluimus, ut qui S. E. E. devotissimi filii et constantissimi defensores semper fui stis, non permittatis ab nomine in fidem vestram recepto statura eiusdem ecclesiae perturbari etc. Datura Eomae apud S. Petrum die XI mai MDIV Pontificatus nostri anno I. 103. Narrazione del segretario ferrarese G. Magnanini sulla morte di Cesare, 12 aprile 1507 (Arch. di Stato in Modena). Illmo. Sig.e — Non essendo ancora partita la cavalcata che doveva partire questa mattina dove una mia del die de beri, hoggi circa le 19 hore il E.mo Cardinale mandete a dimandarme, et giuntò a Sua S. ritrovai in camera sua Sanzo che sta cum la Duchessa, et subito il Card. come il me vide dixe : Ben la é pur vera la morte del Duca Valentino. Et dimandando che ne sapeva de certo sua Sig. el me rispose che in camera de Sanzo era G-rasica, già staflero del prefato Duca, quale lo ha visto morto et ac compagnato a la sepultura. Il quale Grasica referisce che essendo venuto fuori il conte rebelle che se cerchava expugnare de uno suo castello, per dannegiare li inimici, il Duca se gli oppose, et havendo già posto in rotta la gente del Conte, dixe, a quelli de la parte sua, che do vessero fare come lui, imperò che li inimici erano rotti, et ch' '1 mandete a dire al Ee suo Cognato che '1 segui tasse, imperò che gli voleva dare il Conte preso ov. as sediato. Et che credendo il prefato Duca essere seguitato percorse molto avanti et longi da li soi più de uno tra cio de balestra, e che il sopragionse al soccorso del Conte circa 20 fanti, et che il duca se retrovava solo cum uno da Navara che mai lo abandonete, et che '1 se era spinto tanto oltra non da altro effecto se non per certiflcarse cum lo occhio se '1 prefato Conte se includeva nel Ca stello; facendo poi pensiero de assediarlo in quello loco. Ma vedendo la moltitudine de li fanti soppragionta al- l' opposito, et vedendo che '1 non era seguitato come lo haveva ordinato, fece pensiero de retirarse : cussi il Navarro prese il camino ad una mano et lui ad un' altra; et sopragiongendo li fanti non essendo armato d' altro die de uno corseto brazaleto et celata, fu ferito, pare, da una pichia et di poi impiagato ad infinite, a numero ben de 22 on 23. Questo é quello che ho potuto racco gliere del caso del prefato Duca ; et dicto Grasica dice ch'el se ritrovete accompagnarlo a la sepultura, et che '1 caso suo fu a li XI on XII de marzo, uno veneri. Di poi la gionta de dicto G-rasica é arrivato qui Tullio de la Duchessa, che era stato mandato per sua Sig. al pre fato duca, quale avendo inteso per camino il medesimo, on simile, se ne é ritornato et narra questo. Sopragionse messer Antonio de Constabili che dice similmente come é decto de sopra. Ferrariae, XII aprilis 1507. Ex.til V. Servus fid. HIEE. MAGNANINUS. Illmo et Ex. Dno Alfonso Duci Perrariae etc. Pag. 8 Im, 31 qaarta egloga sesta egloga ,45 . 3 e 4 da Silvio Savelli Nella lettera a Silvio Savelll nella lettera , 110 .. 18 Dal papa Del papa ., 222 . 11 le mollarono lor mollarono "" 260, 22 Antonio dal Monte Antonio dal Monte zio di Giulio III m 269 "" 3 armi prima anno prima "" 270 "" 2 del trattato dal trattato "" 297 "" 22 per dargli per darle "" 325,, 18 la più disgraziata pò- la pia dispreizata potenza tenza "327 "" 9 ne rimetteva ae ne rimetteva "" 385 "" il tanto vanto vanto "" 401 "" 1 che cui

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     2016年12月27日